Esibizione di un cadavere

... storia di un amore che non fu.

Ricordo di un amore

Inizio oggi, con queste parole, una categoria che nasce morta, destinata a esaurirsi quando si esauriranno i ricordi, già scritti, che sto per riprodurre. E' il ricordo di un'ossessione - o, meglio, di un innamoramento vissuto come ossessione, come una serie di immagini che s'imponevano alla coscienza riluttante rendendole impraticabile ogni altro contenuto. Un'ossessione che mi comprimeva il cervello che, come un topo impazzito, cercava vie di fuga in un altrove inesistente: un futuro immaginario, un luogo lontano. I ricordi che, numerati ma senza altre modifiche, riprodurrò in questa categoria furono scritti nella primavera del 1998, quando ancora non avevo conosciuto M.S. ma già si era esaurita questa ossessione che durò dal 1991 al 1995, raggiungendo il suo climax nei primi mesi del 1994. D. è testimone che fu vero tormento. Funzionò, tuttavia, come un potente vaccino: da allora ho perso la facoltà di innamorami e di illudermi in quel modo. E, soprattutto, vista a distanza di dieci anni, tutta la storia - che non fu una storia, ma un unilaterale monologo davanti a un muro bianco, silenzioso - mi pare la conferma della famosa frase con cui Aldo Busi apre il suo Seminario sulla gioventù:
"Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce a un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco, e anch'io ho creduto fatale quanto si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato".
Non si potrebbe dire meglio. Che abbia inizio, dunque, la catartica danza...

1

Eccolo lì che arriva, anche questa volta sembra materializzarsi dal nulla. E tu che da mezz'ora lo aspettavi, guardando a destra e a sinistra, non sapendo da dove sarebbe venuto, visto che nella Trautenaustrasse ci si entra da entrambi i lati. Ti volti ed è lì, col suo sorriso un po' sghembo, come uno che voglia chiedere scusa. Esattamente come due anni prima: allora eri sotto l'orologio dell'Alexanderplatz e nella confusione guardavi un po' dappertutto e poi te lo sei trovato davanti.

2

Gli cavavi le parole di bocca, altrimenti lui non parlava. Era seduto di fronte a te in quel bistro di Wittenbergplatz - che due anni dopo hai trovato chiuso, con le assi di legno inchiodate sull'ingresso -, le mani nascoste tra le ginocchia. Si tormentava. Tu parlavi perché non scendesse il silenzio completo. Poi, quando ha alzato la mano, hai visto la stilla di sangue che gli usciva dall'indice della mano destra.

3

L'aereo partiva di mattina. Lui l'avevi rivisto due giorni prima e poi più niente. Sei arrivato in anticipo all'aeroporto e l'hai trovato, immobile, accucciato su una rastrelliera (un portaombrelli?) di fronte ai banchi di registrazione della Lufthansa. "Aspetti me?" gli hai chiesto, sorpreso che si fosse fatto quasi un'ora tra S-Bahn e autobus, da Karlshorst a Tegel, soltanto per venire a salutarti. "Sì, chi se no?" ti ha risposto. Indossava mocassini neri e calzini bianchi. La sua solita aria dimessa. Nonostante la tua gioia - e il suo bel pensiero - non siete riusciti a dirvi niente ("kein ordentliches Gespraech", come ha scritto lui poi, anni dopo, ricordando quell'incontro in aeroporto). "Devo entrare nella saletta imbarchi" gli hai detto, "ti devo salutare". E, prima che potesse ritrarsi, gli hai dato un bacio sulle guance. Il primo e l'unico che gli avresti mai dato.

4

La prima volta che vi siete visti è stato sull'Alexanderplatz. Gli avevi telefonato e dopo un imbarazzato contrattare lui ti aveva detto di aspettarlo lì, sotto l'orologio con le ore del mondo. Non sapevi se l'avresti riconosciuto.
L'hai riconosciuto. Giacchetta nera, jeans stinti, mocassini neri e calzini bianchi. Vi siete salutati, ti ha sorriso. Tra gli incisivi candidi aveva una minuscola foglia di spinacio.

5

Seduto accanto a te in un vagone della S-Bahn, ha cominciato a fare delle smorfie. Quando gli hai chiesto che cosa avesse, ti ha risposto, in francese: "Qu'elle est laide", riferendosi alla donna che vi stava di fronte.

6

L'ultimo appuntamento che vi siete dati è stato all'ingresso della Humboldt-Universitaet. Era novembre, lui era vestito di nero e, sotto la giacca, portava solo una maglietta bianca. Aveva sostituito i suoi occhiali dalla montatura maldestra con le lenti a contatto. Si era trasformato. ("Mi riconoscerai? Sono piuttosto cambiato" ti aveva scritto nella lettera precedente l'appuntamento). Siete andati al bar dell'hotel Radisson, nella Karl-Liebknecht-Strasse. Lui ha preso la solita cioccolata calda, tu il tuo caffè. Nulla era cambiato: si è dipanata la conversazione imbarazzata di sempre - una delle tante. E quando siete usciti, gli hai chiesto che cosa avreste potuto fare fino alle sei e mezza. Se voleva venire da te. Ma lui, inaspettatamente, ha detto che di lì a poco aveva un altro appuntamento sull'Alexanderplatz. Ti aveva inserito in uno spazio vuoto tra due altri impegni. Un compito sgradito da assolvere.
E l'hai visto che, con passo spedito e più leggero, passava sotto il ponte della S-Bahn di Alexanderplatz. Non lo sapevi, ma sarebbe stata l'ultima volta. Era novembre.

7

La prima volta che vi siete visti lui ti ha detto che eri diverso dalla fotografia che gli avevi mandato. "Diverso in che senso?" hai voluto sapere. Non ti ha risposto. Due anni dopo, gli hai ricordato questo episodio. Ha detto "Sì, è vero", ma nemmeno allora ha voluto spiegarti perché.
Tu lo hai tradotto da solo e soltanto per te: 'sei meno bello. Anzi, non lo sei'.

8

Nelle sue prime lettere traspariva, tra le righe, il desiderio di piacere, l'ansia di non essere accettato, la spinta ad adeguarsi, anche solo alle aspettative di uno sconosciuto. Quando gliel'hai raccontato - in quel bar del Radisson - ha sorriso imbarazzato, dichiarando: "A quante cose presti attenzione, tu". Così hai pensato a una possibile definizione, tra te e te: 'ecco che cos'è: è attenzione'.

9

Di malavoglia aveva accettato che lo accompagnassi a casa, visto che - così aveva affermato - aveva altro da fare. Ve ne stavate, muti, l'uno accanto all'altro nel metrò della linea otto che va a Hoenow. Lui sarebbe sceso alla fermata di Tierpark, tu te ne saresti tornato indietro: non avevi niente da fare. "Questa è una vacanza, non è la vita reale, quella di tutti i giorni" gli hai detto. "Che mezzi di trasporto ci sono a Milano? Metrò, autobus...?" ti ha chiesto. "Anche tram" hai aggiunto tu. A Tierpark vi siete salutati: aveva cose da fare a Oberschoeneweide, ti è sembrato di capire.
"Ich habe dich lieb"
"Ich dich auch".

10

In Italia, però, non è mai venuto.

11

"Dài, fammi fare un giro turistico di Karlshorst!"
Ti ha guardato con stupore, lui che non riusciva quasi a credere che ci fosse gente che passava le vacanze a Berlino. Avete preso la S-Bahn alla stazione di Friedrichstrasse. Quando siete scesi a Karlshorst, lui ti ha portato giù nella Treskowallee, accompagnandoti in un giro sommario del quartiere. Avete visto il cinema 'Vorwaerts', "chiuso subito dopo la riunificazione", ha specificato lui, siete passati davanti a uno spiazzo, un tentativo di giardino, con una statua di bronzo in mezzo. Non te ne ricordi più il nome. "E chi è?" hai voluto sapere. "Un comunista celebre", ti ha risposto. Niente di nuovo. Avete fatto dietrofront, superando l'ippodromo di Karlshorst e, oltre l'ingresso alla stazione, avete svoltato a sinistra, poi ancora a destra, nella strada in cui lui abitava. Tu eri sempre più agitato, man mano che ti avvicinavi al numero undici. Le case erano scrostate, vecchie, ma avevano comunque il volto di un'antica bellezza, di un gusto che non si trova dappertutto a Berlino. Un quartiere residenziale.
"E in questo quartiere era stazionata l'Armata Rossa, no?" hai detto. E poi hai aggiunto: "Chissà quanto scopavano lì dentro, nelle camerate, quei soldati. Tu abitavi qui e non sapevi che cosa facevano loro, come se la spassavano...". E' arrossito, ha sussurrato: "Be', se erano qui...". Arrivati all'altezza di casa sua, ti sei fermato, hai aspettato. Non ha detto nulla. Se ne è andato, è entrato. Sei rimasto lì, incredulo perché pensavi ti avrebbe invitato a salire.
Quando quest'anno sei ritornato a Berlino, hai voluto rivedere quella strada in cui lui, del resto, non abita più. Le case non sono più scrostate: tutto è stato ristrutturato e ridipinto. Hai camminato quasi col cuore in gola, cercando di sfuggire agli sguardi di un uomo che in quella via forse ci abitava. Non hai raggiunto il numero undici. Su un muretto lì accanto (forse proprio a quel numero civico) erano seduti alcuni ragazzi che parlavano. Invece, sei tornato quasi di corsa alla stazione e sei andato via.

12

La sera dopo, cenando insieme al Caffè Vivaldi, in fondo alla Trautenaustrasse, verso Nikolsburger Platz, glielo hai detto. Avresti voluto che ti invitasse a casa sua. "Questo mi creerebbe dei problemi..." ha replicato. Ci avrebbe pensato.
A casa sua - in nessuna sua casa - non ci sei mai stato.

13

Come un ladro, ti sei avvicinato alla nuova casa in cui si era trasferito e hai scattato una fotografia. L'unica. E' venuta bene.

14

"Farò un Inter-Rail e girerò un po' per l'Europa. Se vuoi, ti manderò una cartolina da ogni città che visiterò" gli avevi detto al telefono, quando l'hai chiamato da Milano, dopo un pomeriggio trascorso ai giardini di Porta Venezia, per sapere se finalmente sarebbe venuto in Italia.
"Sì, fallo" ti ha risposto.
Parigi, Bruxelles, Gent, Bruges, Ostenda, Rotterdam, L'Aia, Utrecht, Amsterdam, Lubecca, Giessen... Un invisibile compagno di viaggio.
Al ritorno hai trovato una sua lettera. Non veniva da te. Sarebbe andato in Brasile.

15

C'è stata anche una prima telefonata. La linea era disturbata e lo sentivi veramente molto lontano. 'Ancora le linee della Germania Est!' hai pensato tra te e te. Nell'ultima lettera gli avevi detto che saresti andato a Berlino, chiedendogli che ti desse il suo numero di telefono.
"Sai già dove andare a stare?" ti ha domandato.
"Sì, certo, ho prenotato una pensione...". E intanto ti chiedevi se quello fosse un invito implicito da lui. Il tempo ti avrebbe insegnato che no, non poteva esserlo.
"Posso chiamarti quando arrivo?" gli hai chiesto.
"Sì, senz'altro".
E poi non vi siete detti nient'altro. Quella telefonata conteneva già tutte le vostre conversazioni future, con più silenzi che battute. L'hai salutato e hai riagganciato. Subito dopo hai provato rimorso: 'non sarò stato troppo brusco?', ti sei interrogato.
La sua voce, bassa e maschile, ti è subito piaciuta. Non riuscivi però ad associarla al volto da ragazzino nella foto tessera che ti aveva spedito.

16

E' stato lui, dopo il vostro primo incontro, a dirti timidamente che, se volevi, avresti potuto chiamarlo ancora, prima di partire. Avete fissato un secondo appuntamento: gli hai proposto di pranzare insieme, verso l'una. Ha accettato.
Quella mattina, mentre stavi facendo colazione all'hotel Medenwaldt sul Kurfuerstendamm, è squillato il telefono e la cameriera ha chiamato te in ufficio. Era lui, preoccupato di non riuscire a trovarti. Era stato richiamato al lavoro, nonostante fosse di riposo, e così non sarebbe potuto venire all'una.
E' passato a prenderti dopo il lavoro, alle quattro. Lui ha pranzato lo stesso: un piatto a base di petti di pollo.
E' lì che si è tormentato le mani.

17

Se dovessi dire quali parole, quali frasi, quali formule ricorrevano di più nelle vostre conversazioni, nelle vostre lettere, sarebbero senz'altro espressioni come 'se vuoi', 'se non ti spiace', 'se a te va bene', 'se sei d'accordo'. E, soprattutto, 'non intendevo offenderti'. Un piccolo manuale di bon ton del sadico compassionevole che unge di balsami la ferita ancora prima di procurarla.
Ma la ferita ci sarebbe stata comunque.

18

"Adesso aspetto che parta tu" aveva detto, dopo che lo avevi accompagnato per la prima volta a Karlshorst, fermandosi sul marciapiede di fronte ai binari.
Poi ha aggiunto, quasi con dispetto, "Devi avere avuto un'impressione terribile di me..."
"Ma no, no, al contrario..." ti sei affrettato a dire, per tranquillizzarlo.
Lì, senza confessartelo, ti sei innamorato di lui.
Hai guardato verso la Treskowallee. 'Com'è verde Karlshorst!', hai pensato senza avere ancora visto il quartiere. In realtà erano solo i pochi alberi che costeggiavano la ferrovia e che, in aprile, erano ridiventati verdi. Il treno è arrivato anche per te. Sei tornato a Schoeneberg.

19

L'aereo non avrebbe potuto volare più in fretta.
Appena atterrato a Tegel e ritirato il bagaglio, ti sei fiondato verso la prima cabina telefonica e l'hai chiamato in ufficio, al numero che ti aveva scritto nella sua ultima lettera. "Chiamami tranquillamente", aveva aggiunto.
Tu eri esagitato da mesi e mesi e non vedevi l'ora che terminasse quell'impegno che ti tratteneva, tuo malgrado, in Italia, per poter partire: nella mente cancellavi il tempo che ancora mancava e attraversavi la vita che ti separava da quel viaggio come in apnea. La linea era disturbata, la sua voce fioca. E in testa ti frullavano le parole della cartolina che ti aveva spedito da Parigi: "Non vedo l'ora che tu venga a Berlino".
"Allora ci vediamo stasera?" gli hai chiesto, quando te l'hanno passato. Ha esistato e poi ha detto "Sono un po' stanco...".
Eppure è venuto a Wilmersdorf, "tra le otto e le nove", come ti aveva detto al telefono per fissare l'appuntamento.
Lì ti è apparso dal nulla, davanti alla pensione 'Trautenau'. E' stata una seconda rivelazione, una conferma.

20

Di quegli otto giorni che sono seguiti hanno avuto senso soltanto quelli in cui hai potuto vedere lui. Il resto era esperienza che si annullava nel momento stesso in cui veniva vissuta.
Una domenica a Brandeburgo, davanti alla stazione, gli hai telefonato, senza motivo, solo per sentirlo, per salutarlo.

21

Brandelli di conversazione al 'Caffè Vivaldi', davanti a una cena che ha insistito per pagare lui
"E tuo fratello com'è?"
"Non è bello..."
"E tu come ti consideri?"
"Brutto... ma intelligente"
"Brutto? Ma non è vero, non lo sei assolutamente!"
"Mmmh, no, con questi occhiali, questi brufoli" - e ha contratto il viso in una smorfia quasi di disgusto, per dare più forza a quella convinzione. 'Questi occhiali', hai pensato tu, 'gli stessi occhiali da miope che porto io'. Un altro tassello che si aggiungeva.
Quando sei mesi dopo l'hai incontrato, per l'ultima volta, non aveva più brufoli e, al posto degli occhiali, si era messo delle lenti a contatto.

22

Quando in quei giorni lo chiamavi in ufficio, ti rispondeva in francese. "Non mi va che sentano quello che dico" ha dichiarato poi, a mo' di spiegazione.

23

La finzione dell'intimità nelle tue confidenze. Il suo imbarazzo. Se le cose non esprimono nulla, occorre essere dichiarativi. Ma esserlo è già confessare la sconfitta: le parole suppliscono ai fatti.

24

Così, dopo esservi visti sotto l'orologio dell'Alexanderplatz, avete dovuto decidere che cosa fare. Siete andati a prendere tu il solito caffè, lui la solita cioccolata calda. Nel primo di una serie di bar e caffè che, nei vostri pochi incontri, avete visitato. Questo era nella Leipziger Strasse, non molto distante da quello che un tempo era il varco di frontiera del Checkpoint Charlie (da lì si usciva, in una specie di terra di nessuno, si girava a destra e si sbucava nella Leipziger Strasse, in piena DDR). Vi siete seduti a un tavolino sul marciapiedi, avete ordinato a una cameriera poco cordiale. Lui ha commentato "Un servizio tipicamente tedesco orientale!"
Anche sforzandoti, non sai più che cosa vi siete detti mentre eravate seduti a bere - tu il tuo caffè, lui la sua cioccolata calda -, né quanto a lungo ci siete rimasti.
Quando vi siete alzati, siete andati nella Friedrichstrasse, in direzione occidentale. La strada era ancora spoglia e cadente, come se il muro fosse stato appena abbattuto.
"Vogliono farla diventare di nuovo un'arteria commerciale" ti ha detto lui, con tono di disapprovazione.
E, col passare degli ani e dei tuoi viaggi, lo è diventata. Gli edifici sono cresciuti dove prima non c'era nulla, le linee della metropolitana sono state ripristinate. Durante il tuo ultimo soggiorno ci sei ritornato. Ora ci sono le Galéries Lafayette, ma con lui, lungo quella strada, non ci hai più camminato.

25

Ti capita di ripensare a quell'unica lettera in cui lui ti fece dei complimenti ("... stell Dein Licht nicht unter den Scheffel..."). Erano miele. E lui era un giardino, scrivesti.

26

Provi a elencare i caffè in cui siete stati insieme le poche volte che vi siete visti. Il bar della Leipziger Strasse - il primo in assoluto -, il bistro di Wittenbergplatz - quello che lui ha definito arredato in modo kitsch e che tu avevi conosciuto tre anni prima, in altre circostanze -, il "Caffè Vivaldi", alla fine della Trautenaustrasse, - in cui eravate andati una sera a cena, più perché era vicino alla pensione in cui stavi che per vera convinzioni -, il caffè del Nikolaiviertel - in cui ti aveva portato lui, sempre pieno, e in cui la prima volta gli hai fatto notare un altro ragazzo che vi guardava ("Guarda senz'altro te", gli hai detto) e che, due anni dopo, hai rivisto - e, teatro del vostro ultimo incontro, il bar dell'hotel Radisson, anche questo scelto perché era già lì, sulla strada tra l'università e l'Alexanderplatz: anonimo ed elegante come possono esserlo i bar dei grandi alberghi.
E poi? Niente di più. "Non vado mai in quei locali" ti aveva detto lui una volta, calcando la voce su 'quei'.
Tutti luoghi che non portano traccia di alcuna personalità, e certamente non della sua.

27

Le luci erano basse quando avete cenato al 'Caffè Vivaldi'. Le luci basse favoriscono le conversazioni, le confidenze. Ma lui non si confidava. Ti rivedi allora, mentre parlavi e parlavi, riempiendo di parole il nulla, cercando di cancellare l'imbarazzo che altrimenti si sarebbe creato. Hai blaterato qualcosa sulla lingua tedesca, hai tirato fuori considerazioni filologiche, gli hai spiegato - a lui, tedesco - perché i berlinesi confondono spesso 'dir' con 'dich'. Ti infervoravi. Ti infervoravi non tanto per l'argomento, ma perché lui ti stava ad ascoltare, attento ed emozionato. Così emozionato che si accalorava, rosso in volto. E tu, per tenerlo in quello stato, continuavi a parlare.
Poi hai capito: stavi facendo l'amore con lui, anche se non lo toccavi, anche se non lo spogliavi. E ogni parola che dicevi, per quanto inutile, nascondeva tutte le altre che non pronunciavi, era il tocco della mano che non ti permettevi.
Avresti voluto andare avanti tutta la notte a parlargli così.

28

Però, durante quella stessa cena, l'emozione ti ha tradito. Con la voce spezzata, hai affrontato temi più personali. Certo, non il Tema. E per quell'emozione hai commesso più errori del solito, parlando tedesco. Lui non ha capito. Te li ha corretti tutti. Gettava ghiaccio sul fuoco.Ti sei sentito umiliato.

29

Quando hai capito che non l'avresti più rivisto, lui ha cominciato a visitarti in sogno. Prima, non l'avevi mai sognato. Quante volte l'hai sognato da allora? Almeno quattro, forse cinque volte. E ancora adesso, di tanto in tanto, anche a distanza di anni, dopo lunghe assenze, ti capita di risvegliarti e pensare a lui. E così capisci di averlo sognato.
L'ultima volta è stata una riconciliazione, e ti sei svegliato con un senso di benessere. La prima volta una frustrazione: lui ti sfuggiva e non aveva più bisogno di te.

30

Saresti in grado di contare le telefonate che gli hai fatto nei quattro anni in cui siete rimasti in contatto?
Lui ti ha chiamato due volte. Tu molto più spesso. E spesso a sproposito. Telefonate fatte di lunghi silenzi, i suoi, o di risposte a monosillabi. Con i tuoi tentativi di irretirlo con le chiacchiere.
Quella volta che l'hai chiamato e hai avuto la conferma di quello che già sospettavi... Avevi provato due volte, senza trovarlo in casa. Alla terza ci sei riuscito.
Di notte, poi, all'improvviso, ti sei svegliato. Piangevi e tremavi. Sapevi che qualcosa era finito. Soprattutto era finita la speranza.

31

Senza volerlo, l'avevi disincarnato. Prima di partire volevi fissare nella mente un'immagine di lui che fosse il più possibile plastica, un'immagine da ripescare quando, durante la sua assenza successiva, avresti voluto pensare a lui.
Eravate nel caffè del Nikolaiviertel. Lui si è alzato per andare in bagno e tu sei rimasto seduto da solo. Quando è tornato, con proposito e metodo gli hai guardato il culo, a cui prima non avevi mai badato veramente. L'hai immaginato nudo. Gli hai fatto cadere l'occhio tra le gambe. Portava jeans stretti, quel giorno.
E ti sei messo a parlare d'altro.

32

Dovevi partire per Berlino: ci saresti rimasto a lungo, stavolta. L'avresti potuto vedere, incontrare. Speravi ormai in un amico con cui trascorrere il tuo tempo.
Hai passato una di quelle ultime giornate a Milano.
La sera ti hanno detto che lui aveva chiamato. Avevi aspettato anni che lui ti telefonasse (ricordi i giorni del tuo compleanno in cui, fremente, vagavi per casa, ti gettavi nel buio a letto, inquieto, nella speranza di una sua telefonata?). E ora che lui ti aveva chiamato tu non c'eri.
"Parla un perfetto inglese, con accento americano", ti ha detto l'amico che ha risposto. E ha aggiunto: "Ha detto che richiamerà domani mattina presto".
La mattina dopo eri ancora a Milano. Contavi i minuti, scandivi il tempo seguendolo sull'orologio, nell'attesa che il telefono squillasse. In uno stato di perturbazione mentale che si è trasmesso a chi si trovava accanto a te.
E' squillato il telefono.Ti sei gettato. "Pronto?" "Bonjour, je peux parler avec...?" "Ja, ich bin es", hai detto. Ti ha augurato buon viaggio, una buona permanenza a Berlino.
E l'hai sentito diverso. 'Forse è cambiato', hai pensato. Era insolitamente allegro, molto ciarliero.
Gli altri ce li costruiamo noi, come li vogliamo noi: con lui non ti eri comportato diversamente. Ecco invece che si era rivelato diverso: capace di cercare tutte le informazioni e di cercarti.
Non ti sei nascosto un moto d'orgoglio: lui, nonostante tutto, ti aveva cercato. E' stato l'ultimo.

33

Una mite giornata di primavera, con il sole tedesco che non scalda e poco vento. Eravate seduti su una panchina dietro la Torre della Televisione. Gli hai raccontato di quella fotografia che avevi scattato due anni prima, nella piazza semideserta, e di come gli italiani cui l'avevi poi mostrata avessero lodato il nitore e la pulizia di quel luogo. Ti ha guardato e, sogghignando, con un gesto ampio della mano ha indicato il cestino che, accanto alla vostra panichina, traboccava di spazzatura e invadeva l'acciottolato.
Poi siete rimasti in silenzio. Dopo un po', lui ti ha fatto notare le insegne pubblicitarie in cima agli edifici nella Karl-Liebknecht-Strasse, due enormi scritte luminose: 'Fuji' e 'Coca Cola' e, minuscola, quasi invisibile, la marca di un prodotto tedesco orientale. Un simbolo dell'invasione, secondo lui.
Di queste nullità erano fatte le vostre conversazioni. Tu giravi atorno e quante più banalità dicevi, tanto più difficile diventava stabilire un rapporto umano e affrontare argomenti personali.
E' stata tutta una distrazione, un allontanarsi: dal primo all'ultimo incontro.

34

Quando poi, durante il tuo soggiorno più lungo, nel tardo pomeriggio - ormai faceva già buio - prendevi la S-Bahn alla stazione di Friedrichstrasse per andare fino alla Storkower Strasse, guardavi tutti gli impiegati che tornavano a casa dal lavoro e pensavi a quante volte l'aveva presa anche lui. Al posto magari di quel ragazzo che davanti a te stringeva la borsa... E a quanti, come te adesso quel ragazzo, lo avevano guardato... Minuzie quotidiane.

35

Ultimo indirizzo conosciuto: Hildegard-Jadamowitz-Strasse 21/22, nel quartiere di Friedrichshain. Una piccola palazzina, da poco rinnovata, dalla facciata verde pallido, in una strada silenziosa e piena di alberi,  parallela alla Karl-Marx-Allee. Ci si poteva arrivare scendendo alla fermata della metropolitana di Weberwiese, passando poi sotto un arco formato dagli imponenti edifici in stile sovietico. Ed eccola lì, quella casa, un po' defilata, proprio in fondo alla strada.
Tre anni fa ci sei andato - di mattina, quando eri sicuro che non ci sarebbe stato nessuno - e l'hai fotografata, come un ladro. Sul campanello, un solo nome: B. Lo stesso che ti aveva scritto lui nel bar del Radisson, sul retro di un tuo biglietto da visita.
Quest'anno ci sei ripassato davanti e sei rimasto finché hai potuto sull'altro lato, per paura che ti vedesse qualcuno. Che ti vedesse lui. Poi hai attraversato e sei andato a leggere sul campanello. Ancora quel nome, l'inchiostro stinto. B. Di lui, nessuna traccia visibile. Le ultime cartoline - auguri di Natale, di buon compleanno - che gli hai spedito a quell'indirizzo non ti sono tornate indietro.

36

L'hai cercato, anche stavolta, nell'elenco telefonico di Berlino. Di B. è pieno. Ce n'è anche uno che si chiama Christian. Ma il suo Christian era poi un 'B.'? Davanti al nome di suo padre è apparso il titolo 'prof.'. Un'omonimia? L'indirizzo non corrisponde più, non è più quella strada di Karlshorst. C'è invece il nome del fratello. E il numero di telefono è ancora quello che ti eri abituato a comporre chiamandolo. Ma non c'è indicazione di via. Sarà ancora la stessa via?
Con il suo nome e cognome, nulla...

37

Questa, naturalmente, è anche la storia di un'ossessione. Un'immagine che ti era entrata nei pensieri e correva parallela a tutte le tue attività, come se fosse al di là di un vetro a guardarti. Eri con lui - ti dicevi, credevi, ti illudevi... In realtà chi era quel 'lui' a cui pensavi e la cui vita volevi rivivere, come se fossi stato insieme con lui?
Anche questa è una definizione.
Se ti chiedono: "Che cos'è...?", rispondi pure: "E' un'invenzione".

38

Tra i tuoi ricordi c'è anche questo: un sabato pomeriggio che non passava mai. Te lo eri già programmato, ma senza fare i conti con lui. E lui ti ha detto che era già impegnato. Ti vedi ancora girare come uno spiritato per una Berlino i cui negozi erano già chiusi: nervoso, irrequieto. Fuori di te sei andato all' 'Apollo city sauna' e anche lì non sei riuscito a concentrarti su nessuno. Ogni ragazzo che osservavi nascondeva lui, lui che non c'era, e sostituivi ai loro corpi il suo corpo che non avevi mai visto nudo...
Una giornata persa, una giornata da cancellare.

39

'Meglio una disperazione certa di una speranza in sospeso', ti sei detto. E gli hai telefonato: "E' importantissimo che ci vediamo ancora una volta prima che io parta, ti devo parlare".
Volevi affrontare l'argomento. Siete andati al caffè del Nikolaiviertel. Ma neanche stavolta ce l'hai fatta: la sua presenza sfidava tutti i tentativi, la sua presenza stroncava tutta la tua risoluzione. Così, ancora una volta, hai girato intorno a quello che volevi dire, sperando che fosse lui a rivolgerti delle domande precise - è stata una tua ossessione di quegli anni che lui ti chiedesse delle cose.
Così gli hai dato la lettera. La notte prima, nella tua stanza d'albergo, hai preso carta e penna e, di getto, gliel'avevi scritta. Gli hai rivelato tutto.
"Vuoi aprirla e leggerla subito?
"No".
Quando lui ti ha finalmente risposto, per iscritto, è stato un no. "Avevo già sospettato tutto". Anche tu.

40

"In ufficio mi veniva continuamente di parlare in francese", ti aveva raccontato in una delle sue ultime lettere. Infatti era stato suo ospite, per una settimana, un suo amico francese - forse quello di origine polacca che viveva a Parigi - e lui non aveva fatto che parlare francese con lui, per tutto il tempo. La lingua gli era così, istintivamente, rimasta nell'orecchio.
Quell'ospite francese, a te sconosciuto (non ne conoscevi né il nome, né il volto, né la professione, né l'età) è stato il tuo implicito termine di confronto quando sei rimasto tu otto giorni a Berlino. Pensavi - pur senza saper nulla di concreto - a tutto quello che lui aveva fatto con il suo ospite, alle serate che probabilmente avevano trascorso insieme - aveva alluso nella sua lettera al fatto che ogni sera era andato a letto tardi e il giorno dopo si presentava stanco in ufficio -, a tutte le ore che loro avevano passato insieme. Una somma di intimità che a te non è stata concessa. A lui, invece, sì. E ti sei arrovellato a lungo, maturando contro quell'altro una sorta di acredine interiore. 'Perché a lui sì e a me no? Perché con me ogni pretesto per non vedermi, perché ogni appuntamento come se fosse una concessione?'
Era gelosia. La tua forma specifica della gelosia: la gelosia che provi per chi non possiedi, per chi si sottrae a te, non per chi già sta con te. Alcuni anni prima, con questo ragazzo, a Parigi, lui aveva scopato per la prima volta in vita sua.

41

La stessa gelosia si è manifestata anche dopo. Nel ricordo, quando pensavi che era andato, anni prima, in Inghilterra, a trovare un suo corrispondente. E nella realtà, quando, a un certo punto, ha cominciato a studiare portoghese. Perché non italiano?
Tutti dettagli minimi che, a tuo dire, testimoniavano il fatto che lui, volutamente, ti trascurava e ignorava.

42

Ti esacerbava la sua ostinazione a non voler venire in Italia.
Andava spesso a Parigi, quando aveva qualche giorno libero.
Hai pensato che avreste potuto andarci insieme.
Gliel'hai timidamente proposto, mentre eravate seduti sul letto della pensione Trautenau. Conoscevi chi vi avrebbe potuto ospitare.
E' stato allora che ti ha detto che andava sempre a casa di quell'amico polacco.
Non avevi alcuna chance.

43

Credere all'impossibile nonostante l'evidenza contraria della realtà. Credere che possa verificarsi l'assurdo.
Ecco dunque un'altra definizione.

44

Siete rimasti tutta la sera seduti su un letto nella tua camera alla pensione Trautenau. Non era a suo agio. Tu non hai fatto nulla: solo, a tratti, gli appoggiavi delicatamente le mani sulle spalle, senza nemmeno accarezzarlo, come per rafforzare le parole che pronunciavi. Indossava un morbido maglione. Una volta sola sei sceso verso il torso e l'espressione sul suo volto ha tradito insofferenza e fastidio. Ma non si è mosso: si è irrigidito ancora di più.
Quando siete usciti di nuovo in strada, l'hai voluto accompagnare un po'. Verso la fine della Trautenaustrasse l'hai preso sottobraccio e hai chiesto: "Posso?". Ti ha detto no e si è divincolato. "Non vorrei che pensassero..."
Prima ancora di attraversare la Bundesallee tu avevi già le mani in tasca.
Nel vagone della S-Bahn vedevi il tuo riflesso nei finestrini. 'Alla prossima scendo' pensavi dopo ogni fermata. Sei sceso solo a Jannowitzbruecke e sei tornato indietro. Lui ha proseguito il viaggio fino a Karlshorst.

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Era passato Natale e da alcuni giorni non parlavi con nessuno. Il ventisei era venuto Hans a Berlino, con un suo amico sudafricano, da Amsterdam. La mattina del ventisette sei sceso insieme a loro e hai trovato una sua lettera nella casella postale.
Non si era fatto vivo per il tuo compleanno, non si era fatto vivo per Natale. Speravi in Capodanno. Ma niente, al di là delle solite notizie. Ti è calata addosso una strana tristezza, ti sei sentito abbandonato.
L'ultimo giorno dell'anno sei andato all'Arsenal, il cinema di Wittenbergplatz, dove proiettavano 'Hoehenfeuer', e poi sei rientrato a casa, con il metrò affollato di gente che andava da qualche parte a festeggiare.
A mezzanotte, eri seduto al tavolo, scrivevi una lettera, guardavi i fuochi d'artificio, piangevi.

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"Verrei a casa tua, potremmo parlare e io ti starei a guardare mentre riempi la lavatrice". Ecco che cosa gli avevi scritto.

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Gli avevi proposto di andare a Duesseldorf: avreste potuto passare una serata insieme, andare a cena, chiacchierare. Tu avresti dormito in un ostello della gioventù e, il venerdì pomeriggio, avreste potuto prendere il treno e tornare insieme a Berlino.
Non hai ricevuto alcuna risposta.

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Era il 28 febbraio: il giorno dopo avresti lasciato Berlino, dopo una permanenza di cinque mesi. Era anche domenica. Lui, quella sera, avrebbe probabilmente preso il treno alla stazione di Zoologischer Garten e sarebbe tornato a Duesseldorf. Tu, carico di bagagli, ne avevi lasciata una parte in un armadietto della Hauptbahnhof. Ti sembrava un giorno perso, o un giorno regalato. Il pomeriggio, un po' per noia, un po' per voglia, sei andato al cinema porno del sex-shop nella Kalckreutherstrasse.
Ci sei rimasto un paio d'ore, continuando a pensare 'Adesso me ne vado, adesso vado alla stazione, vediamo se lo incontro'. Sentivi scorrere ogni singolo istante che ti avvicinava all'orario in cui presumibilmente sarebbe partito il suo Intercity.
Sei rimasto finché non è stato troppo tardi e alla stazione non sei più andato.
Pochi giorni dopo, in Italia, hai ricevuto una sua lettera. Spedita da Berlino il primo marzo. Quella sera, dunque, lui non aveva preso il treno.

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"Perché hai deciso di scrivere proprio a me, con tutte le lettere che avrai ricevuto?" Eravate al bar del Radisson. Speravi che, con quella domanda indiretta, ti avrebbe detto qualcosa di lusinghiero.
"Perché tu eri il più normale, tra tutti".
Ah! Se solo avesse potuto sapere in anticipo... Meglio una stramberia palese all'inizio che un'insanità sotterranea mascherata da sobrietà.
"E gli altri che cosa ti scrivevano?"
"Uno mi ha chiesto di mandargli i miei calzini..."
Hai sorriso. Quello che non gli hai detto era che, dopo quasi quattro anni che vi conoscevate, li avresti voluti anche tu i suoi calzini. Avrebbe dovuto soddisfare subito quella richiesta strampalata: ne sarebbero stati felici entrambi e la cosa sarebbe morta lì, per lui e per te.

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