Nel suo denso saggio Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo - pubblicato nel 1995 e ormai fuori commercio - François Furet si cimenta nell'impresa di capire e spiegare perché l'idea comunista abbia avuto un tale ascendente nel secolo passato, malgrado gli esiti catastrofici e la società totalitaria a cui ha dato origine. E' un'illusione che oltretutto ha goduto di notevole consenso e appoggio anche da parte di numerosi intellettuali, alcuni dei quali sono rimasti comunisti per tutta la vita, nonostante la crescente evidenza dei fallimenti pratici di quell'ideologia. L'aspetto interessante di questo libro, però, è che Furet legge il comunismo alla luce degli altri totalitarismi che hanno caratterizzato il secolo scorso, cioè il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco. L'enigma da risolvere è perché il comunismo sia sopravvissuto più a lungo, e con tale potenza soprattutto come "idea", e perché sia stato considerato in qualche modo più "legittimo".
Il testo di Furet è molto documentato e pieno di riferimenti alle vicende storiche del ventesimo secolo: riassumere nel dettaglio le oltre cinquecento pagine di cui è composto è un compito arduo, perciò mi limito a sottolineare qualche concetto centrale. Da un punto di vista della legittimazione culturale la rivoluzione comunista viene presentata dai suoi sostenitori come il completamento della rivoluzione francese - in particolare nella sua fase più spietata del 1793 -, durante la quale la classe borghese si affranca politicamente e trova una sua rappresentanza politica corrispondente al suo peso economico e sociale. Le idee della Rivoluzione Francese, che pone l'accento sull'emancipazione e sull'uguaglianza degli individui oltre che sulla libertà, entrano in cortocircuito con la realtà, in cui continuano a sopravvivere le disuguaglianze per determinate classi sociali. La Rivoluzione Bolscevica ha buon gioco nel sostenere che quel progetto originario di uguaglianza diffusa serve ora a emancipare un'altra classe, quella dei proletari. La differenza sostanziale, però, è che quest'ultima, rispetto alla Rivoluzione Francese, si sostanzia in uno stato e in un governo ben precisi - l'Unione Sovietica -, che ne "congela" i princìpi, avocandone a sé l'avvenuta realizzazione, facendo coincidere la "dittatura del proletariato" con il dogma del partito unico a guida dell'intera società e sopprimendo con ferocia ogni forma di opposizione. A questo fatto si aggiunge la pretesa di scientificità già insita nel marxismo: la storia segue un corso predeterminato e lo sviluppo verso il socialismo prima e il comunismo poi è una legge ineluttabile, frutto delle contraddizioni interne del capitalismo che l'avrebbero fatto esplodere. In questo modo, la Rivoluzione Bolscevica si pone come una necessità storica, anche se la Russia, con tutta la sua arretratezza economica, non era certo il paese industrialmente avanzato in cui ci si aspettava l'avvento di questa "necessaria" evoluzione storica. In un'epoca di progressivo distacco dalle ideologie religiose, il comunismo finisce per soddisfare anche questa esigenza di religiosità, delineandosi tra l'altro come una sorta di "religione della storia".
Come tutto questo sia stato possibile nel ventesimo secolo, Furet lo spiega individuando le reazioni ad alcuni eventi fondamentali. Innanzitutto la prima guerra mondiale, in seguito alla quale si diffonde un rigetto delle società tradizionali, ancora più marcato soprattutto durante la Grande Recessione alla fine degli anni venti. La rivolta antiborghese e antidemocratica assume diversi volti e attira le simpatie di vasti strati della popolazione, intellettuali compresi. Non soltanto il comunismo, ma anche il fascismo e il nazionalsocialismo alimentano le speranze di molti, assumendo le caratteristiche di veri e propri movimenti rivoluzionari, sebbene con finalità diverse. Come scrive in modo ficcante Furet, nel caso del comunismo si tratta della "patologia dell'universale", mentre nel caso del fascismo (e, soprattutto, del nazismo) della "patologia del nazionale". Poi c'è la guerra civile spagnola, dove i comunisti sovietici - andando in soccorso della repubblica spagnola - si esercitano per quello che diventerà il loro elemento di marketing dopo la seconda guerra mondiale: l'antifascismo.
Con la seconda guerra mondiale arriva anche la grande occasione del comunismo sovietico. Dopo la fase iniziale post-ottobre 1917, in cui Lenin ancora immagina sia possibile esportare la Rivoluzione Bolscevica e in cui, per mantenere il ferreo controllo del partito, agita la minaccia di complotti antirivoluzionari e di nemici interni facendo ricorso al terrore, e dopo un periodo di relativa liberalizzazione economica - la cosiddetta NEP, necessaria perché il paese è allo stremo -, Stalin assume la guida del partito comunista e del potere in Unione Sovietica: comincia la fase del "socialismo in un solo paese". Il comunismo sovietico diventa così anche nazionalista, senza però rinunciare a fare propaganda all'estero, attraverso i propri emissari nei partiti comunisti degli altri paesi. Che a questo punto ci sia una convergenza di interessi e di intenti, in una comune ostilità alla democrazia liberale e al capitalismo, tra nazisti e comunisti lo dimostra il patto Molotov-Ribbentrop del 1939, con cui la Germania e l'Unione Sovietica si spartiscono la Polonia e all'Urss vanno i paesi baltici e la Bessarabia. In questo modo Stalin può crearsi un cuscinetto di paesi occidentali e, allo stesso tempo, allargare il suo "impero". Nel frattempo Hitler ha tutto l'agio di invadere la Francia, certo di essersi parato le spalle a oriente.
E' solo nel 1941 che il vento cambia: con l'operazione Barbarossa la Germania nazista invade l'Urss, dopo che Stalin ha ignorato tutte le voci che l'avevano messo in guardia sulle intenzioni di Hitler. In un certo senso la mossa hitleriana fornisce un "assist" al dittatore sovietico: innanzitutto riesce a mobilitare la popolazione facendo appello al suo sentimento patriottico, poi si allea agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna contro la Germania nazista. Ma il più grande successo è quello di accaparrarsi - convincendo larga parte dell'opinione pubblica in Occidente - lo stemma dell' "antifascismo", facendolo equivalere al comunismo, sicché da quel momento diventa praticamente impossibile - o, per lo meno, indecente e moralmente problematico - dichiararsi anticomunisti se non si vuole essere tacciati di fascismo. Al tempo stesso riesce a fare dimenticare il totalitarismo nel proprio paese - che, oltre al rigido controllo di tutta la società civile, comprende anche efferatezze come lo sterminio dei kulaki, le collettivizzazioni forzate, la carestia in Ucraina, l'eccidio di Katyn, l'uccisione dei dissidenti e via discorrendo - e a reinterpretare così il concetto di "democrazia", così come verrà poi applicato ai paesi satelliti del Patto di Varsavia dopo la fine della guerra. Che questo monopolio dell'antifascismo diventi fondamentale per la sopravvivenza dell'ascendente sovietico lo dimostra il fatto che, anche dopo la sconfitta del nazifascismo, di volta in volta venga attribuita la qualifica di "fascismo" a paesi e a personalità politiche al solo fine di far valere la propria superiorità e legittimità morale. Fasciste sono le democrazie "borghesi", il capitalismo, l' "imperialismo" americano, la Germania di Adenauer e via discorrendo.
La cosa più grave e incredibile è che molti intellettuali, nei paesi occidentali, ci credono: più facile chiudere gli occhi davanti alle malefatte dell'Unione Sovietica e credere nella bontà essenziale dell' "idea comunista", non cancellabile dalle smentite pratiche, che vedere gli aspetti positivi del capitalismo degli Usa, di cui invece vengono ingigantiti i difetti. Nel suo saggio Furet passa in rassegna, oltre agli eventi storici del secolo trascorso, anche le posizioni di molti intellettuali che, a vario titolo, hanno riflettuto sul comunismo (e sul fascismo), aderendovi e restandovi fedeli tutta una vita - come György Lukács -, constatandone l'essenziale carattere totalitario - come George Orwell -, o fino a elaborare una complessa teoria dello stato totalitario - come Hannah Arendt. Furet guarda con particolare attenzione al caso della Francia, non soltanto perché è lui stesso francese, ma perché nei paesi occidentali sono soprattutto la Francia e l'Italia ad avere (avuto) i partiti comunisti più forti, ma non rinuncia ad analizzare l'influsso dell'illusione comunista anche in quei paesi che, per storia e cultura, sarebbero dovuti essere più refrattari, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
La destalinizzazione non migliora molto la situazione, anche se riesce a creare delle crepe nell'edificio comunista, peraltro già minacciato dalle prime ribellioni interne all'impero stesso - e in nome del comunismo stesso, per di più -, come dimostra la prima grande rottura della Iugoslavia di Tito, che rivendica la propria autonomia (e ci riesce, perché Tito ha comunque una base popolare e non è, come nelle altre "repubbliche popolari", un puro e semplice emissario dell'Unione Sovietica mandato a governare la periferia imperiale). Poi nel 1956 Chruscev presenta il suo famoso rapporto su Stalin, accusato di varie colpe tra le quali il "culto della personalità", ma di cui si tacciono i crimini fondamentali e le atrocità come la collettivizzazione dell'agricoltura, e propone un "ritorno allo spirito di Lenin all'interno del regime costruito da Stalin". Questa apparente liberalizzazione suscita delle aspettative nei paesi satelliti - aspettative che si manifestano con i moti d'Ungheria nel 1956 o di Cecoslovacchia nel 1968 -, ma in realtà l'impero sovietico non mostra l'intenzione di mollare la presa. E se, a poco a poco, anche in Occidente l'Urss perde le sue attrattive, perché è sempre più evidente il grigiore burocratico e lo stato di polizia che la contraddistingue, questo non significa che l' "idea comunista" smette di esercitare il suo fascino. Come scrive Furet, si continua a pensare che "il regime fondato nell'Ottobre del 1917 è positivo, malgrado i disastri che hanno fatto seguito alla sua nascita, mentre il capitalismo è negativo, malgrado le ricchezze che esso ha generato". Quando proprio l'Unione Sovietica diventa inaccettabile come modello - e siamo ormai a Breznev e Andropov - ecco che i filocomunisti occidentali s'incapricciano di altri modelli: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Fidel Castro e di Che Guevara, "rigurgiti di fanatismo esotico [che] toccano solo piccole minoranze e passano fra l'altro rapidamente", anche se a restare è un radicalismo antiborghese, antiamericano e anticapitalista.
E una parte di questa illusione sopravvive ancora oggi: concludo, citando lo stesso Furet: "Gli studenti di Parigi, Berlino o Roma, che nel 1968 criticano la burocrazia sovietica, pensano a versioni diverse del socialismo. Sono figli dell'opulenza, e mettono il capitalismo nella pattumiera della storia, proprio come trentacinque anni prima aveva fatto la generazione della grande recessione. Nella crisi mondiale i padri avevano concepito sentimenti d'ammirazione verso l'Unione Sovietica, i figli nella prosperità non hanno la stessa risorsa. Ma dato che conservano per opposte ragioni lo stesso odio dell'economia di mercato, l'idea del socialismo, anche se viziata dall'Unione Sovietica, serve ancora alla rivolta, essendo ormai libera delle sue cattive guide. Il comunismo nelle sue varie modalità, cinese, cubana, albanese, italiana, ceca, sovietica, cambogiana, sandinista, continua a mantenere il privilegio storico di affossatore del capitalismo".