Quando si parla di omosessualità - e, in particolare, di cultura omosessuale -, ci si muove sempre un po' tra due poli: a un'estremità la subcultura gay, all'altra il mainstream (che, in quanto tale, minaccia - o promette, a seconda dei punti di vista - di assorbire in sé la prima, annullandola). C'è chi ritiene valga la pena preservare la subcultura (elevata allo status di "cultura gay" tout court) in quanto tale e chi invece ritiene che il superamento di questo stato e la fusione nella cultura di massa sia il segno auspicabile di un'avvenuta "normalizzazione" dell'omosessualità, che finirebbe per essere una caratteristica tra tante. E c'è anche chi pensa che questo sia, in larga parte, già avvenuto e che ciò che oggi sopravvive come "cultura gay" non sia altro che una forma esteriore di nostalgia per quel passato in cui essere gay significava essere partecipi di un'alterità assoluta rispetto ai valori della maggioranza. Una nostalgia che si nutre di riti e involucri privi di sostanza che, proprio per questo motivo, non avrebbero più lo stesso valore della "cosa originaria", cioè di quella subcultura dei tempi passati. Spesso si produce anche un cortocircuito cognitivo: è un bene che la subcultura e l'alterità gay siano superati perché questo significa maggiore accettazione; questo però implica la perdita di quei vecchi valori alternativi; la perdita è compensata attraverso l'imitazione di quella vecchia subcultura e, allo stesso tempo, pur rallegrandosi per il suo superamento, la si rimpiange perché più sincera e vivace sia del mainstream che dei simulacri odierni di cultura gay. Ed è un po' questo cortocircuito mentale che mi sembra di aver scorto nelle pagine di un saggio, peraltro estremamente affascinante e ben scritto, dell'americano Daniel Harris, intitolato The Rise and Fall of Gay Culture, pubblicato negli Stati Uniti nel 1997. L'autore espone e analizza "l'ascesa e la caduta della cultura gay" nella società americana - e questo va sottolineato, perché se, in linea di massima e in via teorica, molte delle sue osservazioni sono acute e pertinenti, va però anche detto che si applicano soprattutto alla società Usa - e forse nemmeno a tutta, perché talvolta si ha la sensazione che il punto di vista di Harris sia quello di un maschio bianco proveniente da una classe sociale relativamente più fortunata (per censo e per cultura), e che probabilmente la "mainstreamizzazione" della cultura gay non si è verificata allo stesso modo in tutti gli stati Usa. Tuttavia alcune delle osservazioni dell'autore trovano una parziale conferma nelle società europee e in quella italiana solo oggi, con uno scarto temporale di almeno un decennio. E, in questo caso, nemmeno integralmente.
In una serie di capitoli molto brillanti Daniel Harris passa in rassegna i vari ambiti dove la cultura gay, a poco a poco, si è sciolta e in parte annullata nel mainstream - o, dove si è mantenuta, non è rimasta che l’ombra di se stessa. Il primo di questi capitoli, per esempio, è dedicato al “camp” e all’adorazione delle dive, soprattutto del cinema. Nel passato - negli anni antecedenti ai moti di Stonewall, tanto per segnare un limite temporale preciso - gli omosessuali (che non potevano manifestare esplicitamente la loro condizione) usavano l’allusione alle stelle del cinema che, tra l’altro, consentivano l’accesso fantasmatico a un mondo totalmente diverso da quello banale (e oppressivo) in cui vivevano. In seguito, all’adorazione pura e semplice della diva, si è sostituita la tendenza a ridicolizzarla, mettendone in luce gli aspetti grotteschi e caricaturali. Altrove Harris analizza l’evoluzione degli annunci personali, partendo da quelli “antichi” degli anni cinquanta, dove tutto era un eufemismo e dove gli omosessuali dovevano ingegnarsi per dire e non dire, e dove soprattutto non c’era la settorializzazione dei gusti e delle pratiche che c’è ora. In quelli più recenti, tra l’altro, Harris osserva come chi scrive tende a rivolgersi direttamente con il “tu” all’ipotetico candidato, dettagliando in maniera quasi pornografica le attività sessuali preferite e le caratteristiche fisiche dell’amante ideale.
La vasta disamina dell’autore tocca poi l’evoluzione delle riviste omosessuali, dalle prime caute e in codice a quelle che ora definisce “riviste Teflon”, perché - come le famose padelle - tutto vi scivola senza che niente vi aderisca. Questo è avvenuto, secondo Harris, perché da un certo punto in avanti l’industria si è accorto delle potenzialità di acquisto dei gay, che rappresentavano un nuovo mercato da conquistare. Non soltanto in quanto “mercato in sé”, ma anche e soprattutto in quanto cuneo attraverso cui infilarsi in mercati altrimenti inaccessibili prima. Tanto per fare un esempio illuminante: i prodotti di bellezza maschile. Prima sarebbe stato impossibile proporli agli uomini eterosessuali - che li avrebbero rifiutati perché, per l’appunto, troppo da “donne” -, sicché gli omosessuali sono serviti da mercato di penetrazione tra la popolazione maschile, che a poco a poco ha finito per accettarli. Harris sostiene in generale che i gay sono molto utili alle industrie che vogliono conquistarsi nuovi mercati proprio perché, soffrendo di storiche frustrazioni per la loro emarginazione, sono più disposti a comprare prodotti che aumentino la loro autostima. Una volta che un’azienda o un settore si sono stabilizzati all’interno del mercato gay, possono poi fare il passo verso i mercati più ampi. E questo è stato uno dei grandi elementi di “normalizzazione” - e, contestualmente, di azzeramento della cultura gay e del suo potenziale sovversivo. Di riflesso (e qui torniamo all’inizio del discorso) i media omosessuali hanno accettato di limare le proprie asperità e la riflessione su qualsiasi aspetto problematico della vita omosessuale per trasformarsi in copie, più o meno sbiadite, di rotocalchi patinati in stile “Men’s Health” o “GQ”. “Riviste Teflon”, per la precisione.
Altri capitoli sono dedicati alla “psicostoria” del “corpo omosessuale”, all’evoluzione della pornografia gay (sia nei film che nella letteratura), alla rivoluzione della “biancheria intima” nella subcultura gay, le trasformazioni subite dalla cultura leather, l’estetica del drag e la “kitschificazione” dell’Aids: non entro nel dettaglio di ognuno di questi argomenti, ma garantisco che Daniel Harris offre sempre uno sguardo originale, che tenta di allontanarsi dai sentieri battuti e dai cliché. C’è infine un attacco a quella che Harris chiama “Glad-to-be-Gay Propaganda” - la propaganda del “gay felice”, in sostanza -, che ha permesso ai suoi esponenti di ritagliarsi carriere e rendite all’interno del movimento gay, autodichiaratosi rappresentante di tutti gli omosessuali, e che ha contribuito alla creazione della figura del “buon gay”, cioè quell’omosessuale privo di tutte quelle caratteristiche che potrebbero renderlo inviso alla maggioranza (e, secondo la mia personale opinione, è questa la direzione in cui stiamo andando anche in Italia ora, quando sembra che il culmine delle rivendicazioni dei gay sia il “matrimonio” - Daniel Harris ha un nome per questa versione particolare di “Good Gay” o “Happy Gay”: “Uxorious Gay”. Non che mi dispiaccia, si badi bene, ma dev’essere chiaro che questa è una battaglia conservatrice, o per lo meno è un conservatorismo dipinto come progressismo). In conclusione “i propagandisti gay si sono essenzialmente innamorati di quella cosa che professavano di disprezzare: l’oppressione che fornisce la ragion d’essere della loro industria” e che permette di mantenere in vita le condizioni più favorevoli alle loro carriere.
Della contraddizione e del cortocircuito cognitivo di cui ho scritto all’inizio è consapevole lo stesso Harris che, in conclusione del suo denso saggio, scrive: “La fine dell’oppressione richiede la fine della sensibilità gay. Quando i gay non si sentono più degradati e insicuri , e quindi spinti a dimostrare il loro valore al mainstream eterosessuale, smettono anche di usare la cultura come mezzo per raggiungere il prestigio sociale e, di conseguenza, cessano di sciamare verso le facoltà di arte, il palcoscenico, le sale da concerto o all’opera, diventando molto più convenzionali nelle loro aspirazioni e gravitando verso impieghi meno creativi nel settore degli affari. (...) Inoltre, una volta che diventa possibile comunicare apertamente con altri gay senza lo schermo protettivo delle allusioni che una volta ci permettevano di identificarci agli occhi degli altri con la nostra stessa tendenza e evitando l’umiliazione di esporci a estranei potenzialmente ostili, il nostro tesoro nazionale - il camp - diventa obsoleto, un anacronismo affascinante. (...) La morte della cultura gay è poi una così gran tragedia, in fin dei conti? Certamente è una tragedia inevitabile, e solo un pazzo nostalgico vorrebbe che non accadesse, alla luce del fatto che il fiorire della cultura gay dipende dalla persistenza dell’oppressione per eliminare la quale abbiamo tanto lottato. (...) E’ quest’atteggiamento complesso e ambivalente verso l’assimilazione, sia verso la sua necessità sia, alla fine, il suo impatto rovinoso su di noi in quanto minoranza che segna le pagine di questo libro”.