Avrei tanto voluto, dal basso della mia ignoranza e della mia scarsa esperienza, commentare la manovra finanziaria: l'hanno fatto tutti - mi dicevo -, perché non anch'io, quindi? Però, a un certo punto, ho perso il filo e non sono più riuscito ad annodarlo. Non ho più voluto riannodarlo, sarebbe meglio dire. L'ho perso quando sono stato a Londra e non ho più letto le lenzuolate sui giornali. Quando sono tornato ho scoperto che la manovra era stata modificata più e più volte. Ho attraversato diverse fasi: euforia, sconforto, abbattimento, fino a provare un sordo indolenzimento ai limiti dell'indifferenza. E qui mi sono fermato. Adesso, se me lo chiedessero, non saprei più nemmeno dire che cosa prevede. Figurarsi quindi dire se è ottima, buona, pessima oppure così così. O se, addirittura, servirà a salvare il paese (m'imbarazza anche solo scrivere queste parole). Fatto sta che, all'inizio, avevo quasi esultanto quando avevo letto di alcune misure che mi sembravano positive, tanto da farmi pensare che "non tutto il male viene per nuocere" (anche se mi è venuto da ridere quando ho visto il governo Berlusconi proporre l'esatto opposto di quanto aveva promesso e suggerire di aumentare le tasse come un Visco qualunque, con la grazia però di ricorrere all'eufemismo chiamandole "contributo di solidarietà", che è come dire di una mignotta che non è più una fanciulla di primo pelo). Mi riferisco, per esempio, all'abolizione di una trentina di province e all'accorpamento di molti piccoli comuni. Certo, se fosse dipeso da me, avrei colto la palla al balzo e avrei abolito tutte le province. Oppure penso alla riforma degli ordini e alla liberalizzazione degli orari dei negozi. Alleluia, finalmente avremmo avuto anche noi supermercati aperti ventiquattr'ore su ventiquattro e la possibilità di uscire la sera tardi e trovare qualche off-licence aperto, non come adesso - ho verificato proprio settimana scorsa -, che in un'ampia zona tra la stazione centrale, via Melchiorre Gioia e l'Isola, c'è il deserto commerciale dopo una certa ora. Non mi scandalizzava nemmeno lo spostamento delle festività civili al lunedì successivo - accade così anche in Inghilterra, con le bank holidays, e non è ancora morto nessuno - e non avrei teorizzato la "cospirazione" governativa per fiaccare lo spirito democratico del paese. Anche stavolta, se fosse dipeso da me - e per evitare questi sospetti -, io ne avrei spostate anche altre, come il 15 agosto o l'8 dicembre. Pasqua e il Lunedì dell'Angelo sono invece a posto per i fatti loro. Poi, per l'appunto, sono tornato dalle vacanze (sono bastati dieci giorni) e ho scoperto che tutto questo era già sorpassato, cancellato, riscritto, ricancellato con un tratto di penna. Da allora le variazioni sono state talmente tante da convincermi che neanche chi governa il paese - e, anzi, soprattutto loro - sa esattamente che cosa sta facendo o che cosa debba fare, confermando così la propria cialtronaggine e incompetenza. In ogni caso tutto questo non sarebbe bastato ad abbattere l'enorme debito pubblico italiano. Io però dubito che, se anche una manovra - magari più severa e radicale di quella inizialmente proposta, una manovra volta a ridurre il più possibile la spesa pubblica improduttiva imponendo magari dei tagli sanguinari - riuscisse a ridurre in misura adeguata il debito pubblico, questo basterebbe a "rassicurare i mercati". Chi vuole speculare sul debito pubblico di un paese (perché ovviamente pensa di lucrarci sopra) non smetterà perché all'improvviso il paese ha intrapreso una strada più virtuosa. Come se invece due anni fa, per dire, i conti dell'Italia fossero a posto, tanto che a nessuno veniva in mente di specularci sopra. Se io penso che ammazzando qualcuno ci guadagnerò qualcosa, e scelgo qualcuno che puzza, non è che, se questo oggi si fa la doccia, io poi rinuncio ad accopparlo perché non puzza più, tanto per intenderci. E insomma, a un certo punto ho smesso di stare a leggere quello che avevano da dire tutti i soloni sui giornali, quegli economisti che sanno sempre dopo quello che bisognava fare prima e ce lo vengono a insegnare col proverbiale senno di poi, di cui oltre alle fosse sono piene anche le loro saccocce. Perché anche questo è stato un effetto collaterale - assai molesto - di questa crisi economica che uno vorrebbe vedere finita solo per non dover più leggere tante fregnacce in una volta sola. Poi ho cominciato a leggere, qui e là, che occorre più "rigore" per tranquillizzare i "mercati". Questa insistenza sul fatto che bisogna fare una manovra tagliata su misura sulle esigenze dei "mercati" mi ha fatto un po' ridere, soprattutto per l'antropomorfizzazione prima, e la divinizzazione poi, di queste entità mitiche che sono i "mercati". A leggere i titoli sui giornali - perché ormai a leggere gli articoli interi non ce la faccio più - si ha infatti l'impressione di avere a che fare con delle divinità dalla volontà imperscrutabile ma inflessibile, la cui ira va sedata il più presto possibile onde evitare ulteriori catastrofi (ovvero ulteriore ira che si scatenerebbe su di noi). E se domani - mi sono chiesto - i "mercati" cominciassero a chiedere sacrifici umani per placare la loro fame, cosa faremmo? Avremmo il fior fiore degli elzeviristi che ci spiegherebbero le mosse migliori per sgozzare le vittime deputate? Poi, certo, se acconsentissimo a tutte le richieste dei "mercati", probabilmente loro ne rimarrebbero soddisfatti, ma nel modo della vecchia battuta: "L'operazione è perfettamente riuscita. Il paziente è morto". Detto questo, è evidente che penso anch'io che il debito pubblico vada ridotto. Ma non va fatto per fare un favore ai "mercati", bensì per una questione - diciamo così - "etica", ovvero perché non bisogna spendere più soldi di quanti se ne posseggano. Se io non ho i soldi per comprare qualcosa, evito di fare debiti, se non è strettamente necessario alla mia sopravvivenza. Lo stesso principio con cui ognuno di noi amministra i propri soldi (se non è un pazzo scialacquatore) dovrebbe essere applicato dallo stato (e a maggior ragione, visto che amministra soldi non suoi, ma di tutti i cittadini).