Questa volta ho voluto far finta, per un po', di essere berlinese: basta visite mordi-e-fuggi, ho deciso, ma mi affitto un appartamentino e ci resto tre settimane abbondanti, a Berlino. Conoscendo la mia inquietudine e, al tempo stesso, la mia pigrizia, ho prenotato subito una puntatina in Polonia, per non adagiarmi negli ozi berlinesi. Tanto la Polonia è vicina, Poznan e Breslavia (anzi, Wroclaw) sono a un tiro di schioppo. Detto, fatto.
A Poznan ci si arriva comodamente con l'espresso per Varsavia, dopo due ore e mezzo di viaggio. La prima impressione, quando scendo alla stazione, è abbastanza sconfortante: ci sono un po' di lavori in corso e, sulla mia destra, stanno costruendo la nuova stazione. Non trovo neanche indicazioni per raggiungere il centro ma, a lume di naso e seguendo quanto avevo visto prima su Googlemaps, basta andare dritto, poi girare subito a destra. E infatti, alla fine della strada, ecco che imbocco la Swiety Marcin - via di San Martino, in pratica -, l'arteria principale che mi porta dritto in centro, nello Stare Miasto. Poznan - o Posen, per i tedeschi - mi appare subito abbastanza monumentale: sulla sinistra, uno spiazzo enorme, con un memoriale che più tardi scoprirò essere dedicato alla prima sollevazione contro il regime comunista, avvenuta il 28 giugno 1956. In gran parte distrutta durante la seconda guerra mondiale (quando era tedesca), ci sono dei punti in cui predomina l'architettura socialista postbellica: grandi blocchi di costruzioni prive di identità ma non di fascino. Sulla Swiety Marcin, per esempio, poco prima di entrare nella parte più centrale, vedo una serie di parallelepipedi identici - uno dei quali oggi ospita, ai piani alti, un ostello che si chiama Fusion: chissà che vista, mi dico - quasi affascinanti. Essendo più povera della Germania - povera, ma non miserabile, mi pare -, Poznan (come Breslavia) alterna, spesso senza soluzione di continuità, grandeur e squallore, splendore e decadenza.
Faccio il check-in in un albergo molto decoroso (il Don Prestige) e poi esco alla scoperta della città vecchia. Il cuore di Poznan è, come in altre città polacche, lo "stary rinek", la piazza del vecchio mercato: grandiosa, vivace e amorevolmente ristrutturata. Ma prima mi fermo nella Chiesa parrocchiale di S. Stanislao, un barocco sfarzoso ed elaborato (è stata fondata dei gesuiti). Ancora non so che sarà la prima di cinque chiese che, durante il resto del giorno, visiterò a Poznan. Una sorta di nemesi, penso, per me che non ci metto mai piede. Visiterò infatti anche, oltre a una chiesetta minore che non riesco a identificare dalle indicazioni in polacco (forse una chiesa greco-cattolica?), la chiesa dei Francescani, la Cattedrale sull'Ostrow Tumski - il nucleo originario, al di là del fiume Warta, su cui è stata fondata la città di Poznan - (questa, più cupa, in stile gotico, su base romanica) e la chiesa dei Domenicani, dove arrivo un istante prima che cominci la messa. In polacco. Sono stanco dal lungo camminare e mi fermo ad ascoltare un po'. Ovviamente non capisco niente, tranne quando il prete attacca a recitare: "Swiety, swiety, swiety" che intuisco essere il nostro "Santo, santo, santo..." e sono tutto soddisfatto per la briciola di comprensione. Basta così: ho accumulato abbastanza punti per peccare nei giorni a venire, quando sarò di nuovo a Berlino.
Più tardi torno sui miei passi e dalla piazza davanti all'albergo vedo che parte una via sulla quale non ho segnalazioni particolari nella mia guida, ma vedo che è pedonale. La imbocco: è ulica Polwiejska. In fondo c'è un centro commerciale. Sono banale, oltre che un turista scemo, e ho voglia di un caffè: entro e, come per magia, si realizza il mio desiderio di trovarci uno Starbucks. Mi siedo e ammiro lo scenario: pavimenti in parquet, archi e vetrate. Scopro solo dopo che il posto si chiama Stary Browar - ovvero vecchio birrificio, perché proprio questo era in passato, prima di essere trasformato in un centro commerciale che nel 2005 ha vinto anche un premio per questo genere di cose. Per tornare in albergo faccio un giro lungo, passando dietro ai parallelepipedi di swiety Marcin, e m'imbatto in un edificio rotondo: è la "Rotunda" di Poznan, un edificio che quando fu costruito negli anni cinquanta doveva essere molto innovativo e che ancora oggi fa il suo figurone. La sera esco verso le sette e mezzo e giro in tondo per almeno tre quarti d'ora sullo Stary Rinek, cercando un posto dove mangiare. Tutti i ristoranti che hanno tavoli all'aperto scarseggiano però in piatti vegetariani e l'unico con cucina polacca che lascia spazio a cibi adatti a me è pieno (senza aggiungere, poi, che le cameriere non mi degnano di uno sguardo, anche se stavo consultando avidamente il menu esposto). Quindi finisco per mangiare una pizza in una pizzeria laterale. Rassegnato mi dico che mi aspetterà una schifezza. E invece no: il livello è ottimo. Peccato solo per la musica, diciamo così, italiana: inqualificabile che io debba venire in Polonia per sentirmi i Ricchi e Poveri mentre ceno. Dopo cena mi faccio un giro sulla piazza e mi fermo ad ascoltare un ragazzo che suona la chitarra: gli lascio 4 zloty di mancia e lui, subito dopo, attacca a suonare "Hava Nagila Hava". Quando arrivano due suoi amici, lui si alza e mi accorgo che ha pure un bel culo. Purtroppo non ho altri 4 zloty da dargli.
La mattina dopo, consumata un'abbondante colazione, abbandono a malincuore il mio albergo e ritorno alla stazione per prendere il treno per Breslavia. Questa volta mi aspettano tre ore di viaggio. Un viaggio a rilento, con soste continue che però non ci fanno arrivare in ritardo. E' evidente che la lentezza è prevista nell'orario, forse a causa dei lavori di ammodernamento della linea ferroviaria. Per fortuna ho davanti e di fianco a me due bei ragazzi biondi ai quali getto uno sguardo di consolazione, di tanto in tanto. Quello davanti aveva l'aria da "slavo bono & stupratore", se non fosse che aveva uno sguardo troppo dolce e gentile per esserlo davvero, mentre quello di fianco ha passato tre ore a leggere un libro in inglese dal suo Kindle.
Quando arrivo a Breslavia - o Wroclaw o, come si chiamava quando era ancora tedesca prima del 1945, Breslau -, la prima impressione è invece grandiosa. Qui la stazione è già stata ristrutturata e, con la sua facciata ocra, sembra quasi un palazzo moresco. Per Breslavia ho scelto un albergo a pochi passi dalla stazione, in ulica Pilsudskiego: l'Hotel Polonia. Mi preparo al peggio, perché sono andato al ribasso, e le recensioni su Booking non erano esaltanti. In realtà l'albergo è decente, anche se un po' vecchiotto. L'unica cosa che impressiona è il lungo corridoio, con le luci fioche, che conduce alla mia stanza e che sembra quello di un ospedale psichiatrico. Ma che cosa importa. Tanto esco subito a esplorare la città. Giro a destra e prendo la Swidnicka per andare in centro. Quello che mi appare di Breslavia mi attrae subito. Sulla prima piazza intravedo, sulla destra, un grande magazzino in stile art nouveau (Renoma). Per ora tiro dritto e arrivo anche qui fino alla piazza del mercato, che circumnavigo ma da cui passerò più volte durante il resto della giornata. Simile a quella di Poznan, eppure diversa: forse più ampia e ariosa, ma certamente altrettanto animata e vivace. Anche a Breslavia mi faccio la mia dose di chiese, la prima delle quali è Santa Elisabetta, a cui si accede dall'estremità nord-occidentale della piazza. Da lì mi dirigo verso il fiume, passando prima per la "via delle antiche macellerie", dove adesso ci sono soprattutto gallerie d'arte e negozietti di artigianato, ma in fondo alla quale delle statue bronzee di animali da macello rendono omaggio all'attività che rese ricchi i suoi abitanti. Una turista si fa fotografare vicino alla riproduzione di un porco, o di una scrofa.
L'unico "museo" che visito è l'Università: nell'edificio principale si possono visitare alcune sale. Scelgo l'Oratorium Marianum (dove ancora oggi si tengono dei concerti) e la Sala Leopoldina (un'aula barocca dai cui muri occhieggiano le immagini dei padri della cultura e della filosofia). Malauguratamente salgo fino alla "torre matematica", dimenticando che soffro di vertigini, e quindi mi limito a lanciare uno sguardo distratto al bel panorama della città, anche se dopo il guardiano mi dice - in tedesco - che "nach oben", in alto, ci sono le statue che rappresentano la teologia, la fisolofia, il diritto, e io faccio, un po' scosso, sì sì con la testa. Nell'edificio adiacente c'è la chiesa universitaria del "Santo Nome di Gesù", dove vengo avvicinato da un ragazzo che non vuole farmi delle proposte oscene, purtroppo, ma mi rifila un lettore mp3 e un paio di cuffie per farmi ascoltare un testo (in inglese, stavolta) sulla storia della chiesa e, soprattutto, della compagnia dei Gesuiti. Abbozzo, ascolto e alla fine lascio pudicamente 5 zloty di offerta alla Chiesa: ormai sono sulla via della santità. Prima di rientrare in albergo faccio un salto all' "Isola di Sabbia", oltre l'Odra, e all'Ostrow Tumski (anche qui la parte più antica di Breslavia), dove entro nella cattedrale di S. Giovanni Battista (perché, per fortuna, l'altra chiesa è chiusa). Ovunque - sia qui che a Poznan - nelle chiese campeggia l'immagine di Giovanni Paolo II, recentemente beatificato. Capisco che per uno come me la cosa possa essere irritante, ma mi rendo conto del potere simbolico - al di là della religiosità evidente e, probabilmente, sincera di molti polacchi - di quest'uomo per un popolo che ha vissuto per decenni sotto il tacco di un comunismo imposto dall'alto e che, nella chiesa cattolica, vedeva anche quello che noi non possiamo più vedere: una forma di opposizione e di consolazione al tempo stesso.
La sera esco per cenare e, siccome siamo in Polonia, scelgo un ristorante spagnolo, dove mi abbuffo con delle tostadas rigorosamente vegetariane e una paella di verdure. Il resto della serata la trascorro vagabondando per la piazza dove si stanno esibendo degli artisti - per lo più musicisti e cantanti, ma non solo - per una sorta di "festival internazionale" di strada. Ognuno di loro ha il suo bravo cartello che indica la nazionalità: mi fermo ad ascoltare un certo Eric Tarantola, francese, che a un certo punto fa un'estenuante e lunga versione di "La Javanaise" di Serge Gainsbourg e a guardare una specie di mimo e comico irlandese che alla fine raccoglie le offerte dal pubblico in un ombrello aperto. E mentre sono lì penso che basta poco per rendere vivibile il centro di una città: persino la piazza del mercato di Breslavia è più vivace - e, mi pare, più sicura - di piazza Duomo a Milano. Stanco ma contento rientro in reparto - pardon, in albergo - e dormo fino alla mattina dopo.
Mattina in cui, ovviamente, mi sveglio troppo presto e vagabondo ancora un po' in centro, stavolta sotto una pioggerellina, prima che arrivi l'ora di partire. E il viaggio per Berlino è una specie di viaggio della speranza: cinque ore per coprire trecento chilometri, a una lentezza esasperante, e con un gruppo di tedeschi vocianti nello scompartimento. In realtà, quando arrivo a Berlino, capisco che era tutto previsto dall'orario, perché abbiamo esattamente gli stessi dieci minuti di ritardo con cui il treno, proveniente da Cracovia, era entrato a Breslavia. Malgrado questo serbo un ottimo ricordo di questi tre giorni in Polonia: una destinazione che non escludo di approfondire in futuro (considerando che, qualche anno fa, mi erano piaciute molto anche Cracovia e Varsavia).