* Torno a Zurigo dopo quattro anni di assenza e, come la volta precedente, mi tocca un “viaggio della speranza” perché un masso è caduto sulla linea ferroviaria dopo il San Gottardo. La linea resta chiusa dal giorno precedente il mio arrivo a quello successivo alla mia partenza. All’andata devo trasbordare quattro volte - compreso l’autobus sostitutivo da Goeschenen a Fluelen -, ma arrivo a Zurigo con mezz’ora soltanto di ritardo, mentre al ritorno addirittura sei - compreso un locale che si fa tutte le fermate del Canton Ticino - e arrivo a Milano con un’ora e mezzo di ritardo. Da oggi il traffico dovrebbe essere regolare, quando si dice la fortuna.
* Ha un bel dire, M.H., che anche la città di Zurigo sta cambiando volto, e mi elenca dei quartieri che vengono rinnovati, dove si costruiscono grattacieli perché lo spazio in orizzontale ormai scarseggia e c’è fame di abitazioni. In realtà, passeggiando per il centro, a me sembra tutto rimasto com’era un tempo. E non me ne dolgo: il bello di Zurigo (e, forse, della Svizzera) è una certa immobilità del tempo. Ritrovo persino negozi con insegne che sembrano uscite dagli anni sessanta e settanta. Tutto è così tranquillo e così ovattato da infondermi una strana sensazione di calma che sconfina nell’irrealtà. Ma esiste un mondo, fuori da Zurigo?
* Come si vede che gli zurighesi stanno bene! Rilassati, ben pasciuti, sicuri nei propri panni, sono l’incarnazione di una borghesia pacificata e soddisfatta di sé. E’ vero: non tutti sono banchieri milionari, ma non ho visto neanche una delle scene di miseria a cui ormai assistiamo nelle altre città europee. In media gli svizzeri se la passano bene, compresi gli immigrati: questa è la sensazione prevalente.
* Quattro anni fa cento franchi svizzeri costavano sessanta euro, oggi sono ottanta: il trentatré per cento in più. L’anno scorso le due valute avevano praticamente raggiunto la parità. Se adesso il tasso di cambio è sceso, mi spiega M.H., è perché la Banca Svizzera ha comprato ingenti quantità di euro e, alla fine, ha bloccato il cambio al valore attuale. Questo la dice lunga sullo stato di salute dell’Eurozona. In questo momento c’è pure una leggera deflazione. Che cosa ci possono fare, poveracci, se i soldi addirittura glieli tirano dietro? Così mi viene un po’ da sorridere quando leggo di una manifestazione di piazza a San Gallo per protestare contro le “misure di risparmio” del Cantone.
* Mi pare tutto orrendamente costoso, soprattutto mangiare fuori. Eppure vedo che loro escono e spendono allegramente. Sabato pomeriggio ai grandi magazzini Manor c’è ressa e coda alle casse (e quindi deduco che la gente non si limita a guardare senza comprare niente). E Manor non è un negozio del tipo “tutto-a-un-euro”, così come non lo è Jelmoli. La sera prima andiamo a cena da Hiltl, un grande ristorante vegetariano in centro, e prima di poterci sedere dobbiamo aspettare: M.H. dà il numero di cellulare perché ci convochino quando tocca a noi. Novanta franchi in due, senza strafocarci. La prima sera, invece, mangio fuori con A. da Joanniter, una ‘kneipe’ in stile squisitamente svizzero a Niederdorf, e spendo quindici euro per una raclette in dose omeopatica (vent’anni che vengo in Svizzera ed è la prima volta che mangio una raclette!). E quattro franchi e quaranta per un espresso - singolo, per carità, sennò costa un franco di più - da Starbucks. Ogni volta che elenco a M.H. le spese sostenute in Italia, lui mi risponde immancabilmente: “Ma è regalato! Qui, invece...”. Gli credo.
* Sabato mattina, seguendo un suo suggerimento, vado al cimitero di Fluntern dove - scopro dopo una breve ricerca su internet - sono sepolti sia Elias Canetti che James Joyce. Al di fuori del centro vero e proprio, la città è deserta e il tram si arrampica su per le colline, costeggia i vari edifici universitari, chiusi per il fine settimana, percorre la Gloriastrasse, punteggiata di belle case signorili - alcune delle quali piacevolmente segnate dal tempo - fino ad arrivare al capolinea, “Zoo”. Il cimitero è relativamente piccolo e trovo subito le due tombe, una vicino all’altra. C’è anche una statua di James Joyce. La lapide di Canetti è estremamente sobria: il suo nome, scritto con la sua firma, e le date di nascita e di morte. Sono l’unico visitatore in tutto il cimitero e, dopo avere reso omaggio ai due autori, me lo giro un po’. E’ insolito, perché diversamente dai cimiteri cattolici qui non ci sono solo croci, gesùcristi, angeli e madonne sulle tombe, ma anche statue e simboli più creativi: colombi che tubano, Pan che suona il flauto, uomini in fila che sembrano tuffarsi nel nulla. E, dall’estremità superiore dove sono sepolti Joyce e Canetti, lo sguardo spazia verso il basso abbracciando tutto quanto: i cimiteri mi mettono di buon umore. Inspiro l’aria fredda e mi viene voglia di scopare: di vivere, insomma.