[It will not be you who will rescue me. Rescue will come from nowhere or it will not come at all. I say to myself: "What are you complaining about?". You're still here and that's what matters. So there's no reason to complain]
Precipito nel giorno, scivolo sempre più a fondo. La notte mi trova al nadir delle mie sensazioni. Di mattina il risveglio è una lenta emersione. Quello che il sonno aveva temporaneamente cancellato riaffiora in superficie. Tutto galleggia come plastica abbandonata o forse come un fiore. Appena poso i piedi per terra, mi stropiccio gli occhi, annuso il sudore che mi si è incollato addosso, guardo la luce che filtra da fuori, non sono ancora nulla e non sento ancora nulla. I primi gesti della giornata: alzare le tapparelle, aprire tutte le finestre, andare in bagno, preparare il caffè, controllare la posta elettronica. Se non mi accascio subito, se non mi tende un agguato l'insensatezza di questa nuova emersione, saluto la luce del sole. Ci sono tante cose da fare. Sono ancora abbastanza esterno a me stesso, sono vuoto, sono apparentemente una tavola da scrivere. Da ciò che verrà scritto per primo, in quelle ore esordienti del giorno, dipenderà il mio umore per tutto il tempo che dureranno la veglia e le attività coscienti. Un pensiero sbagliato, una sensazione improvvisa e inattesa mi avranno rovinato la giornata. Indugiare con la mente un attimo di troppo su quella cosa che ingiustamente mi ossessiona e mi muove all'autocompassione, esplorare troppo a lungo uno o più desideri insoddisfatti, sentire l'aculeo di un amore non andato in porto - o, viceversa, scacciare con un gesto noncurante quell'ossessione e dirmi che non importa e che tutto è uguale, non provare il morso di nessun desiderio in particolare e dirmi che in fin dei conti va bene così, accettare anche l'amore rifiutato e le sue trasformazioni: è la stessa cosa anche se io sarò diverso per il resto del giorno a seconda del sentiero che imbocca la mia mente in quegli attimi decisivi. Vivere o sopravvivere, sbrigare le mie faccende, lavorare. Alla luce del sole sono in me, ma anche fuori di me. La luce del sole mostra ogni singolo oggetto e ogni singolo evento nei suoi contorni netti. Guardo, devo guardare e non ho scampo. Le cose tutt'intorno richiedono la mia attenzione e all'attenzione per loro corrisponde, parziale, una distrazione da me. Attraverso così il mio tempo cosciente. Dalla mattina alla sera, però, è una discesa. Una discesa in picchiata, spesso. Cala la notte e tutte le nostalgie, tutte le malinconie irrisolte, tutti i nodi d'amore che non ho sciolto mi si gonfiano dentro, come una bolla che non scoppia o una lacrima che non stilla. Poco o nulla mi distrae da me, allora. Il buio mi costringe a concentrarmi su di me, sulle mie mani che ora digitano sulla tastiera, sul mio volto che non riesco a vedere. E spesso chiudo gli occhi e mi immagino in una vita parallela, in cui tutto è riposo e intimità. Tutto è riposo perché è intimità. Chiudo gli occhi e appoggio la testa sulla scrivania o sul mio braccio. Il mio braccio non è più il mio corpo, ma è il corpo di un altro - forse il corpo dell'amato -, che a poco a poco si trasforma nella sua mente e io divento vapore che vi si mischia. Allora vorrei spogliarmi e depositare questa solitudine come si deposita un vestito fatto di cenci che non s'indossa più. Quando arriva il tempo del sonno spengo tutte le luci e dormo in profondità. Il sonno mi travolge come un'onda e lava via le tracce del giorno.