Se a volte mi sovvengono episodi del mio passato e, soprattutto, della mia infanzia, e se mi capita di indugiarvi più a lungo di quanto la momentanea e involontaria rievocazione richieda, avverto una specie di fitta. Allora stringo i denti, scaccio il ricordo. È come se dentro di me il tempo fosse un organo che, se troppo sollecitato, trasmette impulsi dolorosi al cervello.
È forse anche per questo motivo che provo angoscia ogni volta che – ormai sempre più di frequente – vado dai miei. I ricordi piovono a cascata, mi si rovesciano addosso e mi sommergono. Mia madre, invece, è arrivata a quell’età in cui la memoria è tutto. È tutto anche per via della situazione imprevedibile in cui si è ritrovata a vivere. Coltiva ricordi di decenni passati, ha ripreso i contatti – mai del tutto abbandonati – con amici e amiche d’infanzia, e li condivide con me, che fatico a nascondere un certo fastidio: per me è come grattarsi una ferita che non smette di sanguinare.
Con mio padre è diverso: lui è sempre stato una tabula rasa, per me. Di lui non ho ricordi antecedenti a me e nemmeno adesso scava nel suo passato remoto, neppure per consolarsi di quello che è diventato. La sofferenza che provo in sua presenza è di segno diverso – e più egoista. Ogni volta che vado da loro e lo vedo sono costretto ad affrontare il mio più profondo terrore: la dipendenza. Sapere che un individuo autonomo può diventare in tutto e per tutto dipendente da qualcun altro, persino negli atti più elementari (e più sgradevoli) dell’esistenza, conservando al tempo stesso la coscienza di sé e la memoria di ciò che era stato prima. Senza sapere quando ciò finirà. È la mia personale pietra: ogni volta la porto in cima a quella montagna, poi quando me ne vado e torno alle mie faccende, lei rotola giù e la volta dopo mi tocca riportarla in cima.
Quel che è peggio è che devo fare tutto in silenzio. E da solo.
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