Quando, qualche mese fa, ho saputo che Amanda Lear avrebbe inciso un nuovo album di cover di vecchi classici di Elvis Presley mi sono sentito percorrere da un brivido. “Ci risiamo”, ho pensato. “E’ proprio incorreggibile”. Però, per una sorta di fedeltà ai miei amori infantili, l’ho comprato non appena è uscito una decina di giorni fa, continuando a chiedermi quale fosse il senso dell’operazione. Dubito che Amanda si conquisterà un nuovo pubblico con questo My Happiness e non so fino a che punto gli adepti del culto presleyano apprezzeranno l’omaggio.
L’ho ascoltato, riascoltato e ascoltato ancora. Premetto di non conoscere quasi niente del repertorio di “Elvis the Pelvis”, a parte quelle canzoni che più o meno conoscono tutti - e molte non sono nemmeno tra le tredici scelte dalla Lear - e quindi l’ho affrontato con orecchio vergine e scevro di pregiudizi. Dopo tanti ascolti qual è il mio giudizio, dunque? Be’, con mia grande sorpresa confesso che mi piace, e anche parecchio. Innanzitutto si nota che la Lear per prima si dev’essere divertita a farlo. E forse è proprio questo lo scopo dell’album: superata la boa dei settant’anni, rinata a nuova vita grazie ai suoi successi nel teatro di “boulevard” in Francia, Amanda Lear non ha più bisogno di dimostrare nulla e può fare qualcosa solo per il piacere di farlo, indipendentemente dalla resa commerciale.
My Happiness non è un album buttato lì, ma si nota al contrario una certa cura negli arrangiamenti e nella produzione. Niente strumenti elettronici, niente computer, ma una vera orchestra - la Secession Orchestra parigina diretta da Clément Mao-Tackaks -, che fa la differenza. Poi, curiosamente, Amanda canta. Voglio dire: canta sul serio, con risultati altalenanti e forse non sempre all’altezza, ma almeno non biascica, non sussurra, non ammicca come faceva nel precedente - penosetto e un po’ kitsch - I Don’t Like Disco, e nei momenti migliori fa pensare a una Marlene Dietrich risorta per darsi al rock ‘n’ roll.
Le canzoni sono di una bellezza semplice, come forse lo erano le canzoni d’intrattenimento di una volta, e alcune versioni sono azzeccate. Suspicious Minds, che a un primo ascolto mi aveva lasciato perplesso, ha invece un crescendo trascinante. (You’re the) Devil in Disguise mette immediatamente di buon umore, è trascinante, e sfido chiunque ad ascoltarla senza segnare il tempo con il piede. Trouble è migliore della versione che la stessa Lear incise nel 1975 e con cui esordì nel mondo della musica. In generale sono più riusciti quei pezzi dal piglio più rock e deciso (All Shook Up, Viva Las Vegas), un po’ meno quelli più lenti e romantici, come What Now My Love (a sua volta una ripresa di Et Maintenant di Gilbert Bécaud), o You Don’t Have to Say You Love Me, in cui il confronto con la cover di Dusty Springfield è impietoso e mostra gli evidenti limiti vocali della Lear. La canzone che chiude l’album e gli dà il titolo,My Happiness, è un gioiellino in cui Amanda ci regala un’esecuzione acustica accompagnata dalla sola chitarra.
Insomma, la vecchia volpe mi ha colto ancora di sorpresa rovesciando le mie aspettative. C’è ancora un futuro discografico per Amanda Lear?
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