Della nostra vita - di noi in quanto noi - ai nostri geni non importa nulla: siamo gli strumenti della loro sopravvivenza, tutto il resto è secondario. Sono loro che si devono propagare, lanciarsi di generazione in generazione, mentre noi possiamo tranquillamente andare a fondo quando questo obiettivo è stato raggiunto. E così continuiamo a gettare dolore sulla terra, procreiamo e passiamo il testimone a quelli che verranno, i quali a loro volta trasmetteranno i loro geni e altro dolore, senza chiedersi perché o, se se lo chiedono, elaborando spiegazioni che giustifichino la guerra che li sta triturando. Perché - sia ben chiaro - ogni vita è una guerra e i nostri corpi sono i campi di battaglia su cui viene combattuta (e persa, sempre e comunque: a fare la differenza è la quantità di sangue che viene sparso). Dice: e la gioia di vivere? Nessuno la nega. Certo che può capitare che sia bello vivere e gioire dell'esistenza, senza ricamarci troppo sopra. Ma in questo caso si tratta di una tregua, più o meno lunga, più o meno stabile, che non annulla lo stato di guerra perenne in cui versano tutti gli altri - quelli che in un momento dato non godono per il fatto di vivere - e quello che si sta svolgendo, a nostra insaputa, all'interno del nostro corpo. Ai più fortunati è concesso ritagliarsi uno spazio tranquillo nel mezzo delle battaglie che infuriano - spazio che potrà scambiare per la pace, ma che pace non è - e tra i cadaveri che si accumulano intorno a lui. Qualcuno, invece, ne è acutamente consapevole o è costretto a esserlo. Ma per gli uni e per gli altri la vita è un lento morire. Ignorarlo è una benedizione: un dono per certuni, una conquista per altri.