Di fronte a una malattia totalmente invalidante, di fronte a una morte incombente e rimandata di giorno in giorno solo grazie a un inefficace accanimento terapeutico, di fronte a una vita ridotta a puro fatto biologico in cui l'individuo è spogliato di ogni autonomia e volontà, l'atteggiamento popolare è molto più pragmatico e, in questo senso, più progredito - perché più aderente alla realtà - di quello dei nostri legislatori, i quali, invocando la sacralità della vita (tanto più sacra quanto sono loro a controllarla e non il soggetto che dovrebbe viverla e non può), si trasformano in interpreti ed esecutori di un presunto progetto divino. La stragrande maggioranza degli individui sceglierebbe, per sé, una morte rapida e indolore - una morte consapevole - a una prolungata agonia imposta da qualcun altro, che quell'agonia non la sperimenta nel proprio corpo e nella propria psiche, ma che estendendo quella altrui pensa forse di mondare la propria coscienza. A questo pensavo mentre, in silenzio, un paio di sere fa ascoltavo i discorsi dei parenti al di qua della barriera d'ingresso del reparto di rianimazione dell'ospedale di Gallarate dove è ricoverato anche mio padre, in condizioni gravi sì, ma - considerate le circostanze - meno gravi degli altri degenti, una delle quali era in coma vegetativo, senza alcuna speranza di recupero. Il tenore delle conversazioni era lo stesso: meglio morire subito e staccare i macchinari, piuttosto che mantenere intatte le apparenze di "una vita che della vita non ha più niente". "Dicono che oggi si è allungata la vita, ma la qualità della vita?" diceva il figlio di quella donna, osservando che vent'anni fa, con una tecnologia meno avanzata, sua madre sarebbe morta subito - e sarebbe stato meglio così. La moglie di un altro uomo, approdato in quella specie di tetra anticamera della morte dopo una via crucis di ospedale in ospedale, ha detto che la spina la staccherebbe lei, a costo di finire in galera, e ha aggiunto che, se capitasse a lei, preferirebbe che le facessero "un'iniezione per farla morire". "Meglio andare in Svizzera - ha detto -, dove uno può farla finita in pace". Il sentire comune della gente, tanto spesso invocato a sproposito, è pronto non soltanto per il testamento biologico, per l'interruzione dell'accanimento terapeutico, ma probabilmente anche per l'eutanasia. Credenti e non credenti, cattolici e non cattolici: tutti quelli con cui ho parlato recentemente di questa faccenda si sono dichiarati d'accordo e non ho ancora sentito nessuno che abbia difeso il vivere per il vivere comunque, costi quel che costi. Qualcun altro ha evocato lo spettro di Eluana Englaro e del martirio decennale del padre che si è eroicamente battuto perché fosse rispettato il desiderio della figlia. "Vent'anni! - ha commentato il figlio della donna - E nostra madre è qui così da un mese e ci sembra già un'eternità". Forse verrà il giorno in cui non sarà più nemmeno questione di rispettare la volontà di chi desidera morire, perché non ci saranno più nemmeno le risorse per sopportare i costi di cure sempre più costose - e inutili -, e allora qualcuno troverà qualche spiegazione teologico-morale per compiere un'inversione a U e scaricarsi così la coscienza: del resto, anche oggi - e non soltanto venti, trenta o quarant'anni fa da noi -, un contadino del Bangladesh è condannato a morte sicura se gli si abbatte sulla testa una di quelle malattie catastrofiche che portano i nostri pazienti in rianimazione. "E' proprio vero: sappiamo come veniamo al mondo, ma non sappiamo come ce ne andiamo" ha commentato banalmente la moglie di quell'uomo. Non lo so, io mi illudo che dobbiamo ostinarci a rivendicare la nostra libertà di morire, ho ripensato alle parole di Seneca sul suicidio: "Se uno ha la scelta fra una morte in mezzo ai tormenti e una morte senza sofferenze, perché non dovrebbe scegliere quest'ultima? [...] Ma per la morte non occorre che il proprio consenso: la migliore è quella che torna più gradita". Stoicismo fuori moda per chi vorrebbe farci credere che abbiamo diritto a un simulacro di eternità.