Sarebbe stato facile, per Cristian Mungiu, prendere una scorciatoia e girare il solito film in cui una povera ragazza innocente finisce per essere vittima di una congrega di religiosi fondamentalisti, crudeli e sadici. Sarebbe stato facile e rassicurante. Con il suo ultimo lavoro, Oltre le colline, Mungiu percorre invece una via più impervia e più ricca di sfumature, sia nella caratterizzazione dei personaggi che nel giudizio morale su di loro.
In Romania, in una delle zone più povere del paese, arriva Alina (Cristina Flutur) che, dopo aver vissuto per un certo periodo in Germania, va a trovare l'amica del cuore Voichita (Cosmina Stratan) con cui è cresciuta in un orfanotrofio. Ora Voichita ha scelto di vivere in un monastero cristiano-ortodosso - ma a suo modo inviso alla Chiesa Ortodossa ufficiale - che si trova "oltre le colline", in cui una comunità di monache chiusa su se stessa e con minimi contatti con il resto del mondo è governata da un sacerdote carismatico (Valeriu Andriuta) e da una sorta di madre superiora (Dana Tapalaga). Sin dall'inizio è evidente che tra le due ragazze c'è qualcosa di più di una semplice amicizia, anche se non è mai evidente quanto del loro rapporto sia amore e quanto dipendenza reciproca sviluppatasi in un ambiente non facile come quello del brefotrofio. Le regole all'interno del monastero sono sì severe, ma liberamente condivise da chi ha scelto di farvi parte. Alina vi irrompe subito come elemento perturbante, convinta di poter portare Voichita con sé in Germania per lavorare su una nave, possibilità non contemplata però per chi ha accettato di dedicare la propria vita al servizio di Dio. Da questo momento la ribellione di Alina, del tutto estranea all'atmosfera che pervade il monastero, si fa più radicale e violenta, fino a degenerare in un attacco che richiede il ricovero immediato in ospedale. Quando viene dimessa, Alina insiste per tornare al monastero, malgrado il padre e la madre superiora cerchino di dissuaderla: Dio si manifesta quando vuole e bisogna essere disposti ad accoglierlo.
Fino a questo punto, quindi, i religiosi si dimostrano piuttosto ragionevoli, all'interno del loro sistema di credenze. Sono sì dogmatici e fondamentalisti, ma non tentano di fare proselitismo e vogliono che chi entra a far parte della loro comunità lo faccia con piena consapevolezza. Anzi, è indubbio che la comunità del monastero cerchi di vivere davvero secondo princìpi di povertà cristiana, rifiutando quelle ricchezze del mondo a cui invece pare essere dedita anche la Chiesa Ortodossa Romena più tradizionale: il fatto che il vescovo locale rifiuti di consacrare la cappella accampando la scusa che non è adeguatamente affrescata ne è una dimostrazione. E' Alina, invece, che cerca a tutti i costi di forzare loro la mano, è Alina che, non essendo in grado di accettare quelle regole (per quanto assurde e ostili alla libertà umana), li aggredisce sia verbalmente che fisicamente, lanciando accuse prive di fondamento e profanando quanto vi è di più sacro alla comunità. Questa aggressione e lo stato di alterazione che l'accompagna bastano a convincere i religiosi che Alina sia posseduta dal demonio. Con le (loro) migliori intenzioni decidono quindi di sottoporla a un esorcismo, tenendola legata e immobilizzata a una rudimentale croce per giorni e giorni, fino al prevedibile esito fatale. Quello che sorprende, nell'evolversi della trama, è la tranquillità mantenuta dai religiosi: anche quando vengono interrogati dai poliziotti, anche quando vengono trasportati alla centrale, non manifestano ira, bensì solo incredulità e stupore, senza nessuna ribellione o violenza. E' una conversazione quasi surreale quella che si svolge tra loro e il poliziotto, che usa tutti i riguardi e una cortesia squisita per spiegare loro che hanno commesso un reato - e pure di una certa gravità -, quasi come se fosse lui stesso in imbarazzo per il fatto di doverglielo ricordare.
Chi cerca risposte facili e consolatorie, quindi, non le troverà in questo Oltre le colline. Non troverà neanche il classico film sugli esorcismi. Benché il trailer mostri le scene più movimentate di tutta la pellicola e dichiari che afferra lo spettatore alla gola - così mi pare di rammentare - come un thriller di Hitchcock, non è così. Il ritmo è anzi molto lento e ci si impiega parecchio prima di entrare nel vivo del dramma. Anzi, in tutta la prima parte - almeno fino alla "grande crisi" di Alina -, la figura degli assennati la fanno quasi solo le monache e il padre del monastero. Però la lentezza con cui la narrazione procede permette allo spettatore di immergersi, a poco a poco, nella forma mentis di questa comunità, fino a comprenderne la ragion d'essere (pur senza giustificarla o permettergli di identificarvisi). La fotografia è adeguatamente algida, con una prevalenza dell'azzurro ghiaccio come colore dominante dello sfondo. Certamente il film ci avrebbe solo guadagnato con una bella sfrondata, perché due ore e mezzo sono davvero troppe. Ci sono scene inutili, che nulla o quasi aggiungono all'economia complessiva della narrazione - penso per esempio alla scena del temporaneo ritorno di Alina a casa della famiglia affidataria, accompagnata dalla madre superiora -, o scene che si smarriscono in inutili lungaggini - quando Alina viene legata alle assi, o quando le monache vengono portate con la camionetta della polizia alla centrale: il film avrebbe potuto concludersi tranquillamente al momento dell'arrivo della polizia. Se è vero che il male regna sul mondo, è altrettanto vero che si tratta di un male "liquido", che si è infiltrato ovunque, assumendo diversi volti fino a rendersi irriconoscibile per quello che è. E' come lo schizzo di acqua sporca che insudia il parabrezza della camionetta della polizia. Non c'è nemmeno la consolazione dell'odio, nel film di Cristian Mungiu.
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