Sono rimasto favorevolmente impressionato dal nuovo film di Matteo Garrone, Reality, anche se per tutta la sua durata ho provato un disagio costante, che a tratti sconfinava nell'angoscia. Disagio sia per il mondo irreale dei "reality" - ma non solo di quelli - a cui il protagonista, il pescivendolo Luciano (Aniello Arena) desidera così tanto accedere da perdere il senno, sia per l'iper-realistico mondo dei bassi napoletani in cui si muovono i vari personaggi. Sotto questo aspetto il regista deve avere colpito il segno, almeno per quanto mi riguarda, toccando qualche nervo scoperto e qualche corda tesa.
Sin dall'inizio è evidente questa frattura tra il mondo fantastico e fantasmato e quello quotidiano, perché il film si apre con una ripresa dall'alto fino a planare su una carrozza che trasporta due sposi in una sorta di universo magico allestito in una delle ville del Miglio d'Oro*. I festeggiamenti intorno al matrimonio sono già una replica dell'immaginario televisivo assunto a modello di una dimensione che sfugge alle regole del banale quotidiano sollevando i protagonisti al di sopra delle loro miserie, anche se allo spettatore esterno sembra piuttosto che questa sfarzosità posticcia serva solo a potenziarle. Ed è proprio in questo contesto che Luciano conosce Enzo, il trionfatore dell'ultima edizione del Grande Fratello, anonimo ragazzo a cui apparire in televisione ha conferito un'aura di splendore. Luciano lo tampinerà, in seguito, per riuscire a entrare a sua volta nella "casa". Dopo questa scena di festa c'è il ritorno dei personaggi nelle loro abitazioni: al fragore e all'allegria chiassosa si sostituisce il silenzio della notte con i suoi colori più cupi. L'obiettivo della cinepresa li osserva mentre si svestono e si preparano per andare a dormire: è una spoliazione anche simbolica, per così dire, che mette ancora più in risalto lo squallore del reale, contrapposto allo sfavillio pacchiano di quell'altro mondo.
Dopo aver fatto, dietro insistenza dei figli, il provino per entrare al Grande Fratello, Luciano si stacca sempre più dalla realtà e comincia a credere che “quelli della televisione” lo tengano sotto controllo, spiandolo per verificare se davvero è adatto a partecipare al reality. In un primo momento amici e parenti lo assecondano, ma è evidente che loro restano comunque con i piedi saldamente piantati per terra e la loro approvazione è tinta di uno scetticismo sornione (si pensi, per esempio, allo scherzo che un parente gli gioca quando gli telefona fingendo di essere un responsabile televisivo che lo convoca nella casa del Grande Fratello), mentre Luciano decide di vendere la pescheria e di regalare tutti i suoi beni ai poveri per fare “bella figura” con i suoi presunti sorveglianti.
A me sembra, però, che sotto la superficie - la riflessione sull’apparenza e sulla realtà, sull’influsso reciproco di vita concreta e immaginario televisivo - ci sia anche un altro tema, che definirei di natura religiosa. Il problema, per Luciano, è anche la ricerca di un senso dell’esistenza che trascenda l’esistenza di tutti i giorni. Come se questa fosse l'unica forma di trascendenza concessa a un mondo che ha reso marginale ogni esperienza sinceramente spirituale. Non a caso, i termini che ricorrono in continuazione, quando la “chiamata” nella casa non arriva, sono “fede” e “speranza” (mentre la “carità”, per quanto interessata, ce la mette direttamente il protagonista distribuendo i suoi averi ai poveri). C’è la scena spassosa del cimitero, in cui Luciano chiede a due vecchiette, che suppone essere mandate dalla televisione a spiarlo, che cosa deve fare per entrare nella “casa”: il dialogo che si sviluppa, benché basato su un equivoco, ha delle evidenti connotazioni religiose e un fondo di serietà.
Ad accorgersene è Michele, che invece religioso lo è davvero - senza che però la sua religiosità diventi una fuga dalla realtà, a cui lui resta bene ancorato - e che cerca di salvare dalla sua mania. Probabilmente senza riuscirci: il finale è problematico ed è l’unica pecca di un film riuscito. Si ha infatti la sensazione che il regista l’abbia imbastito perché non sapeva più come tirare i fili narrativi dipanati fino a quel momento. Certamente si tratta di una fantasia (o di un sogno), che potrebbe significare che se, in senso lato, Luciano riesce a entrare nella casa del Grande Fratello, rimane comunque un corpo estraneo che gli altri non vedono. Da questa visione la macchina da presa si stacca e ritorna a presentare allo spettatore una panoramica dall’alto, la stessa con cui era cominciato il film, ma stavolta in notturna. L’unica nota luminosa resta la “casa” fantasmata di Luciano.
[* grazie a Village per la segnalazione-correzione]
Bella lettura, complimenti. resta il problema del finale, che anch'io non ho ben compreso.
Posted by: Luca | 15/10/2012 at 19:46
Condivido buona parte della recensione, ma non lo "squallore" della vita quotidiana della Napoli povera, cui appartiene il protagonista.
Mentre guardavo il film - e dopo - mi sono ritrovato a pensare che per una volta veniva rappresentato in un film italiano un contesto umile, anche kitsch, ma senza quel senso di disgusto, di rifiuto che mi hanno tramesso film analoghi.
al contrario la povertà di Luciano è dignitosa e molto umana, la sua famiglia è esteticamente improbabile, ma alla fine è capace di ascoltare e sostenere i suoi membri.
Nella meravigliosa scena iniziale non si finisce in un centro commerciale (!!!), ma in una delle ville del Miglio d'Oro
http://it.wikipedia.org/wiki/Miglio_d%27oro
Posted by: aelred | 15/10/2012 at 21:29
Grazie per la correzione: non conoscendo le ville del Miglio d'Oro, ho sovrapposto quella immagine a quelle successive girate nell'outlet. Ora correggo.
Sul resto, be', io non penso che "povero è bello": si può essere poveri e dignitosi, ma è indubbio che quei bassi sono abbastanza squalliducci :)
Posted by: stefano | 16/10/2012 at 09:03