In Berlin, docu-film realizzato da Michael Ballhaus e da Ciro Cappellari, s'inserisce (volontariamente o no) nel filone delle operazioni di autopromozione messe in atto da Berlino negli ultimi anni per rendersi ancora più attraente agli occhi dei turisti e di coloro che non hanno la fortuna di abitarci sbattendogli in faccia quello che si perdono. Berlino città cool, Berlino città che adesso è di moda e in cui chi è trendy deve esserci, Berlino città povera ma sexy, come ha detto il suo sindaco, Klaus Wowereit, qualche tempo fa. Premetto che In Berlin è anche un bel film da guardare, tecnicamente ben realizzato e ben montato, con l'alternarsi delle testimonianze e delle interviste dei vari personaggi scelti dai registi a rappresentare la città, ma la mia perplessità maggiore riguarda proprio questa scelta. Quello che manca, in questo ritratto di Berlino, sono però le persone "normali", quelle che si alzano ogni mattina e vanno a lavorare, quelle magari che non vivono nei quartieri in della movida: qui, infatti, si ha la sensazione che nella capitale tedesca ci siano solo artisti, creativi, intellettuali e alternativi e che, a parte loro, regni il deserto. Certo, nelle riprese, ogni tanto appare qualcuno che si muove sullo sfondo, ma resta per l'appunto uno sfondo della cui vita nulla si sa. Nessuno dei protagonisti è particolarmente famoso in Italia - e, temo, neanche in Germania -, ma tutti contribuiscono a delineare quel profilo di Berlino a cui accennavo prima. Tra i primi a parlare c'è Alexander Hacke, membro del gruppo musicale degli Einstuerzende Neubauten, a cui è affidato anche il brano (Ich warte) con cui si chiude il film. Poi seguiamo le prove teatrali di una pièce in cui il regista fa recitare la figlia Down di un'attrice (Angela Winkler), perché in quel modo può presentare il testo da un'angolatura diversa. Tra quelli a me noti c'è invece lo scrittore Peter Schneider, che forse oggi non si fila più nessuno, ma che una trentina d'anni fa scrisse un libro di un certo successo, Der Mauerspringer, tanto da essere sempre intervistato (in Italia) quando si parlava di muro (anche perché è uno dei pochi che sanno l'italiano). Tra i protagonisti del film c'è anche il sindaco, "Wowi", che naturalmente fa la sua parte tessendo le lodi della città e sottolineando come, a differenza di Parigi e Berlino, sia rimasta alla portata di tutti. In generale arriva per tutti gli intervistati il momento di lamentarsi del fatto che ormai, persino a Berlino, il mercato, il commercio e il vile denaro stanno soppiantando i sani valori della gratuità e della spontaneità creativa, come fa a un certo punto un "creativo" che per l'appunto "crea" la sua arte negli spazi urbani in sfacelo e abbandonati, sempre più rari. Se è vero che a Berlino si può vivere incurati di come procurarsi i soldi, perché ne bastano pochi, è altrettanto vero - e quel creativo, come tanti, lo dimentica o lo passa sotto silenzio - che la città è ampiamente foraggiata e sovvenzionata dal denaro pubblico federale. In misura minore rispetto al passato, secondo Klaus Wowereit, che sostiene di avere impresso una svolta quando è entrato in carica lui. Un film in cui Berlino si rispecchia un po' narcisisticamente e che nulla mostra delle contraddizioni e delle ferite che ancora oggi la solcano.
Leggo proprio ora che Quodlibet ha da poco pubblicato "Tutti a Berlino - Guida pratica per italiani in fuga", naturalmente scritto da due transfughi italiani. E quando saranno tutti là?, mi chiedo, che caspita troveranno da fare? E, soprattutto, cosa ne sarà di Berlino?
Posted by: fuchsia | 18/10/2012 at 13:19
Probabilmente ci daranno in cambio carrettate di berlinesi che vogliono venire a vivere qui. In un certo senso, lo spero.
Posted by: stefano | 19/10/2012 at 12:43