Invecchiare è una tragedia, anzi la vecchiaia è l’inferno: lo sanno i protagonisti del romanzo di Yehoshua Kenaz, Voci di muto amore, ambientato - almeno nella prima parte, la più sostanziosa - in una casa di cura per lungodegenti nei pressi di Tel Aviv. Sono tutti lì dentro da tempo e non sanno quando e se usciranno. Qualcuno di loro non uscirà mai. Sono soli, o quasi, e non hanno più nessuno al mondo o, quando hanno dei famigliari, questi non sono poi così ansiosi di ritrovarseli in casa. Eppure, anche all’interno dell’ospedale e malgrado gli screzi e le difficoltà relazionali, tra di loro si crea una strana sorta di solidarietà e un legame che assomiglia all’affetto e che viene cementato dall’abitudine. I vecchi di Kenaz suscitano pietà nel lettore anche perché non rappresentano tanto una condizione “metafisica” - come, per esempio, certi personaggi vecchi e senza tempo di Samuel Beckett, per fare un esempio -, ma perché sono ritratti con una concretezza terribile. Oltretutto, chi legge il romanzo e se li trova davanti non può fare a meno di interrogarsi sul proprio rapporto con l’invecchiare: come reagiremmo noi se ci trovassimo nella stessa situazione?
Il romanzo di Kenaz è polifonico: tanti sono i personaggi e l’autore ne registra le voci, le manie, i tic, le caratteristiche. A quanto pare - così assicura il traduttore in una nota introduttiva - l’originale ebraico rende maggiore giustizia a questa polifonia, perché il linguaggio che parlano molti dei protagonisti è inevitabilmente segnato (e “corrotto”) dalla loro lingua madre (che non è l’ebraico) e questo fatto, intraducibile in italiano, serve a rendere ancora più preciso il loro profilo. Questo aspetto sottolinea ancora di più la marginalità di certi personaggi, marginalità che viene contrapposta, tra l’altro, al senso di appartenenza - alla “normalità”, come viene definita da qualcuno di loro - dei “sabra” che s’incontrano nella saletta in cui giocano a carte. La scrittura di Kenaz è anche molto cinematografica: l’esperienza della lettura è molto visiva, come se ci fosse una macchina da presa che si sposta da un personaggio all’altro, da una situazione all’altra, senza soluzione di continuità, passando da una scena a quella successiva.
C’è però un personaggio che, in qualche modo, è il fulcro di tutto il romanzo. Si tratta di Jolanda Moskovitch, ex insegnante di francese ricoverata nella casa di cura dopo una brutta caduta e costretta a camminare con il girello. Intorno a lei si coagula tutta la vita della clinica. E’ un personaggio piuttosto complesso e più sfaccettato di quanto dichiari lo stesso Kenaz in quest’intervista. Se è “egoista ed egocentrica”, come dice lui, è anche vero, però, che non è soltanto questo. E’ prigioniera delle sue paure, si è costruita un muro attorno per difendersi dallo sfacelo della vecchiaia ed è ossessionata dall’immagine che le rimanda lo specchio, a cui cerca di rimediare curando ossessivamente la propria acconciatura e truccandosi pesantemente - e a tratti ne è persino consapevole - “come una vecchia battona dopo la sua ultima chance”. Guarda con aria di superiorità le altre donne del reparto - le “romene” come lei -: Clara, Frida e Allegra. Con quest’ultima, che, nonostante la malattia ben più grave e le continue emorragie, si contraddistingue per un grande spirito di abnegazione e di sopportazione, ai limiti della santità, stabilisce un rapporto quasi da padrona a serva. Jolanda ha però anche un lato fragile che si manifesta quando s’incapriccia di Lazar Kagan, un vecchio pittore che viene ricoverato per una ferita alla gamba e che le promette di farle un ritratto.
Come ho già accennato, sono numerosi i personaggi che popolano il microcosmo ospedaliero di Kenaz. Oltre alle già citate amiche di Jolanda, ci sono gli infermieri, come l’ambiguo Leon e l’inserviente arabo Rafi - di cui Jolanda prende generosamente le difese quando viene aggredito dai parenti di una degente morta da poco -, la capo-infermiera Rosa, soprannominata “Satana” da Jolanda, convinta che abbia il potere di gettare il malocchio. C’è Paula, la “pazza”, che vaga di camera in camera e si stende sui letti non suoi, protestando che tutta la casa di cura è “del suo papà”, che gliela farà vedere a tutti quanti. E c’è Adela, un personaggio ambiguo almeno quanto Leon, che viene di tanto in tanto a massaggiare Allegra prima che questa muoia e che si fa intestare - esclusivamente per amicizia - tutti i suoi beni. A Kenaz basta qualche pennellata per renderli vivi e reali ai nostri occhi.
Nell’ultima parte il cerchio si stringe e la situazione si fa più claustrofobica. Jolanda viene dimessa e torna a casa sua, un appartamento al quarto piano di un edificio di Tel Aviv. Da lì, costretta a muoversi con il suo girello, non esce più. Il suo senso di solitudine e la paura, suscitata anche dall’incapacità (e dall’impossibilità) di interpretare i segnali del mondo esterno, aumentano. Kenaz riesce a farci assumere il suo punto di vista e a erodere le sue - e quindi le nostre - certezze. Per esempio: l’infermiere Leon la vuole davvero aiutare quando la mette in guardia dai maneggi di Adela, che a sua volta si fa viva e, in cambio di assistenza e di massaggi, le chiede di firmare delle carte per lei, mettendola a sua volta in guardia da Leon, che sarebbe in combutta con certi brutti ceffi per farla ricoverare in un ospizio-lager e impossessarsi di tutti i suoi beni? Chi fa veramente gli interessi di una vecchia sola? In quel deserto che è diventato la sua vita, qualsiasi gesto umano diventa una scialuppa di salvataggio, anche quando magari non è proprio disinteressato. Oppure, d’altro canto, c’è il rischio di respingere qualsiasi atto di generosità altrui scambiandolo per un atto interessato, preda di una diffidenza sempre più accentuata. A questi interrogativi Kenaz non offre una risposta, ma si limita a presentarli, alla sua protagonista e ai suoi lettori. Il paradosso è che Jolanda finisce per rimpiangere la casa di cura, che almeno le assicurava uno strano senso di intimità: “Stavamo bene, se lo ricorda? non era proprio così terribile. Io dicevo: un inferno. Non sapevo quello che dicevo. Dopo un inferno ce n’è un altro, e un altro ancora: sempre più in basso, sempre peggio. Non lo so quando finirà”.
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