Conclusa l'ultima traduzione che dovevo consegnare a fine maggio, mi ritrovo con il mio solo lavoro principale e un sacco di tempo da occupare. Ne approfitto quindi per leggere e, soprattutto, per smaltire tutti quei film che avevo scaricato e accumulato, rimandandone la visione a tempi migliori. C'è di tutto, dalla spazzatura alle pellicole di qualità, ma più della prima che delle seconde. Non avendone scritto singolarmente, un po' perché non ne valeva la pena e un po' perché m'impigrisco e nella mia testa campeggia da tempo un immenso cui prodest, tenterò delle minirecensioni collettive.
Partendo a ritroso, ieri sera ho guardato, dopo la mia prima visione di quasi vent'anni fa, Berlin - Die Sinfonie der Grossstadt, di Walter Ruttmann, del 1927. L'avevo visto per la prima volta nel 1994, durante un seminario dedicato alla rappresentazione della Berlino degli anni di Weimar che si teneva alla Humboldt-Universitaet. Il film affastella una serie di immagini e di scene tratte dalla vita cittadina. Ovviamente in bianco e nero e accompagnato da una colonna sonora, ma senza dialoghi, vuole mostrare la dinamicità e la modernità della capitale tedesca in quel periodo, quando era la metropoli alla moda per eccellenza (un po' come oggi, a dire il vero). Il film ripercorre la giornata-tipo di Berlino e comincia con un treno che, filando veloce, porta in città lo spettatore, che poi assiste al risveglio dei suoi abitanti, alle attività lavorative che fervono - e la cui idea di modernità, osservata con il senno della nostra era digitale, intenerisce: nulla invecchia così rapidamente come le innovazioni tecniche - fino ai famosi divertimenti della notte. Il tutto per poco più di un'ora, che vale la pena di vedere non solo per scoprire qualcosa che non c'è più - quella Berlino fu distrutta durante la seconda guerra mondiale -, ma per confrontarla con la rinascita attuale della città.
Poi ci sono gli immancabili film horror, nelle loro diverse declinazioni e incarnazioni, consumati nella speranza di trovare quello che mi dia piena soddisfazione. Ho guardato Shadow. L'ombra di Federico Zampaglione, già noto per la sua attività di musicista pop. Il film racconta di un giovane soldato che, tornato dall'Iraq, si ritira dalle parti di Tarvisio per dedicarsi alla sua passione, il biking, nella natura incontaminata. Lì conosce una ragazza e, dopo che entrambi sono stati vessati da due rozzi cacciatori, tutti vengono rapiti da un individuo inquietante che incomincia a torturarli. Il film è così spezzato in due parti: una prima parte dove il senso d'inquietudine è prettamente "atmosferico" e una seconda che è debitrice degli stilemi del cosiddetto torture porn (anche se le efferatezze qui sono più suggerite che esibite). Certo, guardandolo uno si chiede, per esempio, quale sia il motivo di tutte queste torture che sembrano gratuite, ma la spiegazione la fornisce il finale, quando tutto si rivela un incubo del protagonista ricoverato in un ospedale da campo e salvo per miracolo: il mostro del sogno altro non è che una figurazione del male del suo inconscio. Film pregevole, anche se la morale "pacifista" e l'impegno anti-bushiano - in una scena del film l'immagine George W. Bush è affiancata a quelle di dittatori Stalin e di Hitler - è piuttosto facile e scontata.
Horror più "ruspante" è l'australiano The Tunnel, di Carlo Ledesma, prodotto con un budget molto ristretto e messo a disposizione in rete per essere scaricato gratuitamente. Per una recensione più articolata - e più entusiasta - rimando a questo blog. Il film non è male e usa lo stratagemma del finto documentario televisivo che, in questo caso, documenterebbe il tentativo di una troupe televisiva di scendere in un tunnel sotterraneo, ormai inutilizzato, della metropolitana, per scoprire per quale motivo il governo di Sydney ha abbandonato un programma di riciclo delle acque. In quel tunnel s'imbattono in eventi misteriosi, persino in un "mostro" - che non vediamo mai direttamente - che fa a pezzi qualcuno di loro. Costruito con una certa abilità, il film si regge e diventa credibile grazie non soltanto alla forma scelta, ma anche grazie alla bravura degli attori.
Il terzo horror è più commerciale: si tratta di Pathology di Marc Scholermann, del 2008. La trama è abbastanza improbabile: nell'ospedale di una grande città americana un gruppo di giovani anatomopatologi si sfida a trovare il delitto perfetto e, così facendo, ognuno di loro ammazza a destra e a manca, invitando poi i suoi colleghi a scoprire le cause della morte della vittima. Uccisioni e autopsie diventano quindi il pretesto per mostrare dettagli truculenti. Il film ha il pregio di farsi guardare, però. Non soltanto per la trama, benché assurda, ma anche per l'atmosfera di cupezza metropolitana che riesce a creare. E poi confesso che il film l'ho scaricato anche per la presenza di Milo Ventimiglia, nella parte del giovane medico genietto Ted Grey, che arriva in ospedale all'inizio e scompagina gli equilibri del gruppo di anatomopatologi già presenti, suscitando invidie e gelosie. Ventimiglia incarna qui il bello che, sotto un'apparenza innocente, nasconde qualcosa di perverso - e il bravo ragazzo che commette una serie di nefandezze come se niente fosse è un grande classico. Senza contare che qui c'è anche il bonus delle sue chiappe nude in un paio di scene.
Dopo tutti questi horror, l'altra sera ho guardato, con lui, Il mio migliore incubo!, di Anne Fontaine, uscito poco tempo fa nelle sale cinematografiche. Commedia abbastanza leggera e anche prevedibile nel suo intreccio e nella sua conclusione, ha però il merito di mostrarci un nuovo lato di Isabelle Huppert. O, per meglio dire, ci presenta il solito personaggio interpretato da Huppert, Agathe - altoborghese, un po' nevrotica, radical chic e curatrice di una galleria che si occupa d'incomprensibile arte contemporanea -, solo che stavolta, invece di sfruttarlo a fini drammatici, lo mette in ridicolo, facendolo scontrare con il belga rozzo, incolto, volgare e ossessionato dal sesso - ma, del resto, che cosa può essere un belga se non irrimediabilmente provinciale per dei parigini comme-il-faut -, interpretato da Benoit Poelvoorde. E, per rincarare la dose, il figlio di lui è un piccolo genio, mentre quello di lei ha un quoziente intellettivo sotto la media. Il film si fa beffe di tutta una società - e io ho trovato particolarmente spassosa la figura di Julie, l'amante new age del compagno di Agathe, spassosa proprio perché esageratamente caricaturale.
E ora, fino al prossimo incarico, che da un lato temo (perché la mia pigrizia vorrebbe evitarlo) e dall'altro aspetto (perché altrimenti mi corrode l'ansia), continuerò a smaltire il resto (incluse le serie televisive inglesi o americane già iniziate e che non posso abbandonare a metà).
L'ultimo mi interessa particolarmente.
Posted by: Giovanni Maria Ruggiero | 10/06/2012 at 14:04
"Pathology" è improvvisamente diventato la mia priorità.
Posted by: Paolo | 17/06/2012 at 22:39