Con il vecchio stratagemma del manoscritto ritrovato, un diario - in questo caso nel parcheggio della discoteca Ambasada Gavioli a Isola d’Istria - lo sloveno Brane Mozetič racconta nel suo romanzo Storia perduta le vicende di un gruppo di personaggi, per lo più gay, ma non soltanto, tra i venti e i trent’anni, e la loro vita quotidiana, fatta soprattutto di scorribande da un club all’altro tra Lubiana e altre località della Slovenia, gli after-hours che durano giornate intere soprattutto durante i weekend, e il consumo abituale di alcool e di droghe, dalla marijuana all’ecstasy e allo speed. Il diario, scritto in prima persona da Bojan, copre un arco di tempo che va dal 2 gennaio fino al 19 luglio dell’anno successivo.
Al centro di tutto c’è una storia d’amore che non vuole mai sbocciare veramente, restando allo stato di possibilità, descritta da Bojan con grande sobrietà, senza patetismi e romanticismi inutili. Bojan, che ha ventott’anni, sta in realtà da parecchio tempo con Tim, con cui condivide casa e, spesso, anche gli amanti che entrambi rimorchiano quando vanno in discoteca. I rapporti con i loro amici sono di necessità abbastanza superficiali e strumentali, basandosi sul tempo trascorso insieme a fare festa o a spartirsi le droghe. Questa superficialità è ben resa dalla scrittura di Mozetič, che non indugia in psicologismi inadatti al carattere dei protagonisti e privilegia invece uno stile nervoso pieno di dialoghi e di fatti.
A scompaginare la routine interviene Arjun, un ragazzo diciannovenne di origine indiana, che comincia a ronzare attorno a Bojan e a Tim. Arjun è, in realtà, eterosessuale - o, per lo meno, è ancora piuttosto confuso sui suoi desideri sessuali. Quando è sballato, in preda agli effetti di qualche droga, si sente attratto da Bojan e lo stuzzica, ma senza arrivare mai veramente al dunque. I suoi discorsi sono tipici di quei ragazzi che vogliono giustificare, ai propri occhi innanzitutto, pulsioni omosessuali “improprie” e che, magari quando sono sessualmente eccitati in presenza di un altro ragazzo, usano il “fantasma femminile” per scaricarsi la coscienza: “Ma posso scoparti... è già da tanto tempo che lo vuoi... sono sbronzo al punto giusto per una cosa del genere... immaginerò di scopare una tipa e...”. Ma è Bojan che non vuole un rapporto sessuale che, ottenuto così, sarebbe già degradato nelle sue premesse.
Arjun si droga come tutti gli altri, ma la differenza è che - quando non ci sono Bojan e Tim - sniffa anche eroina. Bojan traccia un limite oltre il quale non desidera andare e il limite è proprio rappresentato dall’eroina. Arjun sembra invece vittima di una pulsione autodistruttiva che, man mano che il romanzo procede, lo fa finire in un ospedale psichiatrico, forse per una cura di disintossicazione. Non è molto chiaro, ma è chiaro che Bojan e Tim lo aiutano a uscire da lì e insieme organizzano una “fuga” a Zanzibar, dove in qualche modo la storia tra l’io narrante e Arjun raggiunge il suo compimento (“Mi ha abbracciato, baciandomi. Di certo per la prima volta a mente lucida. (...) Mi ha accarezzato con il suo corpo, entrando dentro di me sempre più fino a dominarmi completamente.”) e la sua fine, con la partenza del ragazzo. In Bojan c’è la consapevolezza, venata di quella malinconia che già attraversava in maniera più sotterranea le pagine del suo diario, della provvisorietà di tutte le cose: “E meglio di tutto sarà che tutto questo mucchio di carte se ne volerà via, le immagini svaniranno con il passare del tempo senza pesarmi più addosso, si perderanno nella sabbia. Resterà soltanto, qua e là, qualche medusa blu, prosciugata, ormai inoffensiva”.
Questa “storia perduta” di Brane Mozetič ha l’indubbio pregio di evitare qualsiasi moralismo e qualsiasi sovrastruttura interpretativa, privilegiando un crudo realismo, anche quando inserisce ampi stralci di chattate del protagonista. Mozetič racconta le cose così come avvengono, dall’interno, senza l’intervento di una coscienza autoriale onniscente e giudicante, attribuendola magari all’io narrante del romanzo. Il narratore Bojan è, infatti, un individuo intelligente, ma la sua intelligenza non esce mai dal perimetro del suo carattere, per così dire, che gli detta tutte le reazioni e le riflessioni sulla storia. Dal punto di vista del lettore - o di quel lettore che sono io -, la storia è talvolta noiosa e ripetitiva. Ma lo deve essere, perché non avrebbe senso se il protagonista si chiedesse, d'un tratto: "Che razza di vita è una vita vissuta così?", uscendo all'improvviso da sé stesso. Il merito dell’autore, però, è di riuscire a calarvi dentro anche un “estraneo”, a cui a poco a poco cominciano a importare i destini dei vari personaggi. E’ un romanzo di cui all’inizio non si capisce bene dove voglia andare a parare, ma che ti cresce addosso man mano che lo leggi e di cui, alla fine, si serba un buon ricordo. Potrei dire paradossalmente che è un libro che, più che “piacermi”, mi “è piaciuto”.
Trovo molto efficace la chiusa di questa tua critica, e applicabile ad altri libri, concerti, opere teatrali...
Posted by: aitan | 07/06/2012 at 07:19