Ci tenevo molto a vedere questo Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, film con cui il regista ricostruisce anni tra i più bui della nostra storia italiana recente, che si coagulano intorno alla strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Non sto qui a parlare della trama della pellicola, ma mi limito a qualche impressione sparsa. Innanzitutto mi ha colpito la sobrietà con cui Giordana ha trattato la materia, ancora oggi incandescente e irrisolta, che si è trovato fra le mani. Avrebbe potuto scegliere, per esempio, di dare una sua interpretazione dei fatti o di avallare qualche teoria alternativa - come ce ne sono state e come, in parte, vengono ventilate anche durante il film stesso -, ma non l'ha fatto: alla fine Romanzo di una strage aderisce in maniera piuttosto fedele alle verità processuali e lascia aperti tutti gli interrogativi che sono rimasti senza risposta. Tanto per citare un caso, quando Pinelli muore, sfracellandosi nel cortile della questura, l'obiettivo segue il commissario Calabresi, che in quel momento è fuori dalla stanza dell'interrogatorio: un modo per far vedere senza mostrare chi ha commesso quell'atto, se qualcuno l'ha commesso, e senza accettare la versione ufficiale del suicidio. Lo stesso omicidio di Calabresi viene rappresentato un attimo dopo che è stato compiuto: non si vede - e Giordana si rifiuta di fare supposizioni - chi preme il grilletto. Oggetto della rappresentazione cinematografica è dunque ciò che si sa, cosa che forse toglie "pathos" narrativo a chi è abituato a vedere gialli o thriller a sfondo politico in cui alla fine tutti i tasselli del puzzle combaciano e indicano un colpevole certo. La stessa ipotesi della "doppia bomba" - una piazzata dagli anarchici, che sarebbe dovuta scoppiare solo a banca chiusa, a notte fonda, senza mietere vittime e l'altra, micidiale, innescata dai neofascisti - viene presentata appunto per quello che è: un'ipotesi che non riceve né conferma né smentita e che tutt'al più viene depotenziata dall'ulteriore ipotesi complottista fornita dal prefetto di Roma durante un colloquio a quattr'occhi con Calabresi, ipotesi verosimile e seducente (forse più seducente che verosimile), ma di cui è impossibile determinare lo statuto di verità. A dirla tutta, è proprio questo l'aspetto inquietante che colpisce lo spettatore che, come me - nato esattamente un giorno prima della strage -, non ha ricordi diretti di quel periodo: l'intrico di menzogne, verità, mezze verità, insabbiamenti che intorbidano una serie di eventi tragici fino a frustrare il nostro bisogno di sapere che cosa è realmente accaduto. E' come se uno strato di parole si spalmasse sopra le cose e, invece di descriverle e fare luce nell'oscurità, finisse per confonderle ancora di più e farle sprofondare ulteriormente nel buio. Si ha la sensazione di una certa "viscosità" della materia, che facilita l'impantanarsi di chi vorrebbe chiarezza. Sembra quasi che non ci sia qualcuno di specifico che non vuole scoprire la verità, ma che allo stesso tempo tutti (o molti) forniscano il loro contributo, più o meno piccolo, nell'occultarla sempre di più.
Il film è segmentato in diversi atti: questa recensione parla di un debito del regista all'opera e al melodramma, di cui serba l'aspetto formale se non il patetismo sostanziale. In realtà a me è capitato addirittura di pensare che questi vari atti fossero assimilabili a "stazioni" di un calvario, dove a essere martirizzato era tutto il tessuto civile del nostro paese. Non posso invece che elogiare la bravura degli attori. A partire da Valerio Mastandrea, nella parte del commissario Calabresi: io lo ricordavo come attore giovane un po' sbruffoncello e lo ritrovo qui maturato e misurato in un ruolo senza sbavature. La stessa cosa vale per la figura, dignitosa e integra, dell'anarchico Pinelli, impersonato da Pierfrancesco Favino, di cui ho apprezzato persino la mimesi linguistica con cui lui, romano, riproduce l'accento tipicamente milanese della parlata di Pinelli, senza che però questa diventi una parodia. E questa attenzione ai contorni linguistici dei personaggi e della storia è una costante del film - penso anche ai discorsi quasi in dialetto dei neofascisti veneti -, a mio giudizio segno di una notevole attenzione verso questo aspetto della realtà, cosa piuttosto insolita nella cinematografia italiana, così romanocentrica anche quando è, letteralmente, fuori luogo. Ammirevole è poi la ricostruzione dell'epoca e della città: ancora prima di vedere il film ne parlavo con una ex collega, che ha una quindicina d'anni più di me e che mi diceva come i suoi ricordi milanesi di quel periodo corrispondessero a quanto Giordana mostra nel film. Unica sbavatura, forse, è il modo in cui viene rappresentato Aldo Moro: mi sbaglierò, ma mi è sembrato che l'assassinio del politico abbia influenzato il personaggio cinematografico, che contiene già in sé il suo sacrificio futuro. E' come se, in qualche modo, lo statista presentisse la sua morte - si pensi per esempio alle parole che scambia con il sacerdote all'inizio del film -, e gli venisse attribuita una sorta di "ieraticità" che lo eleva al di sopra degli altri personaggi politici e che si manifesta persino nel tono e nella lettera dei suoi discorsi.
Ho letto da qualche parte che la vedova di Calabresi avrebbe lamentato l'esiguo spazio dedicato alla campagna di odio montata da Lotta Continua, all'epoca, nei confronti del marito. Naturalmente è sempre complicato, in un paio d'ore, trattare in maniera esauriente qualcosa di così complesso e tutti i film usciti di recente sugli anni del terrorismo hanno prodotto qualche polemica. A me è parso invece che la figura di Calabresi sia stata trattata con estrema dignità: la sua statura umana e la sua dirittura morale ne escono intatte e allo spettatore è ben chiaro quanto fango gli viene buttato addosso. Ci sono le scene del processo, in cui viene interrotto e irriso dagli scalmanati della sinistra extraparlamentare che vi assistono, c'è la scritta "Calabresi assassino" che sfila sullo sfondo mentre il commissario cammina con la moglie e la carrozzina del figlio, ci sono le telefonate anonime, vengono mostrate le pagine di Lotta Continua che lo accusano. Di più, forse, non si sarebbe potuto fare, se non gonfiando a dismisura una pellicola che già sfora le due ore o sacrificando altri elementi della storia. Per quanto mi riguarda, il mio giudizio su Romanzo di una strage è ampiamente positivo.
E' raro identificarsi perfettamente in una recensione di un film (che ho appena visto) e mi è capitato leggendo questo pezzo. Straordinario.
Posted by: luigi | 07/05/2012 at 14:07