Con il suo film del 2009 Lourdes la regista austriaca Jessica Hausner racconta due miracoli: uno che si realizza e un altro che invece non si verifica. Il primo è quello più ovvio che ci si aspetta da un pellegrinaggio a Lourdes: Christine, affetta da sclerosi a placche e ormai immobile e paralizzata su una sedia a rotelle, riacquista la capacità di muoversi. Il secondo, se si realizzasse, sarebbe un miracolo sui generis, ovvero la sospensione di quell'aspetto umano, troppo umano, rappresentato da invidia e risentimento. Perché è proprio quello che accade quando Christine riprende a camminare: gli altri pellegrini, che inizialmente la compativano per il suo handicap, non riescono a rallegrarsene, ma anzi cominciano a seminare dubbi sull'opportunità (e sulla giustizia, persino) che sia stata lei la beneficiaria dell'intervento miracoloso della Madonna. Forse qualcun altro l'avrebbe meritato di più, forse lei non era davvero così devota, forse stavolta toccava a quelli che il pellegrinaggio lo compiono ogni anno. (E, paradossalmente, in contemporanea al miracolo della guarigione di Christine c’è il crollo definitivo di Cécile, fervida credente, che durante la preparazione del salone dell’albergo in vista della festa conclusiva del pellegrinaggio si accascia a terra, colpita dalla malattia, improvvisamente esposta agli occhi di tutti attraverso la sua calvizie prima nascosta da una parrucca e dalla cuffia).
A me viene da pensare che questa sia una dimostrazione pratica di quanto è difficile condividere la felicità e la fortuna di un altro. Se, come dice il proverbio, “mal comune è mezzo gaudio” e non costa molto rattristarsi per le sventure altrui - come dimostra l’atteggiamento di generale comprensione e compatimento con cui è accolta inizialmente Christine dagli altri pellegrini e dagli assistenti, una sorta di comunità di condivisione del dolore -, non è altrettanto facile gioire quando la buona sorte della guarigione tocca solo a una persona. C’è un punto del film in cui, prima del miracolo di Christine, qualcuno chiede al sacerdote perché, secondo lui, se Dio è onnipotente ed è buono non fa guarire tutti. Il sacerdote risponde che la vera guarigione è interiore: il passaggio dalla disperazione alla speranza è, per esempio, già una forma di miracolo. I veri miracoli sarebbero invisibili, insomma. A giudicare però dalle reazioni dei vari personaggi alla guarigione “del fisico” della protagonista, non ci può sottrarre alla sensazione che la teoria del religioso subisca una clamorosa smentita, manifestando una visione piuttosto cupa della natura umana.
Un film tragico, quindi? Non del tutto, perché la regista riesce a costruirlo tutto sotto tono, per così dire. E questo lo rende sobriamente realistico. La scoperta del miracolo che guarisce Christine e le fa riacquistare l’uso degli arti avviene, per esempio, in una sorta di anti-climax che passa inosservato agli altri protagonisti. Mentre la vecchia pellegrina con cui condivide la camera spinge la sua carrozzella nella grotta benedetta, Christine solleva il braccio e ne sfiora le pareti. Il tutto dura pochi secondi, ma la scena - improvvisa - non è certo accompagnata da tuoni e lampi o da uno squillo di fanfare. Quando il miracolo poi si “perfeziona”, è notte e Christine si alza come se niente fosse dal letto, andando in bagno a pettinarsi. A notare l’avvenimento è la sua compagna di stanza e il tutto accade nel silenzio. La regista evidenzia anzi un certo gusto per la bella immagine: ci sono alcuni momenti in cui sembra di avere davanti un quadro secentesco, qualcosa che ricorda i dipinti di certi interni fatti dai pittori olandesi. Penso, per esempio, al risveglio della vecchia che condivide la stanza con Christine o la scena in cui Christine è alle piscine e ci sono tre volontarie che le versano addosso l’acqua “benedetta” con un mestolo.
Lo stesso anti-climax - sublimemente rappresentato dall’esibizione canora di un cantante di infimo ordine, che tra l’altro intona rauco “Felicità” di Al Bano e Romina, accompagnato da una volontaria stonata - caratterizza il modo in cui si manifestano le reazioni degli altri pellegrini. Non è una vera e propria esplosione di cattiveria o di malignità, perché tutto resta sotto traccia, appena accennato eppure chiaramente visibile. Come se nemmeno quest’aspetto poco lusinghiero della natura umana meritasse la forma roboante della tragedia. Il finale è perfettamente in linea con la cifra stilistica del film: non lo rivelerò, ma basti dire che è il punto conclusivo di una spirale discendente. Quasi una forma di “rassegnazione”, come se Christine, dopo un iniziale e pallido entusiasmo (venato più da incredulità che altro), si ritraesse in se stessa, incapace di credere davvero alla possibilità di un futuro diverso. Se il miracolo “esteriore” si è compiuto, quello “interiore” è naufragato contro la roccia dura della realtà.