Io, invece, vengo dalla terra e resto sulla terra, con i piedi ben piantati per terra. Se molti, a sinistra, si lamentano perché la riforma del lavoro proposta dal ministro Fornero rappresenterebbe la devastazione dei diritti dei lavoratori, ignorando così gli elementi positivi che questa riforma contiene e il progresso che rappresenta per molte forme di lavoro oggi "destrutturate", c'è qualcuno che scrive: "Non capisco perché due adulti non si possano accordare liberamente sullo scambio che vogliono fare: lavoro in cambio di denaro" e, rincarando la dose: "Non capisco perché il datore di lavoro debba pagare un'indennità ad una persona che ha licenziato, non importa per quale motivo: sono fatti suoi". Io, invece, laicamente e senza preconcetti ideologici sono a favore di indennizzi e sussidi al lavoratore. Ci sono parecchie cose che non condivido nella concezione del mondo (e del lavoro) che Fabristol esprime. Cerco di spiegare brevemente perché.
Premetto che una cosa è cercare di stabilire in che misura e in che modo debbano essere calcolati gli indennizzi per chi viene licenziato o per chi resta disoccupato, mentre altra cosa è decretare che non ci deve essere nessun indennizzo. Nel primo caso mi separa, da coloro per i quali nulla è mai abbastanza, l'atteggiamento realistico di chi sa che si deve, letteralmente, fare i conti con le risorse che ci sono e con le limitazioni "umane" delle persone a cui vanno queste risorse (necessariamente scarse, soprattutto in tempi di crisi). Non penso, infatti, che un sussidio debba diventare un incentivo a non lavorare o a non cercare un altro lavoro e non credo nemmeno che per il solo fatto di essere al mondo uno debba avere un qualche "salario di cittadinanza". Non immagino cioè che l'erogazione di un sussidio o di un indennizzo diventi un fenomeno permanente, dissociato da una qualsiasi formazione per il reinserimento nel mondo del lavoro. Posso, al limite, immaginare indennizzi o sussidi decrescenti quanto più alti sono i redditi - se guadagno ottocento euro al mese, sarà una tragedia perdere questa fonte di reddito, ma se ne guadagno diecimila, be', avrò provveduto a crearmi da solo una qualche forma di assicurazione e di materasso d'atterraggio in caso di perdita del lavoro - o diversificati a seconda dell'età dei lavoratori nel momento in cui vengono licenziati.
Capisco che l'idea "lavoro in cambio di denaro" è idilliaca e priva di problemi solo in un ipotetico universo di entità astratte, non certo nella realtà. Faccio un'ipotesi, neanche troppo campata per aria: ci sono numerose persone prive di qualsiasi professionalità o il cui potenziale lavorativo ha un valore, sul mercato, pari a zero. Sono lavoratori perfettamente fungibili. E' evidente che, in questo caso, chi richiede il loro lavoro ha il coltello dalla parte del manico e può imporre paghe bassissime. La libertà, per queste persone, sarà di accettare questo lavoro o di non svolgere nessun lavoro e morire di fame (non ci sono indennizzi o sussidi, no?). Se lavorano a una paga bassissima, però, nemmeno la massima quantità di lavoro che potranno prestare sarà in grado di garantire loro il minimo di sussistenza. Che cosa facciamo, oltretutto, se vengono licenziati? Riconosciuto il fatto che non sono in grado di fare quasi nulla, li ammazziamo direttamente? Reintroduciamo l'eutanasia? Li gassiamo? O immaginiamo una bella società in stile vittoriano, magari con il lavoro minorile o con gli scavengers che tirano su i rifiuti dal Tamigi - perché in fin dei conti anche quello è un lavoro e se accettano di farlo, vuol dire che è frutto di una loro libera scelta? Insomma, questa ipotesi in cui ci sono due parti astratte, la cui volontà avrebbe esattamente lo stesso peso, ignora i rapporti di potere che si stabiliscono tra le due parti. "Non capisco perché siamo maturati abbastanza per accettare la dissoluzione dei contratti matrimoniali ma non per quelli lavorativi" - e qui si dimentica che anche nella dissoluzione dei contratti matrimoniali è prevista, per la parte economicamente più debole, il pagamento degli assegni di mantenimento: un indennizzo assurdo, un furto?
Leggo poi, a proposito del datore di lavoro che dovrebbe licenziare senza pagare alcuna indennità: "La compagnia è sua ed è lui la fonte della ricchezza e solo lui può prendere decisioni a riguardo". La compagnia è sì la sua, è suo il rischio d'impresa - e il profitto, che io non maledico affatto, è la giusta retribuzione di questo rischio -, ma non è vero che è solo lui la fonte della ricchezza. Oltre a lui ci sono anche altri che con lui producono quella ricchezza: in primo luogo, evidentemente, chi ci lavora. Ma in secondo luogo ci sono anche fattori ambientali e di sistema. Perché un conto è impiantare, per esempio, un'azienda in mezzo al deserto, un altro conto è farlo in una situazione dove ci sono infrastrutture, dove ci sono centri di ricerca e di sviluppo, dove ci sono collegamenti: c'è una ricchezza ambientale che si riversa, per così dire, nella ricchezza prodotta dalla compagnia e che ne aumenta valore e produttività. A questo si aggiunga un altro aspetto, che un certo "superomismo" tende a dimenticare: il temperamento, il talento, le capacità, l'impegno, la tenacia, la preparazione, il merito sono elementi importanti per il successo di un individuo - e quindi anche di un imprenditore -, ma c'è anche un altro fattore difficilmente calcolabile a priori: la fortuna - o la casualità, che colpisce e favorisce dove capita. A volte può accadere che, malgrado tutte le capacità e tutto l'impegno di una persona, le cose vadano male. In questo caso non capisco perché si debba anche infierire e sottrarre qualsiasi forma di protezione (con il pretesto che sarebbero soldi "rubati", magari a chi vive di rendita) - e mica per finanziare gender studies nelle università, artisti contemporanei che defecano sul palco e la chiamano performance o film che nessuno andrà mai al cinema a vedere - e consentire che un rovescio di fortuna si trasformi in una disgrazia permanente. Se viceversa le cose vanno bene, molto bene, non vedo perché non ci debba essere una forma di gratitudine nei confronti dell'ambiente esterno che ha reso possibile il successo.
A me sembra però che, a parte il caso specifico, il difetto principale di un certo estremismo libertarian sia il dogmatismo astratto e intellettualoide, fondamento di un certo utopismo. Viene cioè affermato un principio nella sua purezza - per esempio che lo stato dovrebbe dissolversi, tutto dovrebbe essere privatizzato e che gli individui, a prescindere dai rapporti di potere esistenti tra di loro, dovrebbero essere "liberi", eventualmente anche di morire di stenti se non riescono a mantenersi da sé o grazie a qualche forma di carità volontaria, perché qualsiasi tipo di intervento pubblico è il male, per non parlare poi di ogni forma di tassazione, che è ipso facto un furto, sempre - e condannata la realtà perché a questo principio non si conforma. Ovviamente il principio, nella sua purezza, non potrà mai imporsi, perché la realtà è multiforme, ma che importa? Il principio è il principio ed è, per definizione, giusto. E' la realtà che si sbaglia. E' dunque la stessa forma mentis - pur con una sostanza opposta - del comunismo: se non funziona è perché non è stato applicato il comunismo vero. Qui è la stessa cosa: se qualcosa non funziona è perché il principio non è stato applicato integralmente, ma se lo fosse, funzionerebbe perfettamente. Peccato che non si possa applicare integralmente, a causa di quel piccolo intralcio che si chiama realtà. "Non possiamo continuare a vivere in queste condizioni usando lo stato per aggredire le persone". Possiamo invece permettere che le persone, in nome di una libertà spogliata di ogni attributo concreto e di ogni contingenza storica, si lascino aggredire docilmente da chi ha oggettivamente più potere di loro? Ecco, io credo che lo stato, invece, abbia ancora qualche funzione e qualche senso, soprattutto finché saranno gli stessi individui a volere che l'abbia. La misura e il modo in cui la funzione dello stato si esercita, il limite delle sue prerogative - anche economiche -, il tipo di limitazioni e di protezioni che garantisce ai suoi cittadini sono invece, certamente, da definire di volta in volta con gli strumenti democratici, con dei cuscinetti che impediscano ai vari soggetti e ai vari gruppi di schiacciarsi e distruggersi a vicenda. Ma l'assenza dello stato, no, non la concepisco, esattamente come non ne concepisco l'onnipotenza e questo mi fa sentire distante sia dai libertarians a destra che dai comunisti (e dai fascisti) a sinistra.