Lunedì 16, invece, sono andato a Dortmund. Sveglio di buon'ora, prendo il primo Intercity che da Colonia mi porta a una delle città più importanti della Ruhr - o del Ruhrpott, come dicono i tedeschi, il pentolone della Ruhr -, e ci arrivo dopo un'oretta e un quarto di viaggio, attraversando Duisburg e Wuppertal che, vista dal treno, ha un'aria quasi svizzera, con le case costruite sul crinale della collina, immersa in una foschia da pianura padana. Arrivato a Dortmund, mi accolgono sole e cielo limpido. Questa puntatina a Dortmund è un piccolo viaggio nella memoria: dal gennaio al luglio del 1997 ci ho abitato, dopo aver vissuto gli ultimi mesi del 1996 in una cittadina a una ventina di chilometri da Dortmund, Unna.
La stazione è stata rinnovata, almeno nella parte che accede al piazzale antistante. Esco e provo a scoprire le differenze. Non c'era una discoteca, lì di fianco? Alzo lo sguardo alla mia destra e vedo ancora la grande U del birrificio Union, che anche allora usavo sempre come punto di riferimento per non perdermi. Al di là della strada, la scalinata che porta verso il centro pedonale: sì, sì, tutto questo lo ricordo. Del resto, in quell'anno, ho transitato molto per questa stazione, su e giù per i treni che mi hanno portato a Colonia, Duesseldorf, Essen, Oberhausen, Muenster, ma anche ad Amsterdam, a Bruxelles, a Liegi, e poi persino a Berlino e, una volta, a Londra (via Duesseldorf). Allora ero solito dire che la città è brutta, ma è in una zona comoda per scappare altrove. Col senno di poi - mi dico - è stato un periodo molto intenso. Mi fermo all'ufficio del turismo, che è proprio lì davanti alla mia sinistra, e mi procuro una cartina del centro.
L'arteria principale taglia il centro da est a ovest ed è interamente pedonale: il tratto che va verso ovest si chiama Westenhellweg, quello che va verso est Ostenhellweg. E' anche la principale via commerciale ed è costellata di negozi. A camminarci in questa tranquilla mattina di lunedì mi tornano in mente tutte le volte che, anni fa, ho fatto avanti e indietro. Molti negozi sono cambiati - non c'è più la libreria Krueger, per esempio, ma in compenso ci sono le due Thalia e Mayersche, più simili a dei supermercati che vendono gadget - ed è stato aperto un nuovo, sfavillante, centro commerciale su più piani, la Thier-Galerie, dove dopo mezzogiorno mi rifugio a mangiare un cartoccio di patatine e un "bami", una specie di polpetta vegetariana, da "Fritjes van Holland". Intanto, però, proseguo dalla parte opposta, fino ad Hansaplatz, completamente deserta, e fino alla Reinoldikirche, dove entro a dare un'occhiata. Non credo di esserci mai entrato, in passato. Su entrambi i lati dell'altare ci sono ancora due alberi di Natale. Riconosco poi vagamente la Kleppingstrasse, con un'orrida fontana dedicata all'Europa, dove credo di avere portato mia madre a mangiare un enorme gelato quando venne a trovarmi con mia zia. Quello che adesso c'è e nel novantasette non c'era sono gli Starbucks, dove mi fermo a prendere un caffè e a riflettere sul tempo che passa e cancella le tracce di ciò che si è fatto e si è visto, cancellando così - oltre alla memoria - anche un po' di noi stessi. Tiro fuori il cellulare e mando un sms al numero che, nella rubrica, corrisponde a O.
O. era arrivata, come me, a Dortmund per lavorare con una borsa di studio come assistente d'italiano in una Gesamtschule. La sua era a Dortmund, la mia in quella cittadina confinante. Per un anno ci siamo frequentati e sostenuti reciprocamente. Poi, tornati in Italia, ci siamo visti qualche volta, lei al suo paesello, io prima al mio e poi a Milano, finché - vedi i casi della vita, lei sposata e con figli - ci siamo persi di vista. Le mando quindi un messaggio esitante ("Se sei O., io sono a Dortmund e ti penso" o qualcosa del genere) non sapendo chi lo riceverà. Invece il numero è ancora suo e mi risponderà qualche ora dopo. Lei ha continuato a fare l'insegnante e lo fa ancora, io ho avuto il buonsenso di capire che quella non era la mia via (senza peraltro capire quale fosse la mia via).
Ma tutto questo non è che una preparazione alla tappa conclusiva: voglio andare a vedere la casa dove abitavo allora. Esco dal centro vero e proprio, mi lascio alle spalle la grande U e infilo la Rheinische Strasse. La trovo più dimessa e rovinata di quanto me la ricordassi. Uno stradone anonimo con edifici privi di personalità. All'incrocio con la Humboldt-Strasse vedo un edificio basso e lungo, con una porta e un'insegna che recita "Come on". Riconosco quello che quindici anni fa era un locale gay - il Rote Marlene, Marlene rossa, proprio un nome azzeccato per un bar "di un certo tipo" - e che forse lo è ancora. Proseguo e svolto finalmente in Adlerstrasse. Sono convinto - e non so perché - che il numero civico dove abitavo sia il dodici. Cammino e vedo che i numeri salgono, ma non c'è traccia del dodici. All'improvviso, a un angolo, vedo la pizzeria finto-italiana (ma allora gestita da portoghesi) "Da Geanni" ed è come se mi colpisse un fulmine. Tutto mi ritorna presente alla memoria. Giro la testa e vedo gli squallidi giardinetti con i giochi per i bambini, a quest'ora vuoti, ma allora frequentati soprattutto da bambini turchi (perché la strada era, forse è, a forte densità turca). Vado avanti e mi fermo: tutt'a un tratto riconosco la casa, che è come se riemergesse dalle nebbie dei ricordi. Guardo il numero civico: è il quarantasei. Adlerstrasse 46, mi dico. Sì, proprio così. E' lei. Cambiata la porta d'ingresso, cambiato il citofono. So che la casa era in vendita già alla fine del mio soggiorno a Dortmund. Chissà chi ci è andato a stare. Leggo i nomi sul citofono, c'è ancora un campanello con quattro nomi, forse un'altra Wohngemeinschaft di studenti? Non saprei più dire a quale piano era il nostro appartamento. Sbircio sul retro per una conferma: sì, c'è ancora la Realschule serale che vedevo dalle mie finestre. Mi riprometto, per un confronto, di ripescare le fotografie che avevo scattato allora, ma ancora non l'ho fatto.
Proseguo lungo la strada, in cerca di altri puntelli per la mia memoria. Mi sento spiazzato. Mi sembra incredibile - irreale, addirittura - che io abbia vissuto lì per sei mesi. E' come se ci fosse stato un altro e io ora fossi il fantasma di me stesso (o forse è il me stesso di allora che è diventato il mio fantasma). Mi sento come se mi si staccasse di dosso qualcosa: tutti gli anni passati da allora. Sono quindici quest'anno. Che cosa è rimasto? Solo questa distanza tra me e me? Mentre cammino, mi guardo attorno - dov'è il negozio turco dove facevamo la spesa? - e la strada, semideserta a quell'ora, mi sembra squallida e poco accogliente. Ancora mi dico: possibile che ci abbia abitato? Possibile che io abbia resistito? Oggi non so se riuscirei a stare in un posto così, ma allora... Torno indietro e mi fermo all'angolo, cercando di abbracciare tutto con lo sguardo e assorbire ancora per un po' quanti più dettagli possibile. Avverto la commozione che mi monta dentro, le lacrime che fanno capolino agli angoli degli occhi. Sono commosso per quel me stesso che non c'è più, per il tempo che irrimediabilmente e irrevocabilmente passa e mi dà la misura della mia mortalità, forse perché ho paura di quel che ho visto - e non intendo solo con gli occhi - e perché so che anche quell'istante si cancellerà di lì a poco. Sono quasi pietrificato, ma mi rendo conto di non poter restare lì impalato ancora più a lungo.
Allora ritorno alla stazione e prendo il primo treno per Colonia. Un regionale, stavolta, che segue un percorso diverso: Bochum, Muelheim, Duesseldorf, Leverkusen. Scendo alla stazione centrale e mi dirigo verso il Friesenviertel: Colonia mi sembra una città meravigliosa e mi sorride.
Tornando a Londra dopo molti anni, ho sentito come te il bisogno di rivedere le case (case per modo di dire, poiché all’epoca si trattava letteralmente di topaie) nelle quali avevo abitato. È stata un’esperienza relativamente indolore perché con me c’era la mia metà, che di quel pezzo della mia vita non ha fatto parte. Illustravo i luoghi a M. così come farebbe una guida turistica e, in questo modo, cioè interpretando un ruolo e utilizzando M. come filtro tra me e il mio passato, me la sono cavata con un vago malessere, un non meglio definito imbarazzo nei confronti del tempo andato. Tutto qui?, mi sono detta, registrando che gli edifici erano ancora tutti perfettamente al loro posto, che la vita aveva fatto il suo corso anche senza di me e, soprattutto, incassando la delusione per il fatto che nessuna pietra, nessun gradino, nessuna porta mostrava di aver conservato qualche memoria di colei che fui.
Ci fossi andata da sola sarei finita nel tuo stesso vortice di emozioni.
Credo che questo genere di confronti sia importante perché ci costringe automaticamente a fare una valutazione del presente. E, secondo me, non provare nostalgia (“Ancora mi dico: possibile che ci abbia abitato? Possibile che io abbia resistito? Oggi non so se riuscirei a stare in un posto così, ma allora...”) non è certo un brutto segno. Anzi, l’assenza di concreti rimpianti parrebbe proprio essere l’indicatore di un bilancio di segno - tutto sommato - positivo.
Posted by: fuchsia | 21/01/2012 at 21:55
Hai fatto il Comenius? :-) Non ti avrei immaginato insegnante! Ti piacque? Probabilmente no, sennò avresti continuato. O forse sei solo acuto e sapevi già che la scuola è un vicolo cieco....
Posted by: ls | 21/01/2012 at 23:05
mi è piaiuto molto questo tuo post...
primo o poi dovrò andare di nuovo a Burgos, dove non ho mai più messo piede dal 1998, sebbene negli ultimi anni abbia visitato la Spagna almeno una volta all'anno
chi sa che proverò?
Posted by: aelred | 21/01/2012 at 23:11
'un "bami", una specie di polpetta vegetariana, da "Fritjes van Holland".'
In Olanda il 'bami' è una specie di pasta indonesiana: tu a cosa ti riferisci?
Posted by: Shylock | 22/01/2012 at 09:12
@ lisa: boh, si chiamava Comenius? Non ricordo, comunque è quell'anno all'estero per studenti di lingue quando vanno a fare gli assistenti della propria lingua...
@ aelred... eh, dipende se sei andato a burgos o no. Io, per dire, a Berlino ci sono sempre tornato, dopo i 6 mesi nel '94-'95 e quindi la città si è evoluta con me, non ho vissuto questo stacco di 15 anni
@ fuchsia: sì, forse hai ragione tu... meglio essere un filo ottimisti :)
@ shylock: c'erano delle fettuccine con delle verdure, tutto quanto impolpettato. si sa, del resto, che molta cucina olandese è di origine indonesiana. insomma, poi questo mica è un blog di cucina, non accanirti sui dettagli accessori :D
Posted by: Stefano | 22/01/2012 at 16:54
commento combinato ai due ultimi post:
Spero che non ti assumano mai all´ufficio promozione turistica di Dortmund altrimenti vanni falliti molto velocemente. Ma forse non c'e' poi veramente molto da vedere.
Sul fatto che le citta' tedesche siano tutte molto simili hai molta ragione: ormai pero' se quando vado in un citta nuova non trovo il Markt con il Rathaus neogotico, il teatro neoclassico, un duomo (neo)gotico mi sento senza punti di riferimento....
Posted by: Simone | 23/01/2012 at 11:50
Ma no, il Comenius è il programma di scambio europeo per docenti. Tu eri nel programma di assistenti di lingua all'estero a cura del Ministero degli Affari Esteri italiano.
Posted by: avi | 25/01/2012 at 13:07
Articolo molto interessante, grazie. Paolo Boscolo.
Posted by: paolo boscolo | 25/01/2012 at 14:22
Avi, non è proprio vero, il Comenius che intendevo è quello per futuri docenti, pensavo Stefano avesse partecipato a quel programma perché mi pareva di aver letto che fosse già laureato, ma evidentemente mi sono verlesen. Conosco bene il programma di assistentato cui fai cenno perché l'ho fatto anche io nel 1997-98, in Austria.
Posted by: ls | 29/01/2012 at 14:15
Infatti ero già laureato, ma la richiesta e le selezioni le avevo fatte l'anno prima, quando ancora non mi ero laureato ed ero ancora studente. Da qui, credo, il tuo equivoco.
Posted by: Stefano | 29/01/2012 at 14:46
Immaginavo! :)
Posted by: ls | 29/01/2012 at 17:13