Alla fine degli anni ottanta Carlo Coccioli era uno scrittore dimenticato, poi arrivò Pier Vittorio Tondelli a riesumarlo e a intervistarlo - e sia l’articolo a lui dedicato che l’intervista sono contenuti in Un weekend postmoderno. Da allora si tornò a parlare di Carlo Coccioli. Io ne scoprii l’esistenza qualche anno fa leggendo il saggio di Francesco Gnerre sulla letteratura gay italiana L’eroe negato. Qui Gnerre si dilunga soprattutto su Fabrizio Lupo, il romanzo di Carlo Coccioli che ha per protagonista un giovane pittore cattolico e omosessuale. Quelle pagine, però, non m’incuriosirono abbastanza dallo spingermi a cercare quel romanzo ormai fuori catalogo. Oggi Fabrizio Lupo è ancora fuori catalogo, ma - seguendo chissà quali percorsi mentali - l’ho preso in prestito dalla biblioteca e me lo sono letto. Fabrizio Lupo uscì nel 1952 in francese e creò un certo scandalo: qualcuno temeva un effetto Werther sui lettori. L’edizione italiana, tradotta dallo stesso Coccioli, fu pubblicata da Rusconi soltanto nel 1978 - ed è questa che ho letto. Potrei dire, lapidariamente, che Coccioli è il più sopravvalutato degli scrittori sottovalutati - sopravvalutato, oltretutto, da un altro scrittore a sua volta ampiamente sopravvalutato, Tondelli - e che se era finito nel dimenticatoio una ragione doveva pur esserci e lì avrebbe meritato di restarci. Il suo interesse, oggi, è di tipo esclusivamente documentario, perché dal punto di vista letterario mi pare davvero poca cosa (e non è nemmeno un’amena lettura, nel caso in cui qualcuno se lo chiedesse).
All’inizio del romanzo Carlo Coccioli immagina di essere contattato da un giovane pittore, Fabrizio Lupo, che dopo aver letto i suoi precedenti romanzi sa che potrà raccontare anche la sua storia. Gli scrive e Coccioli lo riceve. Fabrizio Lupo si confida: non gli chiede “comprensione”, bensì di rendere “testimonianza”. Che cosa lo tormenta? Il fatto di essere omosessuale e cattolico, il fatto di credere nell’amore, qualunque forma esso assuma, anche quando la chiesa condanna l’amore tra due uomini. Quando Fabrizio chiede all’autore se avrà il coraggio di scrivere un libro su di lui, ben sapendo che in questo modo lui, scrittore d’ispirazione cristiana, potrebbe vedersi alienate le simpatie del mondo cattolico, Coccioli risponde: “La Chiesa non può rinnegare l’uomo. Tu sei un uomo. La Chiesa non può rinnegare l’amore: è stato proclamato che dove è l’amore è Cristo”.
L’amore - anzi, l’Amore, quello con la A maiuscola - si presenta a Fabrizio Lupo durante un viaggio a Parigi, per una mostra. In una galleria gli appare, come un’epifania, il giovane Laurent. E’ amore istantaneo - e, ovviamente, profondissimo e vero. Ci ironizzo sopra, perché questa concezione dell’amore che scocca e colpisce come un fulmine, precedendo qualsiasi conoscenza reciproca della realtà di entrambe le persone, sembra veramente da romanzetto d’appendice. E, altrettanto ovviamente, Laurent è a sua volta giovane e bellissimo (perché, se fosse stato meno giovane e più brutto, forse la scintilla non si sarebbe nemmeno accesa). Da quel momento comincia un lungo tira-e-molla, fatto di sofferenze, sospiri e rinvii. Fabrizio infatti torna nella natia Firenze e, su sollecitazione di Laurent, deve aspettare una quarantina di giorni prima di poterlo rivedere, quando lui verrà in Italia a trovarlo. Nel frattempo gli scrive parecchie lettere (un po’ in italiano e un po’ in francese).
Durante l’ultimo incontro con Coccioli, Fabrizio gli affida il suo “romanzo”, che ha scritto di getto dopo aver visto un Ragazzo - con la R maiuscola, come lo chiama nelle sue pagine -, e lo prega di leggerlo. E, guarda un po’, questo “romanzo” costituisce la parte centrale del libro di Carlo Coccioli. Sono più di trecento pagine di puro delirio (e si consideri che, in totale, Fabrizio Lupo comprende circa quattrocentottanta pagine). Non esiste una trama, non esistono personaggi veri e propri, ma solo - a quanto si intuisce - figure che simboleggiano qualcosa, per lo più forze che cercano d’impossessarsi del Ragazzo e della sua purezza oppure di ostacolare il suo amore. Nomi e personaggi appaiono dal nulla e scompaiono dal nulla: del resto non è richiesta verosimiglianza o plausibilità. Tutto ha un’aria misterica e allude a un qualche contenuto sapienziale. A questo racconto si alternano notazioni più o meno diaristiche su quello che Fabrizio Lupo patisce per amore di Laurent, sia durante il soggiorno francese che durante il soggiorno di Laurent in Italia.
Nella terza parte, conclusiva, Carlo Coccioli si riannoda alla prima parte e, dopo aver letto il “romanzo” di Fabrizio, ne legge ora le ultime lettere dirette a Laurent e le ultime pagine di diario che gli sono state fatte avere. Perché Fabrizio si è ucciso, non potendo più sopportare la dissonanza tra la sua omosessualità e la sua fede religiosa (“Dio c’è, ma ci sono anch’io: il mostro”) e, soprattutto, non potendo sopportare l’idea che gli omosessuali siano destinati a essere degli Ulissi, condannati a vagare (da un uomo all’altro) e “la nostra Itaca è un pisciatoio”. Ciò che tormenta Fabrizio, infatti, è la mancanza di ordine che continuamente minaccia i rapporti omosessuali, con il disordine sempre pronto a irrompervi dentro e a distruggerli (simboleggiato, in questo caso, dall’amico Andrea Munari, che tenta di sedurre Laurent per dimostrare proprio l’impossibilità dell’Amore tra due uomini). Ma non è soltanto Fabrizio ad ammazzarsi: anche Laurent si suicida, buttandosi sotto un autobus, a Parigi, davanti agli occhi di Fabrizio, prima che questo ritorni in Italia e si uccida a sua volta con un’overdose di barbiturici. Detto en passant, le ultime pagine, in cui esplode la “crisi” tra Laurent (che urla: “Voglio avere una ragazza, voglio sposarmi, voglio avere dei figlioli!”) e Fabrizio (che lo aggredisce: “Siamo tutti delle puttane! ecco cosa si fa con le puttane! si buttano fuori!”), con i loro ti amo, ma non posso più stare con te. Vattene, no, anzi resta, non posso stare senza di te ecc. ecc. e il loro sbranarsi a vicenda, ha tutto il sapore di un melodramma, ormai stravisto e strasentito, tra due checche isteriche. Il suicidio dei protagonisti è sì una liberazione, ma per il lettore che - più tormentato di loro - tira finalmente un sospiro di sollievo.
A irritare non è tanto la tematica religiosa e il tormento del cristiano che cerca di conciliare fede e omosessualità, magari facendo intellettualmente i tripli salti mortali (“Dio non è loro proprietà esclusiva. Dio è anche mio. Non è colpa di nessuno, salvo di un mistero di Dio, se, guardando Laurent, io mi sento in pace con Dio e sento che il suo tempo è venuto”), ma lo stile gonfio, ampolloso, turgido e retoricamente estetizzante che contraddistingue il romanzo. A condannarlo - soprattutto nella sua parte centrale, dove l’enfasi è massima, in particolare in quelle pagine, non tradotte dal francese, intitolate “Cantata per qualcuno” - non è il contenuto (che è perfettamente lecito, poiché non voglio certamente negare a nessuno il diritto di avere una sua poetica), bensì proprio la forma e la scrittura. Gonfia, ridondante, compiaciuta e innamorata di se stessa. Coccioli dice con cento frasi quello che potrebbe dire con una frase sola. Può piacere giusto ai cattolici che amano l’automacerazione o a certi cattolici di ritorno, come Pier Vittorio Tondelli per l’appunto. Oltre a un tono spesso ieratico, Coccioli ha il gusto barocco del fraseggio prolisso. Qualche esempio a caso: “Di fosco orrore le insegne sovrastanti i caschi metallici, uccelli dal becco orgoglioso, ornate da cenci multicolori, vetusti, o da piccole mani scaturenti dal metallo, dita contratte ad artiglio” o, ancora, parlando di Fabrizio e di Laurent: “Persi entrambi nei labirinti dell’anima, gementi in fondo al pozzo della nostra desolatissima avventura”. In generale, poi, il libro è caratterizzato da un’aggettivazione pesante e da una serie continua di tic verbali (come, per esempio, il verbo “soverchiare”) o di fastidiosi toscanismi. Praticamente impossibile, infine, trovare la benché minima traccia di ironia.
Si salva qualcosa? Sì, qui e là ci sono pagine interessanti - e anche preveggenti. Mi riferisco all’analisi della psicologia degli omosessuali e di come nasce e si sviluppa l’omofobia interiorizzata - un discorso, questo, abbastanza nuovo se inserito nel contesto storico dei primi anni cinquanta: essere omosessuali è come essere l’unica realtà bionda in un paese di bruni: “parlale ininterrottamente della sua inferiorità, della colpa di essere biondi; assicurale che è marcata da Dio, aliena alla salvezza; convertila in un ritratto della vergogna...: non ti meraviglierai, dopo, se essa avrà l’anima alterata; se agisce come se fosse identica al suo ritratto di vergogna; se si disprezza quasi più di quanto non la disprezzino gli altri”. Oppure quando immagina che nel futuro - nel 1953 - nasca un uomo, tale Antoine La Fourmi, che invece di vergognarsi comincia a rivendicare la normalità di essere omosessuale, fino a essere insignito del titolo di “baronetto” dal re d’Inghilterra. Qui Coccioli usa l’immagine della “coda”: gli omosessuali sono i “caudati”, perennemente disprezzati dai “non caudati”. In un certo senso è preconizzato quello che sarà il movimento gay. Oppure quando Fabrizio Lupo ha una “Visione”: lui e Laurent scelgono una donna - “Preferirei una contadina, magari un’orfana alla quale mi aprirei con una franchezza totale” - e l’uno dopo l’altro, “senza soluzione di continuità”, la prendono: “Il figlio che ci desse il ventre suo non potrebbe che essere nostro: di entrambi”. Qui, ormai, sembra di sentire le rivendicazioni alla genitorialità di molte coppie omosessuali dei giorni nostri.
Basta questo a salvarlo? No, direi proprio di no. Come dicevo, Fabrizio Lupo ha valore di testimonianza e di documento: è innanzitutto figlio della sua epoca, anche se nomina senza girarci attorno e senza sotterfugi l’omosessualità, e se tenta di distaccarsene parlando non solo di sesso tra uomini - perché le avventure di sesso e basta ci sono, in questo libro, seppur accompagnate dalle dovute macerazioni - ma anche di “amore” (per quanto idealisticamente concepito), vi ripiomba dentro con l’obbligato duplice suicidio finale. E’, infine, soprattutto la testimonianza dei danni che il cattolicesimo ha causato al sistema nervoso di molte persone - omosessuali, ma verrebbe da dire “sessuali” tout court.
Lo lessi circa 25 anni fa (facendo una fatica incredibile a trovarlo, ne avevano parlato bene su Babilonia): non ricordo assolutamente nulla se non che mi fece venire una tremenda orchite bilaterale e la consapevolezza che non avrei letto più niente di Coccioli.
Posted by: Claudio | 09/01/2012 at 11:17
...come mi spiace non riuscire ad "argomentare" tutto il mio amore per Carlo Coccioli, inizio' con la fascinazione per Fabrizio Lupo ma e' proseguita fino alla morte.
L'analisi di Stefano e' implacabile e non ci provo neanche, eppure...
Ciao
Posted by: Vito | 09/01/2012 at 22:30