E' stato un parto lungo e travagliato, ma il nove gennaio, dopo numerosi annunci e altrettanti rinvii, è uscito il nuovo album di Amanda Lear, I Don't Like Disco, in cd per la Francia e scaricabile in formato digitale per il resto del mondo. Con i suoi trentadue minuti scarsi di durata e dieci pezzi in tutto sembra di essere tornati ai bei tempi del vinile. Ora non so quanto si possa prendere sul serio Amanda Lear come cantante, anche se un paio di anni fa persino lei è riuscita a sfornare un disco, Brief Encounters, che lasciava intravedere quello che sarebbe potuta diventare se non avesse sparpagliato i suoi già scarsi talenti musicali in mille altri rivoli. Ma Brief Encounters è stato un unicum, perché ora ritorna, prodotta ancora da Alain Mendiburu, che la segue da una decina d'anni a questa parte. Il titolo dell'album è involontariamente comico: "I Don't Like Disco", per dieci pezzi che sono l'epitome della musica da discoteca, è una excusatio non petita, come se, alla moglie che trova il marito a letto con un altro uomo, lui replicasse: "Ma io non sono omosessuale". Nelle note che accompagnano il libretto, poi, Amanda spiega per l'ennesima volta che trentacinque anni fa ha cominciato a fare discomusic quasi per caso, istigata dalla sua casa discografica tedesca, ma che mai e poi mai avrebbe immaginato che ne avrebbe dovuti fare sette o otto di fila (e la signora mente sapendo di mentire, perché Diamonds for Breakfast e Incognito, gli ultimi due prodotti da Anthony Monn - che della Lear cantante è stato il vero demiurgo -, già non erano più pura discomusic). Questa volta - dice - ha voluto fare una cosa "a little bit loud and rock 'n' roll".
Fatte queste doverose premesse, che cosa resta da dire su I Don't Like Disco? Da un punto di vista tecnico, gli arrangiamenti e la produzione sono piuttosto professionali: non c'è quel senso di abborracciato a cui la Lear ci aveva abituati nei momenti più bassi della sua carriera. Però ci sono altri problemi. Innanzitutto la sua voce. Ora Amanda Lear non è mai stata una gran cantante. A dire il vero non è mai stata nemmeno particolarmente intonata, ma aveva (ha) questa voce particolare che funziona bene se accetta il ruolo di diseuse più che di cantante (per non parlare poi dei disastri che combina quando vuole assumere un tono "confidenziale", come avviene anche qui in un passaggio di What a Surprise, dove suona come una gallina arrochita in procinto di essere strangolata). Un ruolo che Anthony Monn le aveva cucito addosso con grande abilità e che Enrico Petrelli le aveva fatto riscoprire in Brief Encounters. Quando invece sono i francesi a produrla, la voce finisce in cantina, sovrastata da un'abbondanza di arrangiamenti. E' quello che avviene anche in questo I Don't Like Disco.
Ma le canzoni, come sono le canzoni? Be', a un primo ascolto molte sono difficilmente distinguibili l'una dall'altra. C'è persino un "autoplagio", nel senso che l'attacco di Windsor's Dance è pericolosamente simile a Chinese Walk, ma poco importa, dato che l'autore è lo stesso, Marin (du Halgouet), che ha composto il grosso delle musiche dell'album. Ci sono pezzi involontariamente comici, come - per l'appunto - Windsor's Dance, in cui Amanda rievoca la sua adolescenza e giovinezza in Inghilterra ("Wide and green the British land / Wide and free my early youth / Wide and free I ran away / Lips on lips I kissed the boys"), e aggiunge una dichiarazione d'amore a questo paese ("I love England, I love England"): dev'essere un'opera di fantasia, perché si stenta a credere che una con quell'accento lì quando parla inglese sia davvero cresciuta in Inghilterra. La cosa più debole mi pare You're Mad, che suona un po' come un pezzo di dance romena di dieci anni fa. Personalmente ho un debole per Super Hero e mi fa sganasciare Icon, il brano più melodico che ricama ancora sul "mistero Amanda" ("In the beginning I was confused /... I didn’t know which way to choose / Then my answer came from above / The gods created a woman to love / I was fashioned for love and desire"), scritta in collaborazione con due inglesi che - ho scoperto - formano un gruppo chiamato The Cool Connection.
L'album contiene poi anche i pezzi con cui, nei mesi scorsi, è stata creata l'attesa tra i fans della Lear (dei poveri disperati, tra cui mi annovererei anch'io, se non fosse che io ho ben presente i limiti dell' "icona" e non vado in deliquio quando la sento, ma mi piace anche perché mi piace sfotterla un po'). A parte il brano programmatico I Don't Like Disco ("I like a song with contradiction / Today the facts, tomorrow fiction / But you're a song without surprise / With a vacant look in your eyes"), la citazionista Chinese Walk - il cui "gong" iniziale riecheggia quello dell'ormai classica Queen of Chinatown - e, soprattutto, La bete et la belle. Quest'ultima è indubbiamente il brano migliore di tutto l'album: scritta insieme a Louise Prey (della band electropunk femminile Ping Pong Bitches) e a Joe Moskow (della band indiepop di Sheffield Reverend and the Makers: non che io li conoscessi prima, ma mi sono documentato), funziona di per sé, anche se è cantata da Amanda Lear, con gli sbaffi e i suoni distorti delle chitarre elettriche.
Insomma, ogni volta penso: "Questo sarà l'ultimo album della Lear". Ormai è troppo vecchia - mi dico -, non ne farà altri. E invece ogni volta mi frega. Dubito che con questo I Don't Like Disco si conquisterà nuovi fan (ormai, per la Lear "cantante", noi siamo ammiratori residuali, sorta di dinosauri sopravvissuti da un'era antecedente), ma è come per certi vizi: una volta che li hai, fatichi a liberartene.
Non posso trattenermi dal leggere (e ammirare) questa analisi precisa, quasi tecnica e anale del cd. Gli arrangiamenti sono buoni, se non fosse stato un disco di Amanda sarebbe quasi stato un disco. Le melodie sono le stesse "rigirate e rivoltate" come dei pedalini neri (come direbbe mia nonna) ma nessuno se ne accorgerà mai. Anche gli intro sono spesso gli stessi. Si riconosce ad Amanda il talento di stare in piedi anche da morta, e di sorprenderci ogni volta con una cosa nuova, bella o brutta che sia. Una novità per chi la segue da sempre, per chi la dovesse scoprire ora. Una delusione per chi ha cercato di farla cantare davvero senza ridicolizzarne la voce, anche se la 'Drag Assassina' che è in lei ha dato il meglio che poteva in studio, e il peggio subito dopo mancando ogni promozione per "impegni Diversi". Diversi, per quanto riguarda la Lear, mi sembra il termine piu' adatto.
Posted by: me | 13/01/2012 at 17:56
L'analisi è indubbiamente approfondita, ma mi pare un pò, come dire, impietosa. Personalmente seguo Amanda ininterrottamente dalla stupenda "Fashion Pack" ("recuperando" rapidamente i 2/3 anni precedenti!)e, sebbene riconosca i suoi limiti vocali e abbia storto il naso di fronte ad alcuni suoi lavori, continuo a ritenerla una spanna sopra tante, tante altre che si sono succedute in queste decadi...Tante che poi, a conti fatti, venderanno anche tanti dischi.....ma non credo si portino dietro il background di Amanda, unica e, permettetemi!, ineguagliabile.
Posted by: Paolo | 14/01/2012 at 22:33
Concordo con Paolo, la recensione di Stefano è troppo severa, anche se approfondita. Nel commento di 'me' mi pare invece di percepire un certo astio, oltre alle legittime critiche, o no? Credo che l'album sia più che gradevole, ben al di sopra di tutta la produzione post-Anthony Monn (Brief Encounters incluso). Non penso si possa discutere ancora sulla sua voce, è chiaro a chiunque la segua da tempo che ha dei limiti, ma è sicuramente fra le cose che chi compra i suoi dischi apprezza di più. A proposito di questo aspetto, mi sembra che il suo pubblico sia più vasto di quanto si crede, lo dimostra il fatto che la produzione più recente è stata in classifica in vari Paesi (Brief Encounters è esaurito, l'EP di remix di Chinese Walk comincia a essere introvabile), e che di I don't like disco è stato fatto un remix da Almighty Records (etichetta importante nel mondo della dance UK). 'You're mad' poi ha un suono molto contemporaneo, definirlo un pezzo di dance rumena di dieci anni fa significa non avere molta dimestichezza con i dancefloors... Anche a me piace in particolare 'Super hero', ma in realtà trovo tutte le canzoni dell'album ben fatte e piacevoli da ascoltare e ballare.
Posted by: another me (alter ego) | 18/01/2012 at 12:22
Ciao, ma si conoscono gli autori di ciascun brano?
Posted by: SuperPop | 19/01/2012 at 17:12
@ another me: confesso di non avere dimestichezza con le dancefloors di oggi, mea culpa. Era solo un'impressione. Non concordo sul fatto che sia superiore a BE: musicalmente quell'album era più curato. Qui, certo, gli arrangiamenti e la produzione è buona, ma non hanno saputo sfruttare bene la voce della Lear (proprio nelle sue pecularità).
@ SuperPop: sì, non hanno preferito mantenere l'anonimato :)
Posted by: Stefano | 19/01/2012 at 17:29
è sempre un evento piacevole, un nuovo disco di Amanda, specie quando sono come gli ultimi due, e chissà che anche voi, come me, a casa,seduti sul divano,stereo al massimo, con la copertina in mano, il nove gennaio, vi siete emozionati nel ascoltarla... io lo faccio da Blood and Honey... ed è sempre un bel momento
Posted by: domenico | 29/01/2012 at 23:03
Quando riascolto "Enigma (give A Bit Of Mmh To Me)" torno ad un passato che, per me, rimane comunque testimonianza di un'epoca di grandi trasformazioni, di innovazioni, di vera unica trasgressione....Per Amanda, per D.Bowie, per quegli artisti che hanno segnato un'epoca e che hanno insegnato molto a quanti sono venuti dopo.....Che hanno avuto grande successo anche perchè sono arrivati in un momento storico nuovo, con Internet e la conseguente migliore diffusione a livello globale. Io penso che Amanda Lear sia stata, sia, e sarà ancora sicuramente una artista a tutto tondo, spesso non capita ed amata nella sua interezza.Purtroppo.
Posted by: Alessia | 31/01/2012 at 16:49