Quando non c'è più l'amore, quando non c'è più il sesso - che dopotutto era l'unica forma visibile assunta da ciò che si spacciava per amore - e quando non è più possibile giocare il gioco della seduzione per far credere alle proprie vittime che gli si vuol dare amore mentre in realtà è soltanto il loro corpo che si vuole usare, quando insomma, per tagliare corto, si è troppo vecchi e decrepiti per nutrire ancora l'illusione di essere desiderabili, allora restano i ricordi (anche se ti squarciano come una ferita) e le parole (gli sproloqui, spesso) che li rivestono. Parole che rivelano il vuoto metafisico sottostante, la disperazione e la morte imminente. A questo mi veniva da pensare, ieri sera, assistendo alla messinscena di Quartett del tedesco Heiner Müller allo spazio Areapergolesi, con la regia di Luca Spadaro e Massimiliano Zampetti.
La pièce teatrale di Müller, che risale al 1981, riprende i due protagonisti - partners in crime, in un certo qual modo - delle Relazioni pericolose di Choderlos de Laclos: la marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont, impersonati rispettivamente da Federica Bognetti e Andrea Tibaldi. Qui i due sono ormai vecchissimi e le loro imprese erotiche sono solo un ricordo del passato: lei è paralizzata a letto, minata forse dalla tisi che la fa tossire e sputare sangue, mentre lui si trascina stancamente e fatica a reggersi in piedi. Intrappolati in una stanza chiusa a chiave da cui non possono fuggire e che nell'allestimento di ieri è arredata con poche cose - una specie di catafalco su cui si dimena la Merteuil, come una bambola disarticolata, sedie spaiate, un tavolino -, non possono fare altro che rievocare i tempi andati. Tuttavia il loro non è il placido rimemorare la felicità trascorsa, che dovrebbe conferire ai loro ultimi giorni di vita una certa serenità. No, è un feroce dibattersi, dilaniato dalla consapevolezza che, mancando le forze e la giovinezza di allora, solo le parole, sempre più convulse, possono supplire - e neanche poi tanto - all'eccitazione erotica che non trova più sbocchi nella realtà. La marchesa e il visconte sono (stati) sì complici, ma ora diventano, allo stesso tempo, anche avversari e nemici: tigri - come dice uno di loro - che si graffiano, s'insultano, si feriscono. Abbattuti dalla loro stessa impotenza, si scatenano l'uno contro l'altra, in una festa di crudeltà a malapena trattenuta.
A un certo punto si scambiano anche i ruoli e, in una sorta di recita improntata al grottesco, riproducono i seducenti dialoghi amorosi con cui, più giovani, avevano convinto le loro vittime a cadere tra le loro braccia. E qui i due attori sono bravi a far divorziare il senso di ciò che dicono dalla forma in cui lo esprimono: le parole sono, per l'appunto, solo fonemi che, letteralmente cacciati fuori dalla bocca, non trasmettono più il loro significato originario, suoni vacui che sottintendono la profonda repulsione dei due nei confronti della vita, dell'amore, dell'umanità altrui. La marchesa e il visconte trasformano sé stessi in caricature volontarie, esagerando, con una serie di mossette e smorfie, tutta la gestualità degli innamorati, quasi a manifestare un duplice disprezzo: per gli atti e le parole dell'amore, e per loro stessi. Come se, in quegli ultimi attimi di vita, fossero sopraffatti dal disgusto di sé, da una finzione che è andata avanti fin troppo a lungo.
Premetto che non conoscevo il testo di Heiner Müller, ma mi ha particolarmente colpito, nella recita "gioco delle parti", il dialogo intessuto di riferimenti religiosi. Sarebbe stato fin troppo semplice incorporare l'osceno e nominarlo direttamente, ma Müller ha operato una scelta più sottile: ha reso osceno il discorso religioso, usando simboli e metafore tradizionalmente tratti dalla religione per nominare gli atti sessuali che i due personaggi stanno per compiere con gli oggetti della loro seduzione. E, è il caso di dire, l'effetto è estremamente lubrico, lascivo, ben oltre i limiti dell'indecenza: un tripudio di trattenuta sguaiataggine. Mi sono anche chiesto se questa tecnica abbia un impatto maggiore su degli spettatori cresciuti in un ambiente cattolico rispetto a quelli di un ambiente protestante (e, addirittura, ampiamente agnostico come quello della DDR d'inizio anni ottanta): una domanda che, però, resta senza risposta. Certamente su di me ha avuto un effetto che mescolava un senso quasi di scandalo a uno di lieve euforia (perché un conto è fare una battuta, ma diverso è costruire tutto un dialogo con questa tecnica e recitarlo ad alta voce su un palcoscenico).
La rappresentazione di ieri sera è stata accompagnata dalla proiezione di quadri della giovane artista ungherese Zsofia Vari: una serie di dipinti, debitori della tradizione espressionistica, che ben si adattavano a commentare visivamente l'atmosfera da fine del mondo della pièce di Heiner Müller. Peccato soltanto che l'ultima replica sia oggi: c'è da augurarsi che Quartett venga ripreso in futuro, magari anche in uno spazio teatrale meno "off".