L'horror è un genere delicato e anche qualcuno moderatamente appassionato come me deve sorbirsi una quantità immane di fallimenti prima di trovare un film che lo soddisfi un po'. Per quanto mi riguarda - e non so se lo stesso valga per tutti quelli che, come me, amano guardarsi un horror di tanto in tanto - cerco soprattutto qualcosa che susciti paura e spavento. Emozioni forti che non voglio provare abitualmente nella vita di tutti i giorni o che, quantomeno, cerco di tenere a bada. Allora è meglio provarle tramite un'opera fittizia, con una specie di esorcismo. Che cosa, però, suscita paura? Dev'essere qualcosa che colpisce qualche timore profondamente riposto dentro di noi e che spesso ha a che fare con la nostra storia e le nostre esperienze personali. Io, per esempio, preferisco chi sa costruire un'atmosfera (soprattutto se credibile) e caricarla del senso d'attesa di un grave pericolo imminente. Preferisco l'allusione alle visioni truculente, se queste non sono funzionali alla suspense o se non sono, in qualche modo, credibili. L'eccesso di evidenza - sangue, sbudellamenti e via discorrendo - non mi fa paura. A dire il vero non mi fa neanche schifo. Se il film si regge soprattutto su quello, per me diventa noioso, soprattutto quando il grand guignol non rispetta uno standard minimo di realismo.
E veniamo quindi al caso dell'ultimo film del genere che ho visto. Seguendo un consiglio che mi aveva dato lui (anche se credo che poi il film non gli sia nemmeno piaciuto) ho visto una pellicola francese del 2007, A l'intérieur. In breve è la storia di una giovane donna, agli ultimi giorni di gravidanza, che poco prima di Natale si rinchiude da sola in una casa isolata. Durante la notte s'intrufola un'estranea che comincia a perseguitarla e a ferirla, a colpi di coltello, forbici, spilloni da maglia. Come se non bastasse, la donna riesce a eliminare anche tutti quelli che cercano di aiutare la ragazza, compresi i poliziotti che, allertati da una sua precedente telefonata, si presentano sul luogo, armati di tutto punto. La donna, naturalmente, non sbuca dal nulla, ma si vuole vendicare perché qualche mese prima ha perso il figlio di cui era incinta durante un incidente automobilistico provocato dalla protagonista e dal marito (morto a sua volta in quello scontro).
Le violenze e le efferatezze compiute dall'intrusa sono rappresentate e mostrate con dovizia di particolari e in maniera molto grafica. Il sangue scorre a fiumi e gli effetti speciali sono molto curati - non è l'improbabile rosso minio del sangue di certi vecchi film di Dario Argento -, ma è tutto l'insieme a non reggere. Perché è vero che tutti gli horror, specie se puntano sugli elementi più truculenti o se hanno a che fare con il soprannaturale, richiedono una sospensione dell'incredulità da parte dello spettatore, ma perché questa sospensione si realizzi occorre che la somma delle parti abbia almeno la parvenza della credibilità. Anche se questo avviene solo grazie alla loro coesione o al fatto di creare un universo che, per la durata del film, riesce a irretire lo spettatore. Se invece lo spettatore continua a notare l'implausibilità dei dettagli, vuol dire che il regista non è riuscito a creare l'effetto complessivo che dovrebbe generare spavento (o paura, o terrore). Ed è questo il caso di A l'intérieur: siccome qui l'insieme non "sta insieme" - e mi si passi il gioco di parole - anche la carneficina dei singoli dettagli, con la loro meccanicità sanguinolenta e feroce, diventa risibile e colpisce solo per la sua improbabilità e la sua mancanza di realismo. Invece di provare orrore (o magari soltanto schifo), lo spettatore finisce per fare la lista, nella sua testa, di tutto ciò che nella realtà non potrebbe accadere mai: poliziotti incapaci che si fanno fregare (e ammazzare) da una donna armata di uno spillone, una ferita alla giugulare che non provoca la morte ma che viene "riparata" con del nastro da pacchi, colpi assestati con violenza al ventre della donna incinta - con conseguente perdite di sangue - senza che però il nascituro muoia, e via discorrendo. Si finisce per scrollare la testa e dirsi che sono solo assurdità: la finzione resta finta e non provoca alcun moto dell'animo, nemmeno quelli che dovrebbe provocare un film dell'orrore .
E infatti, di questo film si salva - oltre alla perizia tecnica con cui gli effetti sono realizzati - solo la parte iniziale, quella che precede il grand guignol, che è ancora carica di attesa ed è girata con una fotografia abbastanza livida: tutto potrebbe ancora accadere e l'orrore è già presente in potenza, non ancora trasformato nella pornografia del sangue che seguirà poco dopo. Così come una delle scene più efficaci è proprio quella in cui la violenza non è rappresentata in maniera così grafica, ma è breve e secca: quando l'intrusa prende il gatto della ragazza e, dopo averlo accarezzato qualche istante, gli spezza il collo e lo getta lontano da sé.
Guardando A l'intérieur ho ripensato a un'osservazione che Stephen King fa nel suo saggio dedicato al genere horror (cinematografico e letterario), Danse Macabre. King sostiene che ogni prodotto di questo genere corre un rischio, che può portarlo al fallimento, ogni volta che tenta di mostrare quello che c'è "dietro la porta". Dietro la porta ci può essere un mostro: si può tenere il lettore (o lo spettatore) con il fiato sospeso, terrorizzarlo con l'attesa, ma nel momento in cui si fa vedere quello che davvero c'è al di là si corre il rischio di cadere nel ridicolo. Forse perché, nella propria mente, ogni individuo ha fantasmi personalissimi che accendono il suo senso del terrore e dello spavento e, finché regna l'attesa, li può proiettare in quell'immaginario "dietro la porta". L'evidenza della "cosa spaventosa" può non fare scattare quel determinato interruttore in quel determinato modo. Ecco perché, personalmente, preferisco l'attesa e l'allusione al grand guignol - a meno che qualcuno sia così bravo da mettere il secondo al servizio delle prime. Ma non è di certo il caso di A l'intérieur.