Dopo Aldo Lado e Lucio Fulci che, con i loro gialli, mi hanno immensamente soddisfatto, sono piombato, di link in link e in maniera piuttosto casuale, su The Killer Nun (in italiano: Suor Omicidi), girato nel 1979 da Giulio Berruti, a me del tutto sconosciuto. Non mi aspettavo quello che ho effettivamente visto. Certo, a giudicarlo con il metro del giallo perfetto - e non menziono affatto i criteri della cinematografia di qualità, che qui non c’entrano proprio nulla, dato che comunque mi aspettavo un B-movie -, The Killer Nun fallisce in pieno, ma a prenderlo con il dovuto senso dello humour se ne ricava un piacere perverso. Abbiamo qui a che fare, insomma, con un film delirante - per l’intreccio, per la scelta del casting e per la recitazione - e piuttosto camp (volontariamente o no, questo non si sa).
Intanto, i protagonisti: Anita Ekberg veste i poco credibili panni di una suora di mezz’età, suor Gertrude, che lavora in una clinica privata di un paese europeo (forse la Svizzera), mentre Joe Dallessandro sembra molto spaesato nel ruolo del giovane medico. In ogni caso, entrambi sono garanzia dell’elemento camp della pellicola. Suor Gertrude si comporta in maniera strana: in seguito a un’operazione per un tumore al cervello è diventata morfinomane e questo le ha causato delle turbe caratteriali. La morfina gliela ruba in ospedale la giovane suor Mathieu (Paola Morra) e, quando finisce, Gertrude non trova di meglio che fare una scappatella in città e, dismessi gli abiti monacali, vendere l’anello rubato a una vecchia morta in corsia e rifornirsi di droga. Già che c’è ne approfitta per ramazzare il primo uomo che trova in un bar e farsi scopare in piedi nel corridoio di casa sua: la carne è debole e fa sentire il suo richiamo malgrado il voto di castità.
Come se non bastasse, c’è pure una spruzzata di lesbismo. Suor Mathieu è innamorata di suor Gertrude che, sapendolo, le porta un bel paio di collant dalla città e glieli fa indossare, per soddisfare al tempo stesso un suo feticcio, e intanto la costringe a ripetere: “I am the worst kind of prostitute!” - sono una prostituta della peggior specie.
In ospedale, nel frattempo, si accumulano morti su morti - e non si tratta di morti accidentali, bensì di omicidi. Lo spettatore è tentato di stabilire un’equivalenza tra la suora dissoluta, morfinomane, sadica e lesbica - e ci manca poco che bestemmi pure, ma si limita a chiamare “bitch” la madre superiora (un cameo di Alida Valli) - e l’assassina, ma così non è, anche se il colpo di scena che rivela chi è la vera colpevole arriva un po’ come un anticlimax, perché è ampiamente prevedibile.
In mezzo a questa profusione di eventi sgangherati ci sono però alcune scene degne di nota, in equilibrio precario tra il grottesco e il disgustoso, ma mai veramente terrificanti (così come le poche scene erotiche non sono mai davvero eccitanti). La prima è quella in cui, durante la cena in refettorio, suor Gertrude si accorge che una vecchia paziente si è tolta la dentiera e l’ha messa nel bicchiere davanti a sé. Colta da un raptus, suor Gertrude la prende, la butta a terra e la calpesta con furia, frantumandola tutta, salvo poi pentirsene subito dopo. La seconda è quella della tortura inflitta a un’altra paziente, a cui vengono infilati adagio una serie di aghi ipodermici in vari punti del volto. La terza è quella in cui il giovane medico (l’improbabile Dallesandro) sta per iniettare un calmante a suor Gertrude in preda al deliquio e, denudandole il braccio, scopre una lunga sfilza di ecchimosi e croste che partono dal polso e arrivano fino al gomito, risultato della sua inveterata abitudine alla morfina: su questo dettaglio l’obiettivo indugia golosamente.
Non sapendo forse come concludere questo delirio, il regista ricorre alla circolarità narrativa, per così dire, e lo fa finire con una confessione - è l’assassina a confessarsi, così come si confessava all’inizio, solo che lo spettatore non ne vedeva il volto - e sulle note del “Dies Irae”. Perché l’assassina ha ucciso (e ora il mio lettore avrà capito da solo, pur non avendolo visto, chi è la colpevole) è un interrogativo per il quale non viene fornita nemmeno una parvenza di risposta, per quanto evasiva. Dopotutto, non è questo che ci si aspetta da un film così. Un film che, nel giusto stato d’animo, assicura un’ora e mezzo di spasso.