Si può girare un film che racconta la storia di un uomo che lotta contro la balbuzie e non fare addormentare lo spettatore dalla noia? Si può ed è quello che accade con Il discorso del re di Tom Hooper. L'uomo che soffre di balbuzie, certo, non è un mortale qualsiasi, ma è il duca di York, secondogenito di Giorgio V re di Gran Bretagna e padre della futura regina Elisabetta II, e lui stesso destinato a diventare re, con il nome di Giorgio VI, dopo l'abdicazione del fratello, Edoardo VIII. Per quanto riguarda le vicende esteriori, il film di Hooper copre un periodo che va dal 1926, si concentra sulla metà degli anni trenta e si conclude nel 1939, quando la Gran Bretagna entra in guerra con la Germania e il re deve annunciarlo con un discorso radiofonico alla nazione e all'impero: un'impresa titanica, data la sua balbuzie.
Il futuro re, però, è anche un uomo ed è soprattutto l'aspetto umano che viene messo in rilievo per tutta la durata del film. Dopo aver tentato invano con vari specialisti di risolvere la sua balbuzie, il duca di York (Colin Firth) approda all'ultima spiaggia del "dottor" Lionel Logue (Geoffrey Rush), un australiano strampalato e simpatico, che tratta subito l'erede al trono da pari a pari - lo chiama Bertie e gli dà del tu - finché non riesce a vincerne le resistenze e a diventare il suo logopedista personale. L'operato di Logue, che in realtà non è un medico ufficiale ma che grazie alla passione e all'empatia dimostrata verso i suoi "pazienti" ha ottenuto più successo di tanti altri, si contraddistingue per l'attenzione e la curiosità verso l'aspetto psicologico della difficoltà del duca di York. Diversamente dagli altri capisce che la balbuzie non è un fatto meramente meccanico che si possa risolvere con trucchi meccanici, ma a poco a poco riesce a suscitare le confidenze di "Bertie", il quale gli rivela le sue privatissime sofferenze, diventandone amico.
In filigrana, attraverso le vicende del protagonista e le discussioni che ha con Lionel, si capisce che uno dei temi portanti del film è il rapporto dell'individuo - anche quando è un sovrano - con quella paura indefinibile che affonda le sue radici nelle profondità dell'animo. Giorgio VI è paralizzato infatti da una paura che gli si è conficcata nella carne sin da quand'era piccolo, causata da una serie di traumi che lo rendono, malgrado la sua posizione privilegiata, simile a tutti gli esseri umani. E' questa paura che gli impedisce di realizzare in pieno la propria forza. Per tutto il film vediamo un uomo costantemente trattenuto - e Colin Firth è molto bravo nel dare espressione fisica a questo trattenersi, come se ci fosse davvero qualcosa che lo comprime impedendogli persino di rilassare i muscoli. Il fatto di essere il secondogenito di Giorgio V gli era servito da schermo e da protezione: sapeva di non essere destinato a succedere al padre. L'abdicazione del fratello lo costringe a fare i conti con questa possibilità che si realizza. Se prima poteva rinunciare alla propria forza interiore e accettare così una sorta di menomazione, ora è costretto a sviluppare la fiducia in sé, perché questa è il presupposto per essere credibile di fronte ai suoi sudditi. Se il re è anche un simbolo che esprime l'unione di popolo e nazione, è necessario che irradi forza verso l'esterno per essere accettato in quanto tale. Ma se la forza interna manca, com'è possibile farlo? Ecco che, anche grazie a Lionel Logue, nel film Giorgio VI è costretto a compiere un percorso di "emancipazione psicologica" dalle sue paure. Trovo poi molto interessante l'importanza attribuita, in questo processo, alla voce e alla parola, che qui diventa, a mano a mano che si emancipa dalla balbuzie, l'espressione visibile di questa forza interiore.
Al di là di interpretazioni e significati, più o meno reconditi, che vi si vogliano (o possano) leggere, Il discorso del re è un film godibilissimo, magistralmente costruito, senza che la tensione narrativa ceda mai per un attimo. E' un crescendo che culmina, alla fine, nel climax del discorso finale. Qui l'occhio della cinepresa si sposta dallo studio in cui il re, solo con Lionel che lo guida come se fosse un direttore d'orchestra e lo tranquillizza con l'espressione degli occhi e del volto come il più provetto degli psicologi, registra il suo messaggio a una serie di immagini che ci mostrano i sudditi che, in diversi ambiti della società, lo ascoltano rapiti dalla radio. In quel momento lo spettatore vede che l'autorità del re colpisce il bersaglio, soprattutto nel momento in cui, alle soglie di una guerra lunga e dura, ce n'è più bisogno. E' una scena commovente e l'emozione deriva proprio dal trionfo dell'individuo sul proprio limite: quando Giorgio VI esce da quello studio, accolto dagli applausi dei tecnici radiofonici e dalle ovazioni della gente ai cancelli di Buckingham Palace, è diventato re per davvero.