Pur non annoverando Walter Siti tra i miei autori preferiti - di lui conoscevo, sinora, soltanto Troppi paradisi -, quando ho letto di che cosa trattava il suo nuovo romanzo, Autopsia dell’ossessione, ne sono rimasto subito intrigato. All’apparenza, il tema di questo libro mi riguarda da vicino - mi sono detto -, perché in qualche modo tendo anch’io ad avere un carattere ossessivo e su come questa ossessione si traduca (o si sia tradotta) in ambito sessuale ho riflettuto a lungo anch’io (senza però arrivare ai vertici di Walter Siti e senza scriverci sopra un romanzo).
Protagonista del libro di Siti è Danilo Pulvirenti, un antiquario di mezza età omosessuale, che coltiva con ostinazione la propria ossessione. Questa si concentrata ormai su un unico body-builder, un marchettone di borgata piuttosto grezzo, tale Angelo, che sottopone a una serie di pratiche non meglio precisate, ma quasi certamente di natura sado-masochistica, e che soprattutto fotografa o fa fotografare in pose piuttosto artificiose ma per lui suggestive, per alimentare il suo archivio personale, cui dedica una stanza di casa (la “stanza di Barbablù”), e al contempo la sua ossessione. Inevitabilmente il protagonista, che non è uno stupido, ma è anzi un intellettuale piuttosto snob, finisce per riflettere sulla natura della propria ossessione, che cerca di sviscerare, senza però arrivare a esaurirla e a definirla con esattezza. Proprio perché in quell’ossessione c’è qualcosa che va al di là delle parole e della conoscenza, qualcosa di impenetrabile.
Dire, come mi è capitato di leggere in qualche recensione, che il romanzo riguarda una “ossessione omosessuale” è fuorviante. E’ vero che il protagonista è omosessuale - come l’autore, del resto -, ma il centro di tutta la faccenda è l’ossessione erotica in sé, che potrebbe anche esprimersi in modo diverso se l’inclinazione del protagonista fosse di un altro segno e si rivolgesse a un altro sesso. In questo senso la disamina di Siti, attraverso la figura di Danilo, acquista un valore universale, che trascende le categorie di genere. Autopsia dell’ossessione non è, insomma, un “romanzo gay”.
Oltre a un romanzo che ripercorre le tappe dell’evoluzione di Danilo - dall’infanzia emiliana, passando per la giovinezza a Parigi, fino alla maturità a Roma -, tanto da poter essere letto anche come un “Entwicklungsroman”, Autopsia dell’ossessione ha anche un piglio “sistematizzante”, perché interrompe spesso la narrazione e, per tirare le fila di ciò che ha raccontato, fornisce una serie di “proposizioni” (25, per l’esattezza) che, “more geometrico”, si propongono di descrivere, nel modo più freddo e obiettivo, la natura dell’ossessione sessuale (in contrapposizione anche, per esempio, a realtà apparentemente simili come la passione o l’erotomania). Queste proposizioni, nella loro acuminata glacialità applicata a una materia calda come l’ossessione, sono estremamente godibili: una festa per il cervello analitico del lettore a sua volta un po’ ossessivo.
C’è un aspetto, in particolare, dell’ossessione erotica di cui è preda Danilo che vorrei sottolineare. Nel romanzo di Walter Siti l’ossessione è anche il mezzo per accedere al “divino”, a una realtà metafisica che trascende i limiti angusti del reale. Il fatto curioso e paradossale è però che esso s’incarna nell’imperfezione umana e, ancora di più, in una materia sporca (che include anche la rozzezza di Angelo). Si legge infatti, a un certo punto: “Senza metafisica, l’ossessione diventa stupido collezionismo, accumulazione robotizzata” o, altrove: “L’ossessione sessuale è una vocazione che non ha il coraggio di dichiararsi”, “L’ossessione recupera il sacro in un periodo di soffocante secolarizzazione” e “Occorre molta fede per riconoscere dei simboli in quello che per il mondo è immondizia”. A proposito di Angelo, il protagonista arriva a dire che “l’incarnazione si è insediata nella sua vita”. La modalità con cui si attua l’ossessione ha qualcosa della “liturgia”, con le sue ritualità ben scandite e con i percorsi fissati a priori, una ritualità che è divina e bestiale allo stesso tempo: “I suoi coiti con Engy assomigliano talvolta ai misteri in cui i mortali si congiungono con un dio, altre volte all’accoppiamento con un animale, veri e propri sfoghi zoofili”. Danilo, per esempio, numera le sedute e ne tiene traccia in un taccuino. Alcuni numeri, poi, acquistano un particolare valore, in base a una complessa simbologia mistica.
A questa ossessione sessuale si ricollega il culto dell’immagine e della fotografia dell’oggetto erotico (e il romanzo è corredato da un ricco apparato iconografico, consistente proprio nelle fotografie dell’oggetto dell’ossessione, in pose plastiche commentate dallo stesso autore). E spesso le immagini sembrano avere maggiore attinenza e aderire di più all’ossessione di quanto non faccia l’oggetto in carne e ossa, che diventa invece un pretesto quasi estraneo all’ossessione stessa. Della sostanza ambigua delle fotografie è ben consapevole il protagonista: “Quasi mai le foto riescono a liberarsi dal loro peccato originale, che è la realtà”. Un’osservazione che culmina in quest’altra, ancora più definitiva e, tutto sommato, tragica: “Ogni foto è un ibrido: appare come icona, cioè come rappresentazione simbolica di un mondo altro, ma a differenza della pittura non può prescindere dalla presenza reale, in un determinato momento, di un essere in carne e ossa, volonteroso e opaco, che solo parzialmente è al servizio della rappresentazione”.
Il titolo “autopsia” non allude soltanto a un’osservazione puntuale di sé, come sostiene per esempio Domenico Starnone nella sua recensione su Repubblica (“il suo significato originario è l’atto di guardarsi, di guardare coi propri occhi, di sperimentare direttamente”), ma rimanda anche a qualcosa di luttuoso. Non dimentichiamo, infatti, che l’autopsia si compie sui cadaveri, su qualcosa che ormai è morto. Sembra quindi che la materia sottoposta ad autopsia - squartata ed esaminata con tanta attenzione - sia ormai morta e inerte: resta il dubbio se perché osservata così a lungo e con tanta minuzia da esserne uscita depotenziata ed esausta o se perché morta e mortifera in sé. (O forse è l’atto di osservare l’estremo tentativo, fallito, di rivitalizzarla?). Aleggia, in effetti, un’aria di decadimento e di morte su tutto il romanzo, a partire dalla professione del protagonista: antiquario, ma non soltanto questo, bensì antiquario fallito, che non riesce a vendere e che trascorre giornate intere nel suo negozio senza che accada nulla. A tutto ciò si aggiunge il progressivo sfacelo mentale che colpisce Candida, la madre di Danilo colpita dal morbo di Alzheimer, e almeno un paio di morti violente che non voglio rivelare per non rovinare la sorpresa di chi volesse leggere il romanzo.
Resta da dire qualche parola sul protagonista. Danilo è snob, appartiene a un ceto sociale elevato e privilegiato, a una famiglia di ricchi possidenti da molte generazioni. Esercita un programmatico cinismo (“I sentimenti hanno la stessa periodicità del bisogno fisiologico di eiaculare - anche dei sentimenti ci si libera con una manovra di masturbazione psichica, che consiste nell’enfatizzare le parole e i gesti dell’affetto fino a ottenere una scarica orgasmatica, una simulazione di cui la musica è il tramite privilegiato” e, ancora: “A quasi sessantatré anni si dovrebbe finalmente essere liberi dalla tutela dei genitori: la loro morte dovrebbe essere garantita come diritto inalienabile dell’individuo”). Per questi motivi, quindi, dovrebbe risultare sommamente odioso e antipatico. Non è così invece, ma si salva perché non è inconsapevole dei moventi delle sue azioni. Vorrebbe non sapere, forse, ma sa suo malgrado. E spesso è una conoscenza di sé che gli arriva di colpo, sotto forma di rivelazione, come quando per caso voltiamo la testa e cogliamo il nostro riflesso in uno specchio, tanto che ci serve un attimo prima di capire che siamo noi stessi, ma quando l’abbiamo capito non possiamo sottrarci a questa conoscenza e al disagio - o, eventualmente, al disgusto - che ci provoca. Danilo, quindi, non ama troppo quello che vede di sé - i suoi limiti, i suoi fallimenti, le sue meschinità - e lo dice: questo lo umanizza.
A fare da contraltare a Danilo c’è, infine, un “deuteragonista”: il professore che diventa il “Rivale”, perché a poco a poco, con il suo modo di fare mansueto e gentile, sottrae (o minaccia di sottrarre) Angelo a Danilo. Il “Rivale” adombra in modo abbastanza evidente lo stesso Walter Siti. Sembra che l’autore si diverta a descrivere con pungente sarcasmo questo suo alter ego: “Uno dei tanti intellettuali imbranati e patetici, che si sforzano di infiocchettare la loro vita di merda con qualche sogno proibito”, oppure: “Il professore ha avuto successo con un suo sedicente romanzo (una geremiade rasoterra proprio sulle borgate, a base di piatte registrazioni magnetofoniche), un compitino poco originale che trascina Angelo e i suoi parenti nel fango e li rappresenta nel loro lato documentario”, fino al culmine autolesionistico: “Fa l’amico di chi gli tira la merda in faccia, sempre pronto a smentire quello che ha detto se fiuta che gli porterà svantaggi; frocio che cerca il plauso degli omofobi e dei maschilisti; iracondo ma vile, strizza l’occhio alla sinistra e vota Alemanno”.