Ieri, per scacciare la fatica del primo giorno e del viaggio, mi sono alzato di buon'ora e dopo l'abbondante colazione mi sono lanciato alla scoperta di Tel Aviv. Arrivato più o meno al crepuscolo, volevo luce e quindi mi sono subito fatto una passeggiata sul lungomare, in direzione nord. Io non sono un appassionato di acqua e di mare, questo si sa, ma la vista e l'odore del mare mi mettono di buon umore. Prima di partire mi ero letto il saggio che Elena Loewenthal ha scritto sulla città, poi l'ho saggiamente "dimenticato" a casa: malgrado i preziosi suggerimenti per le visite, non volevo farmene troppo influenzare. Però, mentre passeggiavo lungo il mare, mi sono ricordato che a un certo punto scrive che i padri fondatori di Tel Aviv l'hanno edificata voltando, per così dire, le spalle al mare, da ebrei continentali diffidenti verso questo elemento. E in effetti è un po' così: tra i grandi alberghi che costeggiano tutta la strada e il lungomare vero e proprio c'è la HaYarkon Street e le abitazioni cominciano solo all'interno, al di là degli alberghi. Ma poi mi distraggo subito e mi concentro sui bei surfisti che cavalcano le onde. Davanti alla "marina" di Tel Aviv scopro una bella piscina all'aperto: mi verrebbe voglia di buttarmici, ma non ho portato il costume con me (poi, tornato in albergo, leggerò che si tratta della piscina Gordon, ricostruita e riaperta da poco dopo che era stata chiusa qualche anno dalla municipalità tra tante polemiche e proteste).
Dopo qualche passo falso risalgo verso l'interno e imbocco il boulevard Ben Gurion. Come portafortuna pesto una merda di cane sul marciapiede: me ne accorgo perché sto per scivolare. Mi pulisco la scarpa perché la prima meta della giornata è proprio la villetta su due piani in cui ha vissuto e lavorato il primo presidente di Israele, David Ben Gurion, e non vorrei entrare trascinandomi dietro odori molesti. La casa di Ben Gurion è stata trasformata in un piccolo museo dove tutto è conservato esattamente come ai suoi tempi. Sono l'unico visitatore: un po' me ne stupisco, ma la cosa mi rallegra anche, così ho tutte le stanze per me. In una camera a pian terreno mi soffermo in particolare a leggere alcune frasi da un paio di interviste a dei giornali tedeschi e americani, agli inizi degli anni sessanta. Mi sbalordisce la visionarietà di Ben Gurion che, già nel 1961, sostiene che nel giro di venticinque anni anche in Unione Sovietica ci sarà la democrazia e che l'unificazione delle due Germanie sarà possibile solo quando l'Unione Sovietica si sarà democratizzata. Col senno di poi, mi vien da pensare che fosse profetico. Curioso un po' in cucina, salgo a vedere l'immensa biblioteca, e un po' mi emoziona pensare a quell'uomo politico che, malgrado tutte le difficoltà, è riuscito in un'impresa che non era affatto scontata: creare lo stato di Israele, malgrado tutte le avversità e le ostilità. Siccome i cartelli avvertono che "è vietato fotografare i documenti esposti", io ne do un'interpretazione restrittiva e, di straforo, fotografo un paio di stanze.
Uscito da lì proseguo a piedi fino al Boulevard Rothschild, cuore "elegante" della città. In realtà l'obiettivo è di cercare, dal vivo, quegli edifici Bauhaus per cui è famosa Tel Aviv, soprannominata "città bianca", e che mi sono scaricato dal sito del Bauhaus Center. Me la prendo comoda, ne trovo un po', ma non tutti. Del resto non è così importante, perché ovunque ti giri, a Tel Aviv, ci sono edifici Bauhaus. Spesso diroccati e malmessi, perché questa è una caratteristica di questa città, che da un certo punto di vista la rende anche affascinante. E' un miscuglio di eleganza e fatiscenza. C'è una certa casualità e trascuratezza nel modo in cui certi edifici paiono essere stati abbandonati o nel modo in cui vengono occupati gli spazi urbani. Per questo, mentre sto scendendo per il viale e alzo lo sguardo verso uno dei grattacieli che sembra spuntare dal nulla, mi viene una folgorazione: Tel Aviv è una specie di Berlino sul mare. Più piccola e con il sole. Pensato questo, mi fermo da "Max Brenner", un cioccolataio abbastanza chic - anche questo era un consiglio di Loewenthal nel suo libro, che mi ero segnato e poi dimenticato e che ora ritrovo per pura coincidenza -, e mi prendo una cioccolata calda e una fetta di torta ipercalorica.
Recuperate le energie torno verso Allenby Street, dove ho l'albergo, ma prima mi tuffo nel mercato del Carmel, con una certa angoscia. Sono lievemente claustrofobico e non amo molto i luoghi stretti e affollati. Bello, ma fin troppo mediorientale per i miei gusti: quando vedo come i clienti smanazzano, per esempio, il pane e le focacce esposte prima di (non) comprarle, mi passa un po' la voglia di prendere qualcosa. Ma anche qui ho occasione di scattare più di una fotografia prima di tornare a riposare un po' in albergo.
La sera, verso le sei, esco di nuovo, ma ormai si è fatto buio. Vorrei scendere ancora lungo il mare, ma c'è vento e quindi rientro più o meno all'altezza del David Intercontinental. La meta sarebbe Neve Tzedek, il primo nucleo ebraico costruito fuori da Jaffa. All'improvviso, però, sento qualche goccia di pioggia. Come? Arrivo io e si mette a piovere? Mi riparo sotto una tettoia e la pioggia comincia a scrosciare. Ottimo, penso, non mi sono nemmeno portato un ombrello. Intanto guardo le ruspe che raccolgono - all'altro capo del Carmel - gli avanzi del mercato e li gettano in un camion dell'immondizia. Il temporale dura cinque minuti di orologio: è più che altro una pisciata del cielo, e così posso riprendere la mia camminata verso Neve Tzedek, dove approdo dopo aver attraversato paesaggi lunari con squarci nel terreno, cantieri non recintati, parcheggi distribuiti a caso, case semidiroccate. Neve Tzedek è, effettivamente, carina, ma venerdì sera non è forse il momento giusto per andarci: ci sono solo un paio di ristoranti aperti, i negozi sono ormai chiusi e in giro non c'è quasi nessuno - a parte due ragazzini del Corno d'Africa in bicicletta che mi chiedono se parlo inglese - "Yes, I do" - e se conosco un certo bar - "Sorry, but I'm not from Tel Aviv".
Esco per Lilienblum Street e mi dirigo di nuovo verso Allenby Street: dovrei cenare, ma mi fermo attratto da una musica ad alto volume. Fuori da un pub, davanti alla grande sinagoga, c'è un gruppo che sta facendo una sorta di jam session di musica rock. Fuori è pieno di giovani che bevono, chiacchierano e ballano. Mi accorgo, ancora una volta, di quanto sono giovani, in media, gli abitanti di questa città. E, come controaltare, a me sembra di essere una vecchia gallina non più buona nemmeno per fare il brodo. Mi fermo comunque a guardare la fauna. C'è anche qualche vecchia signora, c'è una giovane mamma con un bambino piccolissimo - e allora penso che è meglio farli a quell'età, i figli, perché per crescerli è necessaria quella dose d'incoscienza che si può avere solo da giovani. E ci sono un paio di ragazzi strafatti. Uno assomiglia, in meglio, a un Raz Degan più giovane, è a torso nudo e a un certo punto gli cadono persino i calzoni e gli slip, lasciandogli scoperto mezzo culo: ne approfitto per fotografarlo. L'altro, forse un suo amico, è a piedi nudi, barcolla e dondola e si arrampica sul parapetto della sinagoga, sta per buttarsi di sotto sulla strada, ma il suo amico lo tira indietro.
Dopo una parca cena mi faccio un ultimo giro, prima per Bialik Street dove, mentre fotografo la piazza in fondo, una ragazzina mi fa segno e, avvicinandosi a me, mi chiede se la fotografo con i suoi due amici. Lo faccio e le chiedo se vuole che le mandi la foto per email. Lei si limita a chiedermi se ho un profilo su Facebook e, in questo caso, basta che la posti dicendo che loro sono "the stupid kids" di Kikar Bialik. Naturalmente, ho eseguito.