Ieri ho rivisto, dopo tanti anni, quello che a modo suo - e forse involontariamente - è diventato un classico della cinematografia leggera italiana. Mi riferisco a La patata bollente per la regia di Steno che, nell'ormai lontano 1980, affidò a Renato Pozzetto e a Massimo Ranieri questo tentativo di popolarizzare una riflessione "progressista" sull'omosessualità (e poi chiarirò perché ricorro alle virgolette usando il termine progressista).
La storia è abbastanza nota: Mambelli, detto Gandhi - interpretato da Pozzetto -, è un operaio convintamente comunista e filosovietico, ex-pugile, innamorato di Maria (Edwige Fenech, di cui ovviamente non ci vengono risparmiate le tette, almeno in tre scene), salva Claudio (Massimo Ranieri) da un'aggressione di un branco di neofascisti. Solo in un secondo momento, quando ormai l'ha ospitato in casa sua, scopre che Claudio è omosessuale. Questa rivelazione rappresenta uno smottamento per tutte le sue convinzioni e gli crea una serie di problemi - e, di conseguenza, di equivoci comici - con i compagni di fabbrica e con la fidanzata, persino con l'occhiuta portiera ficcanaso, soprannominata "Digos". Naturalmente, trattandosi di una commedia, il lieto fino è garantito ed entrambi i protagonisti si sposano: Gandhi con la sua Maria, Claudio con un biondo olandese dopo essere emigrato ad Amsterdam.
Il problema principale di questo film, al di là del fatto che faccia più o meno ridere, è che resta un evento "ibrido". Pur mantenendo intatti i princìpi della commediola italiana di quegli anni, cerca tuttavia di spiccare il salto e di accedere a un discorso più alto, vagamente educativo. Non sono però convinto che ci riesca, se non veicolando un messaggio blandamente consolatorio che, alla fin fine, potrebbe solo confermare i pregiudizi di partenza. In un certo senso La patata bollente è un'arringa a favore della non-discriminazione degli omosessuali, nei confronti dei quali si invita lo spettatore a manifestare maggiore apertura mentale, maggiore generosità e un abbattimento dei propri preconcetti, compiendo cioè lo stesso percorso del Gandhi che da un'adesione totale, spontanea e irriflessa, alla concezione corrente sull'omosessualità arriva, in conclusione del film, a sfidare esplicitamente i pettegolezzi e a rischiare la condanna dei suoi compagni ballando coram populo con Claudio durante una festa dell'Unità, e a battere i pugni nel consiglio di fabbrica che vorrebbe estrometterlo dalla candidatura a rappresentante sindacale. Questo elemento "progressista" - ancora una volta tra virgolette - viene però trasmesso attraverso una serie di pregiudizi e, soprattutto, di cliché pesanti oppure banali, creando un cortocircuito tra il messaggio esplicito del film e gli strumenti con cui questo messaggio viene rappresentato, un cortocircuito che finisce per annullare o, per lo meno, annacquare il presunto "fine nobile" del film, tanto che uno alla fine si chiede: ma voleva divertire e far ridere o voleva far riflettere? Qualunque cosa volesse, fallisce in entrambi i casi.
Tanto per fare un paio di esempi, quando entrano in scena altri personaggi omosessuali - pure e semplici comparse -, come il cliente della libreria gay in cui lavora Claudio o addirittura il primario (omosessuale) della clinica privata in cui il Gandhi viene ricoverato verso la fine del film, sono sempre personaggi effeminati al limite della macchietta che, naturalmente, manifestano con atteggiamenti da fatalona il loro interesse erotico nei confronti del Gandhi stesso. L'immagine che passa allo spettatore è quella tradizionale del pregiudizio sui gay: uomini che ci provano con qualunque individuo di sesso maschile, indiscriminatamente. Certo, qui il fatto diventa produttivo perché offre uno spunto per le reazioni comiche di Renato Pozzetto. Da questo punto di vista, non c'è da aspettarsi nulla di nuovo: Renato Pozzetto è Renato Pozzetto in tutti i suoi film, dove ricalca sempre lo stesso personaggio; Massimo Ranieri, invece, cerca di dare un minimo di dignità al personaggio che interpreta e, concedendogli comunque qualche vezzo, non lo fa sconfinare nella macchietta, malgrado i cliché abbondino anche per lui: cucina bene, gli piace prendersi cura della casa, gli piace l'arredamento un po' esotico e via discorrendo.
Però, al di là di tutte queste considerazioni, La patata bollente ha un suo valore sociologico ed è una sorta di testimonianza in presa diretta. E' un valore per così dire secondario, aggiunto, e per questa ragione mi pare piuttosto affidabile. Innanzitutto mostra un partito comunista e un sindacato fortemente viziato da pregiudizi e stereotipi anti-omosessuali. Poi, nella stessa rappresentazione degli omosessuali - oltre alla loro stereotipizzazione a tratti offensiva -, soffia anche lo spirito dei tempi che caratterizzava tanta parte del movimento gay italiano, sicuramente quella che, più visibile, dava il "tono". Quando, per esempio, Gandhi-Pozzetto mostra a Claudio-Massimo Ranieri il dondolio di fianchi che, secondo lui, è tipico dei "culattoni", Claudio lo corregge dicendogli che quelle sono le "checche", categoria diversa dagli "omosessuali": in questo mi ricorda un po' certe teorie alla Mario Mieli per cui il travestimento, la femminilizzazione, lo "scheccare" erano elementi eversivi che servivano a contrapporsi alla mascolinità (oppressiva, capitalistica ecc.) imperante. Curioso è, invece, il fatto che mai nemmeno una volta viene usata la parola "gay": c'è omosessuale, culattone, culo - cacchineri, addirittura, in sardo -, ma mai gay. O forse non è così curioso e anche questo indica che, a livello popolare e colloquiale, non era ancora avvenuta una penetrazione diffusa del termine.