Chi non ha la fortuna di possedere un grande patrimonio è costretto, in qualche modo, a lavorare per guadagnarsi da vivere. Gran parte degli umani sono incatenati a un lavoro che svolgono in un posto ben determinato, legati a orari fissi, e spesso in compagnia di colleghi o a contatto di altri umani come loro. Qualcun altro - non so se più fortunato - può esercitare la libera professione e gestire meglio i propri tempi di lavoro. Altri ancora, invece, lavorano a casa propria, rinchiusi tra le proprie quattro mura, e non hanno nemmeno necessità di condividere una coabitazione forzata con colleghi o di dover comunicare con terzi indesiderati. Io conosco sia la prima situazione che quest'ultima, ma nessuna delle due è esclusiva. L'ultima è tipica, per esempio, del traduttore letterario che, diversamente dal traduttore di singoli testi su commissione e a breve scadenza, ha tempi e volumi più lunghi: al di là del contatto iniziale con l'editore, per il resto del tempo (un mese, due mesi, tre mesi) è da solo con il suo testo. A me è capitato spesso di "invidiare" quelli che fanno solo questo per mantenersi. Lo dico soprattutto quando mi vengono a noia i contatti forzati e gli obblighi del lavoro d'ufficio e penso che chi, invece, può starsene in casa e lavorare in mutande senza mai dover aprire bocca sia più fortunato di me. Lo dicevo spesso, in passato, a M.H., il quale "invidiava" invece la garanzia dello stipendio a fine mese che ricevevo io. In un certo senso è come se ai due estremi di una retta ci fossero da un lato la sicurezza e dall'altro la libertà (ovvero la disponibilità delle proprie giornate) - e sorvolo sul fatto che per come è degradata la situazione lavorativa oggi c'è chi non ha né l'una né l'altra, pur essendo costretto a lavorare. Però rifletto - grazie a un'osservazione casuale di D. l'altro giorno - su un altro aspetto del lavoro, quando questo si svolge soprattutto in un luogo ben definito (come un ufficio, per esempio) o, in certa misura, quando richiede comunque una serie continua di contatti con altre persone (come accade per molti professionisti). E' che in tutti questi casi siamo costretti a interagire con esseri umani con i quali, altrimenti, non avremmo mai scelto di avere nulla a che fare. Il caso - il destino? - ce li ha messi davanti, non possiamo eliminarli ma, allo stesso tempo, non possiamo avere un atteggiamento troppo ostile, perché altrimenti l'ambiente lavorativo diventa un inferno - e chi è che non ha mai conosciuto le dinamiche, spesso malate e pressoché ineludibili, che si formano quando delle persone sono costrette a frequentarsi costantemente nello stesso ambiente chiuso? A questi contatti, poi, si aggiungono i contatti casuali con persone con cui si deve avere a che fare: il caso peggiore è chi ha a che fare de visu con il pubblico, ma la giornata non è migliore per chi deve affrontare centinaia di sconosciuti al telefono e, ogni volta, mascherare il proprio fastidio. In certi giorni questo richiede uno sforzo quasi titanico, soprattutto per gli introversi come me, per quelli che magari non avrebbero la benché minima voglia di aprire bocca e, invece, sono costretti a fingere e a indossare la propria quotidiana maschera. Qualcosa però mi spinge a cercare il lato positivo anche in questo. Proprio perché per temperamento sono abbastanza umbratile e introspettivo, questa disciplina m'impone di uscire da me stesso, mi aiuta a misurare le mie reazioni e, in qualche modo, a imparare l'arte dell'equilibrismo e di una certa diplomazia che, forse, implica anche un qualche grado di innocua dissimulazione. Impresa non sempre facile per chi, come me, è abbastanza trasparente nelle proprie emozioni: la tensione, spesso, è quella di chi si muove in un negozio di porcellana, timoroso di combinare disastri. Se invece lavorassi sempre e soltanto da solo, davanti a un computer e con un testo da tradurre, precipiterei del tutto in fondo a me stesso e disimparerei completamente a gestire i rapporti sgraditi con gli estranei. Ma proprio per questo motivo è per me fondamentale che, fuori dalla mia vita professionale, i rapporti umani che intrattengo con le persone scelte e non imposte dalle circostanze siano improntati alla libertà reciproca e a un rispetto privo di tatticismi.
Interessanti le tue osservazioni. Anche io conosco i due estremi: sempre a contatto con colleghi e "utenza" o sempre in solitudine. Anch'io desidero spesso poter solo vivere nel secondo modo. Se il lavorare con altri può in parte arricchire e toglierci dall'isolamento la maggior parte delle volte mi sembra ci rubi a noi stessi: ci vuole molta fatica e concentrazione per ritrovarsi (così è per me). Il lavoro solitario è spesso gran fonte di gioia, a volte di depressione ma il guaio peggiore, secondo me, è che rende indifesi nei confronti dei rapporti interpersonali persino con le persone più vicine a noi.
wanderer
Posted by: Jacopus | 08/10/2010 at 01:22