Minty Knox vede dei fantasmi - o almeno così lei crede - e sono i fantasmi della zia morta che l’ha cresciuta e, soprattutto, di “Jock”, l’unico uomo di cui si sia mai innamorata e che è morto - sempre secondo lei - in un incidente ferroviario. In realtà Minty soffre di una forma di schizofrenia e di una nevrosi ossessiva che si manifesta in un’ossessione per la pulizia, del proprio corpo e delle cose con cui viene a contatto, e in una serie di rituali per tenere lontana la sventura, come per esempio toccare una serie di oggetti di legno di diverso colore.
“Jock”, però, non è quello che Minty crede. A poco a poco l’attenzione di Ruth Rendell si sposta su altri personaggi che hanno avuto a che fare con lui. Anche loro sono donne e anche loro sono state circuite, sfruttate e poi abbandonate da lui, che di volta in volta ha assunto vari nomi: Jerry Leach o Jeffrey Leigh. Una, Zillah, l’ha persino sposata mettendo al mondo due figli. Jeffrey - questo il suo vero nome - è il tipico protagonista assente che vediamo solo attraverso gli occhi degli altri e la cui immagine si compone, come un puzzle, attraverso una serie multipla di impressioni.
La vicenda di Jeffrey, che Minty accoltellerà nel buio di un cinema scambiandolo per il suo fantasma, è il filo che collega quindi varie vicende che coinvolgono altri personaggi, tratteggiati con altrettanta abilità da Ruth Rendell. C’è, per esempio, il giovane e fascinoso parlamentare conservatore Jims Melcombe-Smith che sposa Zillah per coprire la propria omosessualità e non mettere a repentaglio la carriera politica. (E, detto per inciso, questa sembra essere un tema caro all’autrice, che l’aveva già scelto come punto focale del romanzo The Chimney-Sweeper Boy, firmato con l’alias di Barbara Vine). Ci sono i vicini di Minty, Sonovia (detta Sonny) e Lafcadio (detto Laf), che la trattano come una figlia e cercano di toglierla dall’isolamento in cui vive portandola con sé al cinema e a teatro, senza però riuscire a sottrarla al suo mondo di fantasmi. Ci sono poi Michelle e Matthew: entrambi soffrono di disordini alimentari, anche se di segno diverso. Matthew è una sorta di anoressico che prova ribrezzo per quasi tutti i cibi, tanto da essere diventato scheletrico, mentre Michelle, per compensazione, si ingozza di qualsiasi schifezza fino a diventare obesa. In qualche modo c’entrano anche loro con Jeffrey perché Fiona, che abita vicino a loro, è stata l’ultima sua vittima, quella a cui aveva promesso il matrimonio. La loro vicenda è anche una splendida storia d’amore, tanto più bella perché assolutamente lontana dai canoni stereotipati della rappresentazione amorosa.
Ed è un po’ questo il senso di tutto il romanzo: la realtà non è come appare a un primo sguardo e sotto a uno strato superficiale, quello che si mostra (o che vogliamo mostrare) al mondo esterno, si nasconde qualcos’altro, di meglio o di peggio, ma certamente di diverso. Jims nega la propria omosessualità, Zillah si finge più esotica spacciando origini zigane (ma è inglese al cento per cento malgrado il suo aspetto), Michelle e Matthew non sono un’infelice coppia di disadattati ma due sposi innamoratissimi nonostante il trascorrere degli anni. Questa molteplicità del reale e questo scontro tra ciò che si vede e ciò che non si vede viene quindi ben simboleggiato sia dalla schizofrenia di Minty, sia dai ruoli via via assunti dal protagonista assente - ma presente nei discorsi altrui - Jeffrey, alias Jeff, John o Jock.
Paradossalmente, però, il romanzo di Ruth Rendell - che pure si fa leggere con passione - è più debole proprio nella sua natura di “thriller”. Forse bisognerebbe dimenticare questa assegnazione di genere e leggerlo come un romanzo tout court, altrimenti ci si aspetta, man mano che si procede verso la fine, chissà quale risoluzione che invece non c’è. Il finale è infatti un anticlimax, del tutto prevedibile ma giustificato sia dalle necessità interne della narrazione che dall’esigenza di un certo realismo narrativo: Ruth Rendell non vuol fare fuochi d’artificio per stupire a tutti i costi o ricorrere al soprannaturale, quindi in un certo senso è bene che si concluda così. Ma questa piccola delusione, dovuta più alle aspettative del lettore, è ben poca cosa rispetto al godimento provato durante tutto il resto della lettura.
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