In questo preciso momento il Corriere online sta titolando: “Strage israeliana sulla nave degli aiuti”. L’implicazione è chiara ed è la stessa di tutti quelli che, quest’oggi, stanno dando addosso a Israele. In sostanza, è come se si imputasse a Israele la volontarietà - anzi, persino una sorta di premeditazione - per i morti su una delle navi, quella battente bandiera turca, che voleva attraccare a Gaza. Come se in Israele qualcuno si fosse prefisso, come obiettivo principale, non tanto di impedire alle navi l’accesso al porto di Gaza, ma di assaltarle e ammazzarne gli occupanti, costasse quel che costasse (in termini di vite umane, ma anche in termini di “prestigio internazionale”). Si implica, cioè, che Israele abbia commesso degli omicidi gratuiti, arbitrari, per pura perfidia: e il fatto che si dia per scontata, anticipatamente, questa perfidia la dice lunga sul pregiudizio - come vogliamo chiamarlo? Antigiudaico? - che colpisce questo stato. La faccenda, invece, sarebbe andata diversamente. Qui se ne può leggere un resoconto abbastanza dettagliato.
A quanto pare, erano giorni che le navi cercavano di attraccare a Gaza. Ieri sera, verso le dieci è stato comunicato loro che avrebbero potuto attraccare al porto di Ashdod, in Israele, dove avrebbero potuto scaricare gli aiuti umanitari che dicevano di trasportare, e da lì, sotto la sorveglianza israeliana ma alla presenza degli attivisti, le merci sarebbero state trasferite, via terra, a Gaza. Qual era il problema? Se l’intento dei “pacifisti” era di portare aiuti umanitari e sollievo agli abitanti di Gaza, questo sarebbe stato soddisfatto. E Israele avrebbe avuta garantita la propria sicurezza, potendo verificare se il carico era davvero in regola. La risposta è stata negativa, il che ha dimostrato che degli aiuti umanitari gliene importava ben poco, a questi “pacifisti”. L’importante era forzare il blocco navale a Gaza, aprire un varco che, chissà, in futuro sarebbe tornato utile per consegnare anche armi ai valorosi “resistenti” di Hamas. A questo punto l’esercito israeliano ha dato l’assalto alle navi, trovandosi la sorpresa di “pacifisti” armati di spranghe, coltelli e (forse) anche armi, che non hanno esitato a usare contro i soldati che sbarcavano sulla nave. Naturalmente le anime belle pensano che gli israeliani avrebbero dovuto farsi massacrare senza opporre alcuna resistenza. Agli anti-israeliani-che-però-non-sono-antisemiti gli ebrei piacciono solo quando sono vittime imbelli.
Il Corriere, che ha scelto quel titolo vergognoso, ha però pubblicato ieri un altro articolo del suo corrispondente da Gerusalemme. Peccato che non si trovi sul sito - perciò lo riporto da qui - perché raccontava che il padre di Gilad Shalit - il giovane soldato di Tsahal da quattro anni prigioniero di Hamas - aveva proposto ai “pacifisti” delle navi una specie di scambio: lui e la sua famiglia li avrebbero sostenuti se loro, incontrando i leader di Hamas, li avessero convinti a permettere alla Croce Rossa di visitare il figlio. “In quattro anni, contro ogni convenzione internazionale, nessuno l’ha mai potuto vedere”, ha detto. Qual è stata la risposta dei “pacifisti”? Njet: a loro interessava solo rompere l’assedio. A questo punto, più che di pacifismo mi sembra il caso di parlare di collaborazionismo: quelli in buona fede sono dei poveri idioti - degli “utili idioti” alla causa di Hamas (e degli islamisti) -, gli altri, be’, sono semplicemente dei traditori, dei quisling. Questo episodio e il rifiuto di far pervenire gli aiuti umanitari nel modo suggerito da Israele danno la dimensione esatta della natura di questo “pacifismo” a senso unico, che pretende e pretende, ma soltanto da Israele. E per me mette una pietra tombale sopra la faccenda. Anzi, direi che Israele ha avuto fin troppi riguardi.
Grande soddisfazione ha espresso infatti Ismail Hanyeh di Hamas, che con le sue parole rivela chiaramente che questa partita - comunque sarebbe andata - sarebbe stata persa da Israele. Infatti, se la flotta avesse raggiunto Gaza, sarebbe stata una vittoria per Hamas perché “l’assedio sarebbe stato rotto”. Se invece gli israeliani l’avessero assaltata, cercando di bloccarla, sarebbe comunque stata una vittoria per Hamas, perché agli occhi di gran parte dell’opinione mondiale avrebbe consolidato l’immagine - falsa, ma onnipresente - di Israele “stato aguzzino”. Del resto, se si continua a martellare con l’idea che Gaza è un “ghetto”, una “prigione a cielo aperto”, un “campo di sterminio” di cui solo Israele è colpevole, allora qualsiasi cosa faccia Israele verrà sfruttata propagandisticamente per rafforzare questo concetto. Bisogna fare uno sforzo in più per accorgersi che se l’accesso a Gaza è chiuso e controllato da Israele è proprio perché da quando, cinque anni fa, gli israeliani se ne sono ritirati e l’hanno lasciata alla gestione dei palestinesi, questi hanno scelto come governanti dei terroristi, i quali hanno come prima cosa distrutto le infrastrutture create da Israele - che sarebbero potute tornare utili anche a loro, come le serre, per esempio - e hanno usato il territorio (soprattutto dove era densamente popolato ed espressamente in mezzo alla loro stessa popolazione civile) per lanciare razzi mirati di proposito ai civili israeliani. A questo punto che cosa dovrebbe fare uno stato di buon senso per proteggere i propri cittadini? Come minimo controllare quel che entra ed esce da quel territorio. In secondo luogo questa storia che Gaza è una prigione, un ghetto, una fogna dove si fa la fame (sempre per colpa dell’ “aguzzino nazisionista”) è un vero e proprio mito: basti leggere i dati forniti dal Cogat (il Coordinamento per la Gestione delle Attività nei Territori), riguardanti, tra l’altro, l’enorme quantitativo di beni di prima necessità che da Israele passano regolarmente, tramite i tir, a Gaza. I 1.432 abitanti di Gaza che nel mese di maggio sono andati in Israele per ricevere cure negli ospedali israeliani testimoniano proprio della natura “nazista” e “genocida” dello stato ebraico! E che a Gaza si fa la fame lo dimostrano posti come questo, che a noi tutti ricordano da vicino il ghetto di Varsavia durante la dittatura nazista, ovviamente. Forse la domanda da farsi è un’altra: che fine fanno tutti gli aiuti umanitari, tutti i soldi, tutte le derrate, tutte le merci e tutti i prodotti che entrano a Gaza? Che cosa succede quando dalle mani del ministero della difesa israeliano passano ai palestinesi e, più in particolare, ad Hamas che li gestisce e - in teoria - li distribuisce? Se Gaza va liberata da qualcuno non è di certo dall’assedio israeliano, ma dal giogo di quei farabutti di Hamas.
Non mi stupisce più di tanto, però, la reazione dei media e i commenti velenosi contro Israele. Nelle ultime settimane, infatti, la campagna anti-israeliana si era intensificata con una virulenza che non avevo mai visto. Prima l’appello di J-Call, con cui s’invitavano gli ebrei della diaspora a opporsi alle politiche del governo di Israele - un governo democratico e democraticamente eletto -, squalificando quindi tutte le posizioni che, in Israele, sono tendenzialmente filogovernative; poi il boicottaggio-che-non-era-un-boicottaggio (ma chi ci ha creduto? giusto i gonzi, forse) dei prodotti israeliani da parte di Coop e Conad, attuato con la scusa che alcuni prodotti ortofrutticoli importati arrivavano dalla Giudea e dalla Samaria - cioè dai cosiddetti “territori occupati” -: in tutto uno 0,4%. A questo si aggiungeva il boicottaggio promosso da certi professori dell’ateneo torinese, di cui il tacere è bello, nei confronti dei colleghi delle università israeliane (con Eco che ha messo una toppa peggio del buco asserendo che, in fin dei conti, mica tutti gli intellettuali israeliani appoggiano Netanyahu, e implicando così che gli intellettuali “buoni” - cioè quelli di sinistra - si possono invitare, mentre quelli “cattivi” - tutti gli altri -, be’, insomma, se non s’invitano è meglio).
Racconto infine un aneddoto triste e rivelatore. Stasera sono andato al cinema, dove mi ha raggiunto un amico che ha passando per il centro ha assistito casualmente a una manifestazione contro Israele. Pur senza vederla, mi immaginavo già tutto. In ogni caso, uno dei manifestanti ha rifilato al mio amico un volantino. Lui l’ha rifiutato. L’altro ha replicato: “Sei giovane, dovresti interessarti di quel che succede nel mondo”. Lui gli ha risposto che se ne interessa e ha aggiunto: “Sono ebreo”. Al che l’altro ha ribattuto: “Allora devi morire!”. E adesso qualcuno venga a dirmi che l’antisemitismo non c’entra con l’odio verso Israele.
[P.S.: Nei commenti non ho intenzione di reinventare la ruota e quindi mi guarderò bene dal tollerarne che mettano in dubbio il diritto di Israele all’esistenza. Se non conoscete la storia, recuperate qualche testo che racconti come è nato lo stato di Israele: non ho voglia di fare ancora il professorino.]