[Non so se uscirà nei cinema italiani, però qui sotto c'è uno spoiler bello grosso...]
Ieri sera ho “inaugurato” il festival del cinema gaylesbico di Milano andando a vedere l’israeliano Eyes Wide Open, del regista Haim Tabakman, che racconta una storia a suo modo semplice ma lo fa con grande intensità e misura di mezzi.
Ne è protagonista Aaron (Zohar Strauss), macellaio kosher in un quartiere ebraico ultraortodosso di Gerusalemme, che alla morte del padre assume come aiutante il giovane e bell’Ezri (Ran Danker). Ezri cerca riparo nella macelleria in un giorno di pioggia battente e, interrogato da Aaron, dichiara che sta cercando una yeshiva in cui proseguire i suoi studi. Dopo qualche esitazione Aaron gli offre di restare a lavorare da lui e gli mette a disposizione una stanza sopra al negozio. A poco a poco succede quello che, secondo i precetti dell’ultraortodossia ebraica - come, del resto, secondo tutti i fondamentalismi religiosi -, non dovrebbe accadere: Aaron si sente attratto da Ezri, che lo ricambia. Dopo un primo tentativo di “resistere” alla passione incombente - più da parte di Aaron che non di Ezri, a dire il vero -, i due cedono e si abbandonano all’amore. La faccenda non passa del tutto inosservata, per quanto i due siano discreti, e ben presto i “guardiani” della comunità intervengono: in un primo momento rendendo noto il fatto che nel quartiere c’è un “peccatore” e invitando gli altri a boicottare la macelleria, poi minacciando direttamente lo stesso Aaron.
Il film di Tabakman è tutto all’insegna della sottrazione, per così dire. La tragedia c’è, ma è rappresentata con assoluta parsimonia, a partire dagli sguardi che passano tra i vari personaggi e dalle loro espressioni, contenute e dense allo stesso tempo. A dominare tutta la pellicola sono soprattutto le parole che non vengono dette. Nessuno dei protagonisti coinvolti, a partire da Aaron ed Ezri, articola mai la parola “omosessualità” o verbalizza esplicitamente l’attrazione erotica che lega i due uomini. Persino i loro rapporti fisici sono rappresentati con grande ritegno. Rivka (Tinkerbell), la moglie di Aaron, ha capito tutto, ma si guarda bene dal nominare la “cosa”, come se questa fosse un macigno così pesante che è impossibile persino pensare di poterlo spostare anche solo di un centimetro. Ed è forse questo il punto: quel modus vivendi - e l’educazione che ne è alla base - è così pervasivo e totalitario da non lasciare nemmeno spazio all’ipotesi che si possa vivere in maniera diversa.
Tutto questo contribuisce a creare un clima claustrofobico che caratterizza tutto il racconto. L’abilità del regista sta anche nel rendere partecipe lo spettatore di questa claustrofobia e di questo soffocante senso di oppressione facendogli assumere un punto di osservazione interno. Infatti - e me ne sono reso conto solo alla fine - non si vedono altro che ultraortodossi e sembra che tutta Gerusalemme si riduca e si concentri in quell’unico quartiere della città, come se al di fuori di esso (e della sua comunità, con le sue rigide regole) non vi fosse nient’altro. Lo stesso spettatore si ritrova, per la durata del film, in quel microuniverso chiuso e isolato dal resto del mondo.
Aaron mi ha ricordato, per certi versi, l’Asherke del racconto Il mio amato di Yehoshua Bar-Yosef: anche in quel caso il protagonista era un ebreo ortodosso, forse proveniente dallo stesso quartiere di Gerusalemme, che s’innamorava inaspettatamente di un ragazzo. La differenza sta però nel fatto che Asherke è comunque un “intellettuale” e il suo innamoramento è preceduto da una progressiva perdita della fede e di una crescente frequentazione di testi che la mettono in dubbio. Questo non accade con Aaron, che sembra invece incapace - o riluttante - a trasferire lo squarcio emotivo che gli si apre nell’esistenza dal piano dell’esperienza diretta a quello della conoscenza mediata dall’intelletto e, benché sia assolutamente consapevole della portata di ciò che sta vivendo, non sa (o non può o non vuole) compiere il passo decisivo verso la liberazione dalle tradizioni. C’è tuttavia un momento in cui viene a galla la verità che Aaron avverte riguardo a sé stesso. Quando il rabbino gli fa visita nella macelleria, Aaron arriva a dirgli, quasi in tono di sfida, che prima che arrivasse Ezri, lui era morto, mentre ora è vivo. E’ solo un attimo di ribellione, perché alla fine Aaron sceglierà di ricondurre questa metaforica morte a una morte ben più reale, suicidandosi nella fonte dove lui e Ezri erano andati a purificarsi.
[Ezri era già stato cacciato da un'altra yeshivah per analoghi motivi di scandalo e perché respinto dal suo amante haredi]
Non è solo il fatto che "il modus vivendi pervasivo e totalitario" che caratterizza il mondo degli haredim renda non concettualizzabili altri stili di vita o altre possibilità di realizzazione personale al di fuori della comunità di origine. Questo può capitare e capita in qualsiasi comunità chiusa, per motivi di formazione e di educazione, come tu dici.
Per gli haredim la comunità è l'unica realtà, la realtà in cui vivono i non- haredim semplicemente è una non-realtà,un mondo simile alla maja schopenhaueriana: in casi come questi la dimensione della fuga è antropologicamente non ipotizzabile perché mancano al soggetto quei meccanismi mentali che gli permettono di vedere il mondo in cui è immerso come uno solo dei molti mondi possibili. Questo stesso fenomeno avviene in tutte quelle comunità chiuse a base quasi sempre religiosa che creano microcosmi autosufficienti in opposizione alla società generale, che anzi si autodefiniscono in rapporto a essa: hamish, mormoni, mennoniti, in parte i testimoni di geova, e soprattutto la stragrande maggioranza delle comunità islamiche in senso lato che non si sono lasciate nemmeno superficialmente secolarizzare. Non è tanto una questione di credo religioso, quanto piuttosto, in senso antropologico, di mentalità clannica, tribale, di phylum, che spiega perché in tutti questi casi spesso persone che sono tormentate da o perseguitate a causa della loro omosessualità non riescono comunque ad abbandonare la comunità che pure li tormenta e li punisce. Fuori da lì sarebbero letteralmente dei "pesci fuor d'acqua".
Posted by: avi | 25/06/2010 at 13:30
A mio avviso: Ezri è un "grande fingidor". E' più deciso e sicuro di quanto non voglia far credere agli altri. Ed è anche un po' un parassita, in fondo si trasferisce a Gerusalemme perché sì cacciato dalla sua yeshiva (si immagina sempre per comportamenti "impropri"), ma anche perché non vuole rassegnarsi e non accetta il rifiuto del precedente amante che a più riprese continua infatti a "tampinare", a casa del quale forse voleva anche trasferisi. Casualmente si imbatte nel macellaio e subito intuisce che questi potrebbe essere la sua prossima vittima, in quel giorno di improbabile pioggia (chi non ha notato che in realtà il sole spaccava le pietre durante le riprese e la pioggia era fittizia?). Quando realizza però che non c'è più trippa (kosher) per gatti... sacco in spalla e se ne va senza esitazioni.
Sempre a mio avviso: Aaron alla fine non si suicida, perché dovrebbe farlo? Ha fatto pace con la sua mogliettina, le ha giurato che in casa quella "cosa" non l'aveva fatta entrare. Alla fonte ci torna nuovamente proprio per mondarsi dalle sue colpe, ritualmente. L'istinto di conservazione non permetterebbe certo che uno affoghi semplicemente immergendosi nudo in acqua trattenendo il respiro... fosse così semplice! Si sarebbe dovuto dare prima una bella botta alla testa e poi legarsi un masso al piede se voleva affondare per non riemergere più.
Posted by: d. | 25/06/2010 at 21:31
Ma che perfido... Si vede che non credi all'aMMore, quello con la M maiuscola :)
Posted by: stefano | 26/06/2010 at 11:22
Anche io, come d., avevo pensato che - se anche il regista suggerisce poeticamente il suicidio di Aaron - tecnicamente è impossibile. C'è una bella pagina di "The bell jar" in cui Sylvia Plath descive un suo (uno dei vari) tentativo di uccidersi semplicemente lasciandosi affogare al largo della costa di Cape Cod, mi pare. Non ci riesce, semplicemente l'acqua la respinge a galla. Per quanto lei si sforzi di riempirsi i polmoni d'acqua, la forza di reazione automatica del corpo e il principio di Archimede la salvano.
(Detto questo, penso che un regista abbia comunque il diritto di esprimere appunto "poeticamente" un evento anche se la cosa non è realistica).
Posted by: endimione | 26/06/2010 at 14:16
Ho visto questo film circa un mese fa in lingua originale, l'ebraico, lingua che non conosco e certi passaggi sottili mi erano sfuggiti, grazie quindi della recensione.
Proprio in virtù di questa mia visione limitata nella comprensione ho interpretato la scena finale del "suicidio" come l'unico modo di restare legato a un sentimento che proprio in quel luogo aveva iniziato a sciogliere i nodi dell'inibizione.
Posted by: Asa_Ashel | 28/06/2010 at 10:20
Qualsiasi ebreo vedendo la scena finale capirebbe il senso di espiazione e purificazione a cui rimanda: l'immersione totale (quindi con sommersione, la halakha prescrive che nemmeno un capello deve rimanere asciutto) nel mikqweh (il bagno) si fa non solo nei momenti rituali (dopo le mestruazioni e il parto, prima del matrimonio...) ma anche tutte le volte che si vuole manifestare un segno di pentimento per le proprie azioni e di ritorno alla retta via (teshuvah).
Posted by: avi | 01/07/2010 at 15:45
Eh, ma per gli altri resta una certa ambiguità: voluta o non voluta, chissà, bisognerebbe chiedere al regista...
Posted by: stefano | 01/07/2010 at 18:08