Due recentissimi e tragici episodi di cronaca mi hanno ispirato una riflessione. Il primo è accaduto a Padova: due ragazzi gay, fidanzati, sono stati aggrediti e pestati mentre passeggiavano in centro, abbracciati. L’aggressione è stata accompagnata da una serie di insulti omofobici. Il secondo è avvenuto a Melegnano, in provincia di Milano: un uomo marocchino ha picchiato la moglie incinta, davanti agli altri figli piccoli, perché si rifiutava di indossare il velo quando usciva di casa e in questo modo ledeva il “suo” onore (ma dall’articolo non capisco se s’intenda l’onore dell’uomo o della donna). In nessuno dei due episodi c’è scappato il morto, per fortuna.
Io credo invece che, in entrambi i casi, l’omofobia e la religione debbano pesare in maniera specifica nella punizione di un reato, in modo che questi atti criminosi vengano disincentivati. Non è detto naturalmente che funzioni, perché chi commette un reato pensa solitamente che lui e solo lui la farà franca, ma a questo punto tanto varrebbe abolire il codice penale. L’aggravante dovrebbe valere per tutte le religioni, poi sarà la realtà dei fatti a rendere palese quale tra le religioni è quella che più facilmente fa ricorso alla violenza per far valere i suoi princìpi: non si può dire che vi sia un pregiudizio a monte.
Qualcuno infatti potrebbe obiettare che non sempre una religione dà origine ad atti criminosi. Questo è vero, ma è anche vero che molti omofobi, pur essendo spregevolmente tali, non passano alle vie di fatto e si limitano a coltivare un disprezzo privato per gli omosessuali: l’omofobia dovrebbe quindi essere punita solo se dà origine a fatti penalmente rilevanti.
Una strada razionale e tale da garantire la libertà del pensiero, perché distingue il pensiero - sia pure abominevole - dall'istigazione ad agire e dall'azione.
Una strada equanime, perchè non discrimina un credo o una convinzione morale (o sessuale, se così si può dire) a vantaggio di altre.
Una strada già suggerita da numerosi giuristi, e dalle meno facinorose o vili tra le personalità politiche.
Nondimeno, o forse per questo, difficilmente verrà seguita.
Ma bisogna insistere contro l'ottusità che tutto confonde, contro il buio della superstizione e del pregiudizio, con la "dolce violenza" (Brecht) dell'arma della ragione.
OT: ha letto l'editoriale di Barbara Spinelli sulla STAMPA di oggi?
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=40
Cosa ne pensa?
Posted by: Hans | 13/06/2010 at 13:02
Sul pezzo di Spinelli: no comment.
Posted by: stefano | 13/06/2010 at 13:08
Hans... va bene il chi tace acconsente? (vero che acconsente a sposarmi?)...
Poniamoci come unica condizione che Stefano faccia da testimone! E' irrestiibile una intelligenza come la sua, acuta e partigiana, onesta all'estremo, fino a pubblicare ogni commento, compreso un link indigesto, certo "fuori tema" ...e cavarsela con un no comment.
(Stefano, lo so che hai abbondatemente argomentato le tue posizioni).
Un abbraccio a Stefano e uno a lei,
vito
Posted by: vito | 13/06/2010 at 17:13
Avevo naturalmente letto gli interventi di Stefano sugli ultimi fatti di Israele, e l'acceso dibattito che ne era seguito, e poi nuovamente il suo punto di vista riepilogativo.
Non avevo avuto modo di intervenire a mia volta, perché in quei giorni ero totalmente assorbito da questioni di lavoro, e non avrei potuto scrivere, su una questione così complessa, che due righe generiche e sciocche fra tante osservazioni ragionate degli interlocutori.
Tanto premesso, nella mia stupidità non credevo che l'articolo di Spinelli potesse risultare indigesto. Mi sembrava anzi che allargasse lo sguardo per cogliere o sottolineare connessioni offuscate dalle recenti tragiche contingenze, terribili rischi, possibili aperture di prospettiva per uscire dal vicolo in cui sono - siamo - stretti.
Ma l'ospitalità autentica di Stefano, anche nella polemica e nell'ira, non conosce smentita.
Per me, lo chiamerei a testimone non solo del matrimonio con lei, Vito, ma delle mie confidenze e confessioni e tormenti e gioie e dubbi più segreti. Il che significa che Stefano sarebbe un suo pericoloso concorrente nel mio cuore. (inserire l'emoticon che più si preferisce)
Ehm, qui sono anche più OT di prima! Scuserete anche l'emotività non cotrollata, in parte spiegabile col fatto che conosco personalmente uno dei due giovanotti padovani aggrediti, e sono tuttora molto turbato.
Posted by: Hans | 13/06/2010 at 20:15
Ecco, bravi, non andiamo OT :)
Posted by: stefano | 13/06/2010 at 20:56
Il problema è proprio impostato male.
Ti picchio e "mi giustifico" dicendo che sei un viscido verme e mi prendo X anni. Ti picchio e "mi giustifico" dicendo che sei un frocio di merda e mi prendo X + Y anni. Tanto vale picchiarti senza addurre giustificazioni, allora. Il problema è che ti ho picchiato, non che ti ho picchiato perché sei un viscido verme e/o un frocio di merda. La motivazione è un mero pretesto. Per altro, non capisco perché prendere X + Y anni invece che X dovrebbe disincentivarmi dal picchiarti; se ti picchio lo faccio a prescindere, non certo dopo aver calcolato se vale la pena rischiare X oppure X + Y anni di galera.
Si vogliono disincentivare davvero i picchiatori? Polizia e carabinieri dimostrino con i fatti che nel 90% dei casi non la fanno franca. Il problema è l'"immunità" percepita nei fatti; aumentare pene teoriche è soltanto patetico. Resta poi il problema di diffondere una cultura del rispetto e della tolleranza, etc., ma quello è un altro (pio) discorso che non esclude le considerazioni appena fatte - tanto più che i violenti sono sempre esistiti e sempre esisteranno, e qualche scusa per picchiare se la inventeranno comunque.
Posted by: Piccolo Josip | 14/06/2010 at 12:59
A mio avviso, Piccolo Josip unisce insieme tre problemi diversi: un’efficace repressione, un’efficace prevenzione, un’efficace promozione.
La soluzione proposta da Stefano può apparire insoddisfacente a una considerazione globale del fenomeno.
Ma se si isola il profilo repressivo (frutto peraltro di una visione dei rapporti umani e sociali che non dovrebbe mancare di riflettersi nella percezione collettiva), il problema non mi sembra affatto male impostato.
Non capisco poi Piccolo Josip quando scrive che “la motivazione è solo un pretesto”. Forse che i due giovanotti padovani sarebbero stati aggrediti ugualmente, se si fossero appalesati quali ultrà sciupafemmine?
Il problema delle pene che non rimangano scritte sulla carta, avanzato da Piccolo Josip, è vero e serio, ma riguarda tutti i reati, non solo quelli dovuti all’omofobia; e li riguarda da sempre, se ricordiamo le grida manzoniane.
Sgombrato il campo da questioni importanti ma impertinenti, il punto resta dunque quello avanzato da Stefano.
E’ opportuna la previsione di una specifica aggravante di repulsione omofoba o di preteso adempimento di un principio o dovere religioso (raccolgo qui il suggerimento di Stefano)?
Il nostro codice contiene una previsione generale in tema di motivi dell’agire criminoso: i motivi abietti (il disprezzo per il clochard malmenato) o futili (l’autista picchiato perché ha suonato il clacson) comportano un aggravio di pena (art. 61 c.p.), mentre i motivi di particolare valore morale o sociale (rubare una fila di pane per sfamare il figlioletto, uccidere il padre sistematicamente violento) comportano uno sconto di pena.
Vi sono poi alcune previsioni specifiche circa talune motivazioni o modalità dell’azione, che hanno lo scopo di evitare al giudice ogni discrezionalità nel giudizio (se quella motivazione o modalità viene accertata, il giudice non potrà valutare se rientri oppure no nell'aggravante comune; la valutazione di particolare gravità è stata fatta una volta per tutte dal legislatore, e il giudice dovrà solo trarne le conseguenze applicative), e talora quello di prevedere un aumento di pena particolarmente pesante: così, la premeditazione, l’aver agito contro un ascendente o un discendente, l’aver usato mezzi insidiosi sono tutte aggravanti specifiche dell’omicidio. Analogamente, la cosiddetta legge Mancino (d.l. 122/1993 convertito con l. 205/1993) prevede la specifica aggravante dell’odio etnico, nazionale, razziale o religioso.
Orbene, la questione è se bisogna colpire con il medesimo stigma anche l’azione criminosa dettata da ripulsione per l’orientamento sessuale di una persona, o dal preteso adempimento di un principio o dovere religioso. Il crimine omofobo è tanto riprovevole quanto quello xenofobo, o quello dettato dall’odio per una religione?
Piccolo Josip avanza anche un’altra obiezione: “non capisco perché prendere X + Y anni invece che X dovrebbe disincentivarmi dal picchiarti; se ti picchio lo faccio a prescindere”. E un’affermazione interessante, che risponde forse a una nobile concezione tolstojana. Ma la conseguenza coerente di una tale affermazione è l’abolizione del codice penale: perché, ferma restando la certezza della pena, anche immaginando di punire solo con X anni anziché con X + Y si potrebbe dire che la minaccia di X anni di galera non è un deterrente sufficiente per chi voglia agire: se ti picchio lo faccio a prescindere.
Ci sentiamo pronti per una soluzione del genere?
Posted by: Hans | 14/06/2010 at 14:35
Scusate,
"E' un’affermazione interessante",
ovviamente, e non
"E un’affermazione interessante".
La nemesi degli insegnanti: errare laddove hanno perseguitato i propri studenti.
Posted by: Hans | 14/06/2010 at 17:54
http://corrieredelveneto.corriere.it/padova/notizie/cronaca/2010/14-giugno-2010/pestati-perche-gay-individuato-aggressore-ultra-padova-1703198805864.shtml
"Nella sua ricostruzione, avrebbe dichiarato di non essere stato mosso da un sentimento di omofobia, ma da una generica aggressività nei confronti di quelli che lui, annebbiato dall’alcol, individuava come avversari politici, essendo stato in passato militante dell’ultra destra padovana." Dunque direi di sì: stando all'aggressore (e chi meglio di lui può illustrarci le proprie intime ragioni?) i due giovanotti padovani sarebbero stati aggrediti ugualmente, se si fossero appalesati quali ultrà sciupafemmine (comunisti).
La funzione della legge non è quella di prevenire i reati incutendo timore (gisù!...) ma quella di prevedere sanzioni. Se così non fosse, basterebbe mettere l'ergastolo di default per qualsiasi reato per spaventare pavidi trasgressori. Tuttavia, per fare due esempi, la pena di morte non ha mai fermato gli assassini (né ne ha ridotto il numero) e nemmeno il carcere duro ha fatto fare giacomo giacomo alle gambe dei mafiosi. Chi commette un reato lo fa perché è disposto a correre il rischio di farsi beccare e di andare in carcere, anno più, anno meno. Anzi, aggiungerei che spesso, per ignoranza o incoscienza, non si pone proprio il problema della gravità della sanzione.
Non si capisce poi perché picchiare un gay sia più o meno abietto di picchiare un marocchino o un comunista: è abietto picchiare indipendentemente da chi e dall perché. Nel caso di Padova, come si fa a dimostrare che l'aggressore ha picchiato i ragazzi perché gay o perché comunisti? Come si fa a decidere oggettivamente quali motivazioni ideologiche siano più gravi? Picchiare per antipatia è meglio che picchiare per spleen? Per picchiare senza aggravanti bisogna scegliere maschi etero, possibilmente cattolici? Picchiare una lesbica (perché lesbica) è più grave rispetto a picchiare una ragazza etero? Mi pare un modo particolarmente ingenuo di gettarsi in un ginepraio senza uscita logica.
Posted by: Piccolo Josip | 14/06/2010 at 19:53
* dal perché
Posted by: Piccolo Josip | 14/06/2010 at 19:55
Poiché devo essermi spiegato assai male, provo a partire dalle rinnovate obiezioni di Piccolo Josip.
Le parole con cui l’aggressore illustra e spiega i propri atti non sono Vangelo. Certo, uno stato psicologico non può mai essere svelato con assoluta verità.
Solo l’autore di un atto può spiegarne il più intimo movente, dice Piccolo Josip.
Già un romanziere avrebbe qualche dubbio in merito; in un processo, affidarsi alle parole dell’agente per comprendere il movente dell’atto condurrebbe alla singolare conseguenza di rimettere la punizione del reo all’arbitrio del reo medesimo. Non proprio il massimo, spero che Piccolo Josip ne convenga.
L’ordinamento impone di provare le proprie affermazioni. La prova di un’intenzione non può consistere in una pura asserzione. Se all’episodio di Padova avessero assistito dei testimoni, e se questi avessero udito insulti omofobi dagli aggressori, ecco che un comportamento farebbe luce su un’intenzione.
E’ chiara la linea difensiva dell’aggressore: evitare che il proprio atto venga attribuito ad abietti motivi (qualche sentenza in tal senso non manca; l’ho già scritto e non mi ripeto). Sta ovviamente all’accusa provare una specifica motivazione, diversa da quella genericamente aggressiva avanzata dall’aggressore. Senza volermi sostituire al pubblico accusatore, trovo alquanto periclitante l’affermazione di chi avrebbe individuato nelle sue vittime degli avversari politici per il loro abbigliamento, senza riconoscerli come gay nonostante il loro atteggiamento affettuoso.
Come si vede, quello avanzato da Piccolo Josip è un problema che inerisce alla prova di una situazione psicologica. Tema assai problematico, ma ineludibile se si voglia ancora distinguere in gravità anche soltanto il comportamento doloso da quello colposo, e impossibile a risolversi consegnando il giudizio alla gratuita asserzione dell’imputato (a meno di non avviarsi a una rifondazione oserei dire ‘berlusconiana’ del processo penale: sono innocente perché lo dico io, nonostante le prove in contrario prodotte dall’accusa).
Quanto all’idea che funzione della legge non sia di prevenire i reati incutendo timore ma di prevedere sanzioni, sarebbe utile capire a quale scopo allora la legge minaccerebbe sanzioni per questo e per quell’altro comportamento.
Forse per simulare l’immenso e cieco potere della divinità, che punisce a casaccio per il gusto di esibire il proprio incontrastato dominio sulle vite degli umani?
Tuttavia non si spiegherebbero, a questa stregua, i numerosi limiti e controlli imposti al potere punitivo dello Stato dalla Costituzione e dalle stesse leggi, e tra gli altri limiti l’impossibilità di punire retroattivamente.
Sembra invece, anche nell’analisi degli intelletti più ostili alla potestà punitiva dello Stato, che finalità delle sanzioni minacciate dalla legge sia quella di prevenire la violazione delle regole. I giuristi che amano parlar difficile la chiamano funzione preventiva.
Diversa è la questione, pure avanzata da Piccolo Josip, della differenziazione delle sanzioni. Un tema importante e delicato, che tuttavia non pregiudica la finalità generalmente preventiva delle stesse.
Stando al suo argomento, sembra che per Piccolo Josip il furto e l’omicidio potrebbero (o dovrebbero?) essere puniti nell’identico modo, purché fossero puniti immancabilmente. Qui, ancora una volta l’interlocutore mette insieme due questioni distinte: la certezza delle pene e la loro differenziazione.
Sul tema della certezza della pena, gravissima o lieve che sia, non torno perché è l’unico sul quale sono d’accordo con Piccolo Josip. Ho già citato le grida manzoniane, e non aggiungo altro, se non che detto tema è sottostante (il calcolo costi-benefici che si compie prima di avventurarsi in un illecito), ma non decisivo rispetto a tutti gli altri toccati.
Per quanto attiene alla differenziazione delle pene, entra in gioco l’altra finalità riconosciuta alle sanzioni, quella retributiva.
Essa intende rispecchiare, come accennavo nel precedente intervento, lo schema di valori a cui una società si richiama, e la loro gerarchia.
Un ordinamento che punisca più severamente il furto di un chilo di albicocche rispetto a un white collars crime esprime una visione dei rapporti sociali – qualcuno direbbe “di classe”; un ordinamento che punisca un furto identicamente all’omicidio esprime una visione dei rapporti tra gli uomini e tra questi e le cose; una visione che mi fa paura, perché mette la vita sullo stesso piano della roba (come per quel Mazzarò che valutava la vita della propria madre con il costo del suo funerale), ma che forse sarebbe gradita a Piccolo Josip nella sua ansia di far dipendere ogni conclusione su qualsivoglia argomento dalla certezza della pena.
Questione ancora diversa è quella della pena di morte, che Piccolo Josip introduce incidentalmente, non so quanto intenzionalmente.
Essa può essere affrontata seguendo tre chiavi interpretative: quella di una pura retribuzione (chi ha tolto la vita deve pagare con la vita); quella dell’efficacia deterrente (come mostrano le statistiche, la minaccia della sanzione estrema non sembra avere più efficacia deterrente dell’ergastolo); quella etica (non si può strappare la vita neppure a un assassino).
Non mi addentro nel vertiginoso dibattito, limitandomi a notare che contestare la pena di morte facendo leva sul suo dubbio potere deterrente rispetto all’ergastolo, implica aver accettato l’idea che la previsione delle sanzioni ha finalità preventiva, ossia intende dissuadere i consociati dal tenere determinati comportamenti.
Infine, la questione della rilevanza dei motivi.
Su questo punto, non mi pare che le obiezioni di Piccolo Josip siano decisive.
“Non si capisce poi perché picchiare un gay sia più o meno abietto di picchiare un marocchino o un comunista”. Innanzitutto la motivazione etnica è già prevista come aggravante speciale e a effetto speciale dalla citata legge Mancino. Non lo è quella politica. Ma questo argomento è inconsistente rispetto alla questione da cui il dibattito è nato: costituisce un motivo particolarmente ripugnante la repulsione omofoba? Piccolo Josip risponde polemicamente che anche l’odio politico meriterebbe uguale attenzione, o usa l’argomento in modo retorico, per concludere che i motivi dell’atto dovrebbero essere sempre irrilevanti?
Nel primo caso, la cosa resta da discutere. Nel secondo, dico solo che l’ordinamento già smentisce ampiamente tale posizione. La stessa differenziazione tra dolo e colpa riposa su una distinzione dell’elemento intenzionale del reato; per non dire dei motivi abietti, futili, o dal particolare valore morale o sociale su cui ho già scritto.
Uccidere è uccidere, ma altro è uccidere dolosamente, altro colposamente; altro per derubare, altro per sfuggire al proprio persecutore, altro ancora per negare assolutamente l’identità altrui sopprimendone l’esistenza.
Piccolo Josip pone estremi interrogativi, questi certamente retorici. Infatti agire “per antipatia”, o “per spleen” come Meursault, è certamente agire per motivi futili (aggravante comune). La sua preoccupazione sarebbe dunque fuori luogo, se fosse autentica.
Picchiare per odio verso i cattolici? C’è l’aggravante della legge Mancino, proprio quell'aggravante che si basa sui motivi dell'agire e non piace a Piccolo Josip, la quale non punisce solo chi sia motivato dall’odio per il musulmano, ma chi agisce per “odio religioso”. Le leggi, benché tremendamente imperfette, sono talvolta più ragionevoli di certi contraddittóri.
Picchiare una persona perché etero? Sarà l’accusa a dover dimostrare un simile assunto, naturalmente (così come deve provare l'odio omofobo; spero che il punto sia chiaro).
La fantasia perversa di qualche etero può anche immaginare un mondo popolato di gay e lesbiche pronti a menar le mani per negargli la propria eterosessualità; al di là del carattere allucinatorio che tale fantasia oggi assume, mentre non è affatto allucinatoria la visione a essa speculare, certo l’odio attivo (nel senso che spinge all’azione criminosa) per l’eterosessualità non dovrebbe essere trattato diversamente da quello omofobo.
Il guaio di certe posizioni dialettiche è che esse non fanno i conti con la realtà, e realizzano puri sofismi attingendo illazioni gorgiane.
P.S. Mi rendo conto dell’insoffribile lunghezza e pesantezza di questo intervento. Ci ho lavorato a lungo, ma non sono riuscito a snellirlo più di tanto (inizialmente, occupava in word due fogli in più). Chiedo a Stefano la cortesia di inoltrarlo privatamente a Piccolo Josip, se riterrà improponibile - come immagino - una sua pubblicazione.
Posted by: Hans | 15/06/2010 at 02:21
Non è tanto il potere deterrente, ma che occorre sanzionare forme di intolleranza come razzismo e omofobia, specificandone il disvalore sociale. Perchè secondo voi sapientoni sarebbe aggravato il delitto motivato da odio razziale? non perchè picchiare un marocchino o un senegalese sia più grave PER SE che picchiare un bianco, ma perchè è la motivazione abietta che si vuol stigmatizzare.
Posted by: Angelo Ventura | 15/06/2010 at 13:52
Il crimine omofobo E' tanto riprovevole quanto quello xenofobo, o quello dettato dall’odio per una religione
Senza punto di domanda
Posted by: Angelo Ventura | 15/06/2010 at 13:53
Hans, mi attribuisci alcune cose che non ho detto. Replicherò con encomiabile brevità.
"Solo l’autore di un atto può spiegarne il più intimo movente, dice Piccolo Josip."
Io non ho detto "solo", ma "e chi meglio di lui può illustrarci le proprie intime ragioni?". Tu 1) dai per scontata la malafede nella difesa dell'aggressore; 2) crei e non risolvi il problema di capire le sue "vere" intenzioni; 3) non consideri la possibile genericità / metaforicità degli insulti.
La legge minaccia sanzioni che impediscano almeno temporaneamente il reiterarsi del reato, tipo il cartellino rosso nel calcio. Se fai un fallo, sai che potrai essere punito e corri il rischio di essere ammonito. Se commetti un reato, sai che ti possono beccare e che pagherai per ciò che hai fatto. Mentre sei in gattabuja non fai danni (almeno di spera).
"Stando al suo argomento, sembra che per Piccolo Josip il furto e l’omicidio potrebbero (o dovrebbero?) essere puniti nell’identico modo, purché fossero puniti immancabilmente." Non l'ho proprio mai detto. Ogni reato deve essere punito; l'entità della punizione è stabilita dalla legge basandosi sull'entità del danno. Se ti procuro tanto danno, mi punisci tanto; se ti procuro poco danno, mi punisci poco.
"Contestare la pena di morte facendo leva sul suo dubbio potere deterrente rispetto all’ergastolo, implica aver accettato l’idea che la previsione delle sanzioni ha finalità preventiva". Sì e no. No, non ho contestato (o difeso) la pena di morte. Sì, l'ho addotta come esempio di spauracchio ma per confutare (e non perché ho accettato) la sua finalità preventiva.
"Piccolo Josip risponde polemicamente che anche l’odio politico meriterebbe uguale attenzione, o usa l’argomento in modo retorico, per concludere che i motivi dell’atto dovrebbero essere sempre irrilevanti?" La seconda. L'attribuzione arbitraria di un'aggravante non cambia la natura del fatto, e le persone vanno punite per ciò che fanno, non per ciò che pensano. Tanto più se la stessa aggravante è a suo modo discriminatoria (perché i gay sì e i comunisti no?).
E infine, per Angelo Ventura: mi spieghi perché se ti picchio "perché sei un viscido verme, un infame e un figlio di troia" (motivi genericamente personali) è meno abietto che se ti picchio "perché sei un rottinculo frocio" (motivo omofobo)? È più abietto odiare la razza o l'orientamento sessuale invece che la persona? Ci vuole un bel coraggio a sostenere questa tesi. Come già dicevo, ciò che è abietto non è l'odio (almeno finché rimane una libera opinione) ma il passare alle mani o a pratiche discriminatorie.
Posted by: Piccolo Josip | 17/06/2010 at 11:45
Dalle parole di Piccolo Josip emerge il suo insistente compiacimento nell'ignorare la vasta problematica dell'onere della prova e dei criteri di attendibilità e ragionevolezza delle deduzioni affidate dalla legge all'apprezzamento del giudice.
Uno dei temi più delicati e drammatici di tutto il diritto. Pazienza, non si è obbligati a conoscerlo; ma neppure è stato il medico a ordinare di parlarne senza informarsi.
Provare uno stato psicologico è problema antico quanto il diritto stesso; Josip non vorrà credre di essere stato il primo a segnalarlo.
Cionondimeno, da almeno tremila anni le civiltà hanno accettato l’idea della deducibilità di uno stato psicologico da elementi obiettivi; si cerca di perfezionarne, di correggerne, di migliorarne la dogmatica e la disciplina, ma finché l'intenzione dell'agente sarà considerata rilevante nella valutazione del suo comportamento non potremo liberarcene con una scrollata di spalle.
Ometto di contestare sofismi come quello per cui affermare "chi meglio di lui può illustrarci le intime ragioni?" è cosa diversa dall'affermare che "solo l’autore di un atto può spiegarne il più intimo movente"; tanto diversa, anzi, da mutare il fuoco del dibattito.
La domanda, che si voglia leggere con volontà di capire o di litigare, resta la stessa: dobbiamo prendere per oro colato le parole di chiunque, oppure dovremo soppesarne la credibilità?
Ometto anche di contestare insinuazioni come quella per cui sarei animato da pregiudiziale sospetto circa le intenzioni dell’aggressore, quando ho scritto - credo in lingua italiana - che è l'accusa a dover dimostrare l'intenzione omofoba dell'aggressione; limitandomi per il resto a ritenere singolarmente debole una giustificazione non richiesta (appunto perché è l’accusa che deve provare l’intento omofobo, e non basta di certo l’affermazione in tal senso della persona offesa; altro che sospettare di mala fede una delle parti in causa in favore dell’altra!) e argomentata in modo alquanto bislacco.
Ci sarebbero anche altre cose da precisare, ma siccome so di non poter emulare l'encomiabile brevità di Piccolo Josip, tenterò almeno di sostituirvi una meno encomiabile pertinenza al tema.
Se si accetta l'idea che le sanzioni abbiano funzione preventiva - Josip lo nega nel suo secondo intervento (“La funzione della legge non è quella di prevenire i reati incutendo timore ma quella di prevedere sanzioni”) mentre nel terzo tira fuori dal cilindro la funzione di neutralizzare il reo (finalità ESCLUSA dalla nostra Costituzione, alla faccia di Piccolo Josip, mentre quella preventiva è implicata in ogni ordinamento, a ogni latitudine altezza o abisso del pianeta, come dimostra una volta per tutte, ma credevo d'averlo già chiarito, il principio di irretroattività) - e si accetta l'idea che determinati comportamenti aggressivi siano particolarmente riprovevoli, si accetta l'idea di colpire quei comportamenti con sanzioni specialmente gravi: ciò in base a un principio retributivo della pena, che si accompagna alla sua funzione preventiva con inevitabili contrasti e punti di torsione tra i due principi.
Un esempio di tali punti della croce è rappresentato dalla pena di morte; esso andrà risolto tagliando il nodo gordiano sulla base di un’istanza di ordine diverso (in genere, etica o funzionale o economica). Ma la pena di morte fa parte di un altro capitolo, e quindi procedo oltre.
Dunque, accettando i principi di prevenzione e di retribuzione si accetta anche l’idea di una graduazione della pena. D'altra parte, accettando che anche la motivazione dell’agire entri nella sua valutazione si accetta che la graduazione della pena possa dipendere anche dai motivi dell’agire.
Non è obbligatorio, per l’individuo, seguire detti princìpi: il grande Leone Tolstoj li riconobbe inutili, nell’ultima fase della sua vita e della sua opera (“La morte di Ivan Iljc”, “Resurrezione”), di fronte alla superiore necessità di una palingenesi interiore, unica in grado di offrire speranza all’umanità, e rispetto alla quale la sanzione sociale sarebbe del tutto inconferente.
Dostojevskj si era collocato su posizioni opposte: solo la sanzione accettata sul piano non solo interiore ma sociale, ritualmente certificato dal gruppo, può determinare il riscatto etico del colpevole.
Comunque, gli ordinamenti giuridici accettano tali princìpi; distinguendo i reati non solo in base alla gravità del danno, come Piccolo Josip opina, ma anche in base alla gravità dell’intenzione; richiamarsi solo alla prima distinzione (“l'entità della punizione è stabilita dalla legge basandosi sull'entità del danno”), è incompleto, e incompleto in modo imbarazzante: significa ignorare la distinzione tra dolo e colpa (elaborata compiutamente da quei postmoderni dei giuristi romani, ma le cui tracce nelle civiltà giuridiche antiche sono ancor più risalenti, sino al Codice di Hammurabi), e quella tra dolo e preterintenzione, e quella tra dolo eventuale e dolo diretto, e quella tra delitto semplicemente doloso e delitto premeditato: tutte ipotesi in cui uno stesso fatto materiale (ad esempio, l’uccisione di un uomo) viene punito diversamente a seconda dell’elemento intenzionale ricollegatovi.
Sembrerà strano a Piccolo Josip, ma l’uccisione di un uomo può comportare, a seconda dell’intenzione dell’omicida, l’ergastolo o sei mesi di reclusione. Ohibò! A parità di danno (una vita distrutta), pene così diverse? Sì.
Tornando al nostro specifico orizzonte, determinati moventi sono considerati particolarmente gravi, tali perciò da suggerire una sanzione più grave a carico di chi li ponga alla base di condotte delittuose.
A questo punto, il problema è quello – argutamente agitato da Piccolo Josip nel primo intervento – di decidere quali motivazioni meritino una specialmente gravosa considerazione.
Problema distinto, lo ripeto ad nauseam poiché ripeterlo ad abundantiam non è stato sufficiente, da quello della prova di tale motivazione.
Quando è accettabile che l’aggressione contro X venga punita più severamente di un’aggressione ugualmente dannosa contro Y?
Teniamo presente che si tratta di questione tra le più delicate, perché chiama in causa l’uguaglianza dei cittadini (delle vittime e degli aggressori) di fronte alla legge.
La dogmatica penalistica ha elaborato dei criteri per orientarsi; si noti che sulla funzione e la graduazione della pena sono state scritte intere biblioteche da filosofi, moralisti, giuristi, sociologi, economisti, pennivendoli e furfanti; per un primo approccio, consiglio i manuali istituzionali di Mantovani – molto tradizionale e per certi versi superato, ma un chiarissimo punto di partenza – e di Fiandaca e Musco - agguerrito e radicale, non sempre trasparente nell’incedere. Per una visione più approfondita e complessa, consiglio “Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale” del grande Luigi Ferrajoli, lettura straordinariamente impegnativa ed eccitante.
Un primo criterio è il seguente: intenti che presentano nella contingenza storica una preoccupante frequenza e/o diffusività sociale, tale da indurre il legislatore a scoraggiarli con maggiore severità (in nome di quella funzione preventiva pervicacemente negata da Piccolo Josip, ma che riemerge a ogni piè sospinto).
Un secondo criterio è il seguente: si può punire più gravemente quando l’intenzione delittuosa indichi una maggiore affezione del reo al crimine, segnalando una sua più marcata sordità ai valori della convivenza civile. E’ il caso della premeditazione.
Un terzo criterio è il seguente: si può punire più gravemente quando l’intenzione delittuosa sia frutto di una mentalità che l’ordinamento intende stigmatizzare, di cui teme il diffondersi, e che vuole concorrere a estirpare per quanto le compete.
Faccio un esempio storico, così da mettere tutti d’accordo. Nel nostro ordinamento era prevista (art. 587 c.p.) un’attenuante per i delitti di sangue, quando fossero commessi da un marito nel discoprire "l'illegittima relazione carnale del coniuge" e motivati "dallo stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo".
Tali delitti non erano tanto frequenti quanto il successo di “Divorzio all’italiana” ha indotto a credere; tuttavia, il legislatore ha deciso di cancellare l’attenuante in quanto essa esprimeva una mentalità maschilista da cui ha voluto affrancarsi, prima di esservi costretto dalla Corte Costituzionale, anche per indicare alla comunità un solco di piena parità dei coniugi nel rapporto matrimoniale e nel vincolo di fedeltà da esso derivante.
Qui emerge una concezione non solo repressiva, ma promozionale del diritto penale.
E’ una concezione che ha trovato illustri avversari della scuola liberale classica, ispirata a una concezione rigorosamente retribuzionista della pena.
Più tardi, nella seconda metà del Novecento, nuovi timori da parte di giuristi che hanno paventato un uso distorto, ideologico del diritto penale, al fine cioè di promuovere determinate concezioni sociali sulla punta della spada. E’ una nobile preoccupazione, memore della terribile distorsione degli scopi del diritto penale verificatasi negli Stati totalitari.
Eppure, è un’apprensione troppo candida o troppo confusa dalla propria virtù: nella stessa graduazione delle pene, il legislatore profila, quanto meno “in negativo”, una scala di valori alla quale sollecita i consociati ad adeguarsi.
Punire un omicidio più di un furto, si dice, dipende dalla diversa gravità dei due fatti. Sì, ma ove è fissata la distinzione tra la gravità dei due fatti? La graduazione delle pene rinvia a un non detto sottostante all’architettura punitiva.
Anziché negare che tale basamento vi sia, conviene riconoscerlo e portarlo alla luce, per discuterlo e affrontarne i nodi, i punti di forza, le debolezze, le contraddizioni, le opacità, le ipocrisie (su ciò ha condotto un’opera di disvelamento radicale il genio di Michel Foucault: “Teorie e istituzioni penali”, “Bisogna difendere la società”, “Gli anormali”).
Dunque, non solo il diritto civile ma pure il diritto penale è promotore di una visione dei rapporti sociali e interpersonali.
Esempio: aggravare la pena per l’offesa a pubblico ufficiale è frutto di una precisa scelta legislativa, a sua volta riposante in una concezione dei rapporti fra cittadino e autorità.
Esempio: l’odio etnico è cosa ripugnante, per i valori costituzionali che tuttora reggono il nostro Stato e per i princìpi della cultura occidentale figli dell’egalité dell’Ottantanove. Dunque, di fronte a una società che manifesta orribili tracce della repulsione xenofoba è il caso di riaffermare, simbolicamente e concretamente, il più netto rifiuto che la nostra civiltà giuridica oppone a tali incombenti segnali? La risposta che il nostro legislatore ha dato è stata positiva.
E se l’atto fosse dettato in odio al credo religioso di un individuo, sfregiando così insieme alla vita di un uomo anche la prima di tutte le libertà dell’uomo moderno, la libertà di professare liberamente, al riparo da odi e ritorsioni, una fede qualsivoglia e fors’anche nessuna fede?
Anche qui il legislatore ha valutato di dare un segnale di rifiuto radicale di quella logica omicida.
E se l’atto fosse motivato dall’odio e dal pregiudizio antico verso una minoranza sessuale?
Ecco, questo è il nostro punto.
E se, ventila Josip, l’atto fosse motivato dall’odio verso le persone, chessò, con i capelli rossi? La risposta dovrebbe essere la medesima, risponderebbero indubbiamente tutte le persone ragionevoli.
Ma c’è una differenza evidentissima tra i due casi. Salvo qualche pazzoide, non si registrano atti di violenza motivati dal colore dei capelli della vittima. Si registra invece un discreto numero, relativamente piccolo ma crescente, di atti motivati dall’odio nei confronti di minoranze sessuali storicamente già discriminate e talvolta perseguitate.
L’ordinamento potrebbe reagire con un netto rifiuto a tali gesti, segnando in tal modo alla società anche una direzione (oltre che una punizione).
Ecco, Josip e tanti altri dicono di no; meglio di no.
Ma il loro argomento è astrattamente dialettico, non tiene conto dei dati di realtà. Nel nostro caso, i dati di realtà ci dicono che, al di sotto d'una crosta di tolleranza consumistica e di vanitoso e circense protagonismo di qualche trista macchietta in cerca di personale fortuna, il pregiudizio omofobo è ancora dominante, e l’odio omofobo è ancora diffuso, ancora agita le menti e le braccia di apprezzabili masse di facinorosi. O non vive Josip nel mondo, e non se ne rende conto?
E’ il tema avanzato da Stefano, il quale è un autentico garantista e si preoccupa di distinguere il pensiero – per quanto abominevole – dall’azione; è il tema bruscamente richiamato da
Angelo Ventura: “occorre sanzionare forme di intolleranza come razzismo e omofobia, SPECIFICANDONE IL DISVALORE SOCIALE”. Non perché aggredire per odio verso i capelli rossi non sarebbe meno orribile; ma perché l’attuale contingenza storica ci parla della violenza omofoba, non di quella verso le persone con i capelli rossi.
La generica aggressività personale (“ti picchio perché sei un verme”) è certamente riprovevole, e contro di essa l’ordinamento alza le sue difese; ma difese più forti vanno erette contro l’odio frutto di pregiudizi antichi e persecutòrii, quando esso nutra il braccio di qualche assetato di purezza.
Non è un caso che gli oppositori all’estensione della legge Mancino agitino l’argomento vano della repressione della libertà di pensiero; l’argomento è vano perché l’aggravante sarebbe collegata a un fatto violento (non alla semplice manifestazione del pensiero), e la sua ricorrenza dovrebbe in ogni caso essere dimostrata.
In realtà, essi non vogliono che l’omofobia venga specificamente ed esplicitamente (cioè oltre l'aggravante comune dei motivi abietti eventualmente riconosciuta da un singolo giudice) stigmatizzata dall’ordinamento. Perché sono difensori dell’omofobia, non della libertà di pensiero: infatti invocano la censura un giorno sì e l’altro pure, di fronte all’espressione di pensieri a loro sgraditi. Sono uomini troppo piccoli perché qui se ne ripetano i nomi, ma li conosciamo tutti.
Vale per questo intervento, a più forte ragione, la stessa clausola del precedente.
Ringrazio comunque Stefano e i lettori della pazienza.
In ogni caso, non commenterò altre eventuali repliche, perché meglio o peggio di così non riuscirei a spiegarmi, e ritengo improprie le discussioni a due fatte in uno spazio pubblico.
Posted by: Hans | 18/06/2010 at 03:40
"che l'ordinamento... vuole concorrere a estirpare per quanto GLI compete".
"ordinamento" è sostantivo di genere ancora maschile, naturalmente.
Sono quasi le quattro di notte, perdonate.
Posted by: Hans | 18/06/2010 at 03:49
Trovo anch'io che non sia il caso di risponderti, anche se la penna prude. Alla prossima!
Posted by: Piccolo Josip | 18/06/2010 at 20:53