In La famiglia Moscon, un dipinto del pittore sloveno minore del XIX secolo Jozef Tominz, sono ritratte tre donne - le sorelle Amalia e Marijana e la loro zia Kajetana - che prendono il tè su una terrazza all'aperto. Amalia e Marijana sembrano guardare qualcuno che avanza verso di loro a fianco del pittore. Amalia, la sorella ancora nubile, ne è talmente distratta che verserà l'ultimo tè fuori dalla tazzina, sotto lo sguardo attento e stupito della zia. Marijana, la sorella rimasta vedova, ne è altrettanto incuriosita. Lo spettatore non vede né il pittore né il suo sconosciuto amico, ma solo il gioco di sguardi delle tre donne. Sulla balaustra c'è un dettaglio bizzarro: una boccia di vetro con dentro cinque pesci rossi, che a quanto pare simboleggiano le tre donne e i due uomini assenti.
Da questo quadro prende spunto René de Ceccatty per il suo ultimo romanzo L'hote invisible (L'ospite invisible) ed è intorno ad esso che si sviluppa il racconto dell'io narrante, che ha tutta l'aria di essere l'autore stesso. In occasione di un viaggio a Lubiana l'autore aveva inviato al suo amante di allora una cartolina raffigurante proprio questo dipinto e ora, vent'anni dopo, la cartolina gli viene resa da Olga G., la figlia dell'uomo. Con gli anni l'immagine del padre amato dall'autore era via via scivolata dalla sua memoria e ora questo gesto della donna fa riemergere il passato, a cui si associano due altri episodi di vent'anni prima: la morte di Hervé - l'uomo, ormai morto, che negli affetti dell'io narrante aveva preceduto il padre di Olga G. - e un libro che de Ceccatty aveva scritto all'epoca su quest'ultimo uomo e che non è mai stato pubblicato perché, nell'opinione del diretto interessato, rivelava troppe cose e in maniera troppo esplicita su di lui.
Sospinto da questa costellazione di ricordi e riflessioni, il narratore accetta l'invito di Olga G. che è diventata conservatrice di un museo di una cittadina di provincia nei pressi di Parigi. Quando vi arriva, è convinto di poter parlare con lei del padre di cui era innamorato, mentre lei si ostina a interrogarlo su Jozef Tominz e su La famiglia Moscon. Il loro dialogo diventa così un capolavoro di ambiguità e di reticenze, dove sembra che Olga G. voglia "ignorare la natura di quest'amore o per lo meno non lo evocava direttamente", mentre l'autore si ostina a ritornarci sopra per strapparlo al silenzio, usando con insistenza il commento, anche fantasioso, sul dipinto di Tominz, che diventa così l'allegoria della storia d'amore vissuta dall'io narrante. Come nel quadro l'oggetto dell'innamoramento è assente e quello stesso amore è "sconveniente" - perché a conquistare l'uomo è la sorella vedova e non quella nubile -, così anche nella realtà l'uomo con cui il protagonista ha avuto una relazione durata qualche mese è assente e il loro breve legame è sconveniente perché l'uomo nasconde la sua omosessualità dietro i più accettabili rapporti familiari. Quest'assenza è anche un'evanescenza, perché l'uomo amato resta costantemente privo di un nome proprio, ma viene definito solo nella sua duplice relazione di padre - è sempre "il padre di Olga G." - e di amante che si sottrae al desiderio di esclusività dell'io narrante.
A questa tessitura però si somma l'ulteriore assenza di Hervé, l'uomo che René aveva amato prima di conoscere il padre di Olga G. e che ormai è morto da parecchi anni. Anche su lui l'autore aveva scritto diversi libri, nell'ultimo dei quali i dettagli della sua esistenza sono così poco mascherati da renderlo perfettamente riconoscibile. Dopo aver trascorso la serata con Olga G., l'autore si ritrova da solo in camera da letto e gli eventi del giorno risuscitano in lui la memoria di quella relazione, che sembra quasi sovrapporsi, con un gioco di affinità e di contrasti, a quella con il padre di Olga. E' anzi Olga che gli fa tornare in mente la sorella di un amico di Hervé, che l'aveva contattato dopo la sua morte. Ad accomunare i tre uomini - il protagonista, il padre di Olga ed Hervé - è una solitudine esistenziale su cui nulla riesce a incidere in maniera decisiva. Hervé avrebbe dovuto "accettare di amare e sopportare di essere amato" per diminuire la sua solitudine - ma la stessa cosa potrebbe dirsi del padre di Olga G. Soprattutto su queste pagine del romanzo aleggia una strana inquietudine e un senso del mistero che però non ha nulla di soprannaturale: è nell'essenza delle cose umane e de Ceccatty ha la capacità di trasmettere al lettore proprio il senso di disagio esistenziale che deriva da questa situazione.
Man mano che il romanzo procede verso la sua conclusione, si opera un ribaltamento di prospettiva. Fino a poco prima era scontato che il personaggio assente era il padre di Olga G., che ai tempi della loro storia d'amore si era ostinatamente sottratto alle pretese di esclusività accampate dall'io narrante. Ora, però, è come se l'autore ruotasse di centottanta gradi il proprio sguardo e lo puntasse su di sé. Il libro che aveva scritto (ma non pubblicato) sul padre di Olga G. lo ritraeva come una specie di "mostro", incapace di amare e in grado solo di dividersi tra innumerevoli legami superficiali. Nello stesso libro, però - scrive de Ceccatty - "ero stato parsimonioso di dettagli sulla mia vita, perché sarebbero venuti a turbare l'immagine di una semplice vittima amorosa". Con la scrittura si era dunque riservato "un posto d'onore: quello della vittima lucida e non consenziente, assegnando a lui un ruolo, quello del 'mostro'". L'immagine che abbiamo di noi stessi, dunque, è falsata perché è il risultato di una costruzione - consapevole o no - atta a ridurre il fastidio che altrimenti proveremmo incrociando, in maniera aspettata, la nostra immagine come la vedono gli altri dall'esterno. Nasce allora il dubbio che il vero assente dal quadro sia proprio l'io narrante, e che sia lui quello che "seduce e poi scompare" - proprio come l'amico sconosciuto di Tominz nella sua tela. Illudendosi di essere l'unico capace di amare, potrebbe essere in realtà colui che, con la sua petulanza, allontana l'altro: "Non avevo sentito la voce dell'amore perché io stesso non sapevo emettere questa voce. Che amara ironia credere di possedere ciò che non si ha". O ancora: "Avrei dovuto accontentarmi di ciò che mi offriva e che, per lui, era già tanto: il suo corpo, le sue confidenze, la sua attenzione nel tempo che condividevamo". Tutto questo fa di L'hote invisible un romanzo raffinato ed elegante, in cui René de Ceccatty maneggia con virtuosismo e apparente semplicità la tipica chiarezza della lingua francese per descrivere l'ambiguità della vita emotiva e dei sentimenti, in cui nulla può dirsi concluso o definito una volta per tutte.
...ma non è possibile! dopo avermi definitivamente sedotto con "l'ospite invisibile", scopro che l'hai letto in originale e che in Italia non è ancora uscito!
Va bene, va bene è (anche) invidia ...io sto ancora balbettando in inglese.
E comunque anche in italiano non riesco ad essere vorace come te!
Certo il tuo post è bellissimo, ma non aspettarti complimenti, sorry.
Sono troppo incazzato con i miei miseri limiti!
Piuttosto, anzichè perdere tempo a leggere, pensa a farti bello per sabato sera...ce la metterò tutta a rintracciarti "in poltronissima" e a trovarti detestabile.
Un abbraccio forte!
vito
Posted by: vito | 11/05/2010 at 21:11