Probabilmente Agorà di Alejandro Amenabar non diventerà un caposaldo della cinematografia, ma resta un bel filmone che scivola via liscio per un paio d’ore. E’ un film popolare, certo, e non di nicchia, quindi non bisogna aspettarsi grandi finezze nella rappresentazione della vita della filosofa Ipazia o degli abitanti di Alessandria d’Egitto nel IV secolo d.C. Come film popolare, però, ha indubbiamente dei meriti, che visti con l’occhio di cerca il film d’essai rischierebbero di essere considerati dei difetti. Agorà è innanzitutto un kolossal e del genere ha pregi e limiti: immagini sontuose, scene corali, gli stessi volti degli attori scelti per interpretare i vari ruoli, ma anche una certa superficialità e tendenza al didascalismo, dovuta alla facilità con cui ci si può reinventare, oggi, ciò che ai tempi non doveva affatto essere ovvio. Della stessa figura di Ipazia e dei suoi studi - come avverte una nota alla fine del film - si sa ben poco, perché non rimane nulla: questo consente alla sceneggiatura di prestarle intuizioni e ragionamenti che si riveleranno veri solo parecchi secoli dopo grazie a Keplero, Newton e Galilei. Ma tutto sommato questo resta un male minore: il punto centrale è che Ipazia (Rachel Weisz) è un individuo che pensa e riflette e che, in quanto tale, è pronto a formulare ipotesi commettendo anche errori da correggere a seguito di ulteriori indagini. Insomma, più che una filosofa come la intendiamo oggi, Ipazia è rappresentata come un campione del metodo scientifico e del dubbio sistematico. Il suo modo di procedere è esattamente l’opposto di chi invece è a caccia di certezze immediate e in quelle si crogiola, rifiutandosi di metterle in discussione. Questa parte, nel film, tocca ai cristiani. Sono loro gli individui-massa che si contrappongono all’individuo pensante incarnato da Ipazia, che illustra alla perfezione il motto schopenhaueriano: o si pensa o si crede. Questa massificazione è resa in maniera brillante da certe riprese dall'alto in cui i cristiani che si muovono a frotte assomigliano quasi a scarafaggi durante la loro corsa disordinata.
Come se non bastasse, nel film di Amenabar i cristiani non soltanto non pensano, ma sono anche violenti e ben poco compassionevoli. Lungi dall’essere le uniche vittime delle persecuzioni, come vorrebbe la loro agiografia, sono a loro volta carnefici e spesso lo sono anche in maniera subdola: provocano e quando gli altri reagiscono, rispondono con violenza scaricando addosso alle loro vittime la responsabilità di tutto. Illuminante è, da questo punto di vista, la persecuzione degli ebrei di Alessandria. Le guardie cristiane della morale pubblica - i cosiddetti parabolani - attaccano a colpi di pietre un gruppo di ebrei che se ne sta pacifico in un teatro a suonare e cantare. Questi ultimi si rivolgono alle autorità imperiali per esporre le loro rimostranze e ottenere giustizia, ma il prefetto e i suoi uomini - ormai cristianizzati - non prendono le loro difese. Esasperati, alcuni ebrei attaccano a loro volta un gruppo di cristiani: questa azione viene sfruttata dal vescovo Cirillo per infiammare ulteriormente gli animi e scatenare un vero e proprio pogrom antisemita ante litteram. Oppure si pensi alla ferocia con cui i cristiani danno l'assalto all'agorà e alla biblioteca di Alessandria, bruciandone i libri, quando finalmente viene concesso loro di accedervi. Non c'è nulla di inedito in tutto ciò: basterebbe leggere certi saggi, come quello di Lidia Storoni Mazzolani su Agostino e le persecuzioni nei confronti dei pagani.
A quanto pare, Agorà non ha incontrato il favore delle gerarchie cattoliche e qualcuno ha ventilato il sospetto che il ritardo con cui è avvenuta la sua distribuzione in Italia fosse dovuto a un tentativo di censura. In realtà non dovrebbero aversene a male, perché questo film prende il caso specifico dei cristiani dell'epoca ma racconta qualcosa di molto più ampio che, oltretutto, presente anche dei rimandi ai giorni nostri. Come ho già accennato, il punto centrale è la costruzione dell' "uomo-massa": nelle scene corali in cui le turbe cristiane si scatenano contro i pochi pagani rimasti assistiamo alla scandalosa facilità con cui capipopolo senza scrupoli sanno instillare e fomentare nelle masse la brama di violenza. E' uno studio, condotto in corpore vili, di come avviene la manipolazione delle masse, qualunque sia la natura della fede che le infiamma.
Non intendo entrare nei dettagli della trama, ma mi limito a evidenziare alcune scene che mi hanno particolarmente colpito. Penso per esempio alla scena in cui, animati dalla furia, le folle cristiane sfondano i portoni dell'agorà, distruggono i libri, i simboli del libero pensiero, scegliendo di restare nell'ignoranza e nel pregiudizio spacciati dai "testi sacri" come parola divina, e abbattono le statue delle divinità pagane. Penso all'istituzione di una "polizia della morale" che sorveglia le strade e punisce chi viola le leggi divine. Oppure penso ai discorsi con cui il vescovo Cirillo accusa gli ebrei di deicidio e, davanti alle autorità imperiali, legge un passo della Bibbia - cioè della parola di Dio, dal suo punto di vista di cristiano - che condanna l'eccessivo influsso delle donne sugli uomini, alludendo chiaramente a Ipazia. In nessuno dei due casi c'è, da parte del vescovo, un esplicito invito alla violenza fisica e alla ferocia, ma è ovvio che in una situazione surriscaldata come quella dell'epoca le parole di Cirillo serviranno solo ad amplificarla e avranno un unico effetto: la persecuzione e l'uccisione degli ebrei e l'omicidio di Ipazia per "empietà". A me pare che questi fenomeni caratterizzino, più che il cristianesimo nella sua variante cattolica, altre religioni che non è il caso di star qui a specificare: forse non è nell'intenzione narrativa di Amenabar, ma è inutile fingere che tutte le religioni siano esattamente allo stesso stadio di evoluzione e che più pericolose siano quelle che hanno in maniera più netta un carattere politico. Se le gerarchie cattoliche, oggi, sono ancora testardamente intrappolate in idee superate, la massa dei cosiddetti credenti è, in larga parte, tiepida e difficilmente da loro potrebbe arrivare quel tipo di violenza bruta e immediata descritta nel film. Da credenti di altre fedi, invece sì, soprattutto se manipolati da capi religiosi che oggi sono come il vescovo Cirillo di allora. In questo senso, quindi, il film di Amenabar ha una grande presa sull'attualità.
Però, come dicevo all'inizio, questo film è anche e soprattutto un kolossal destinato al grande pubblico e non si regge solo sullo scontro tra due visioni del mondo inconciliabili e contrastanti o sull'esaltazione del libero pensiero contro la servitù imposta da una fede. Ci sono, infatti, anche delle storie d'amore che s'intrecciano nella trama e che danno vita ad alcuni personaggi affascinanti. Innanzitutto Oreste (Oscar Isaac), il prefetto alessandrino innamorato di Ipazia sin da quando era suo allievo, che si ostina fino all'ultimo momento a credere di potere, in qualche modo, contrastare l'arroganza del vescovo Cirillo che vorrebbe umiliarlo in pubblico, senza rendersi conto - come invece fa Ipazia - di aver già perso la sua battaglia. Poi c'è lo schiavo Davo (Max Minghella) che a sua volta si contende in silenzio l'amore della padrona Ipazia e che, convertitosi al cristianesimo e ottenuta la libertà, verso la fine del film compie un estremo atto d'amore per lei: qui è certo che Amenabar si sia preso qualche licenza con la realtà storica.