In City Boy - l’ultimo libro di Edmund White, di cui ho già scritto - mi sono imbattuto, tra le numerose perle, anche in questa:
“In tutt’e tre le città [Londra, Parigi e New York] la gente esercita quelle che Paul Valéry chiamava ‘le professioni deliranti’, quelle carriere che dipendono dalla fiducia in sé e dalle opinioni degli altri più che da capacità verificabili. Le professioni deliranti - oserei dire - comprendono la letteratura, la critica, il design, le arti visive, la recitazione, la pubblicità, tutti i media - ma non la danza, per esempio, dove o sai fare trentadue tours jetés senza volare giù dal palco o non li sai fare. Se li sai fare, puoi ballare senza problemi con qualsiasi compagnia del mondo. Poiché però tutte le professioni deliranti non hanno degli standard concordati, richiedono raccomandazioni e alleanze, protettori e patrocinatori, dei maestri famosi o il consenso di qualcuno che gode di stima. Per farla breve, dipendono dalla più incostante di tutte le proprietà: la reputazione. Le città socialmente statiche come Parigi hanno una frenesia sociale meno evidente e l’ascesa di un Rubempré o di un Rastignac è tanto più notevole perché è molto rara. Ma in una città mobile come New York, le ambizioni delle persone sono molto più urgenti ed evidenti. A New York insistente è un complimento, e aggressivo un grande elogio incondizionato. Ricordo le risate di certi miei amici svedesi quando una società americana d’ingegneria pubblicò un annuncio di lavoro in cui diceva di essere in cerca di aspiranti ‘aggressivi’. O erano ‘candidati’?”
In un certo senso questa osservazione di White conferma quello che ho sempre pensato: man mano che i “lavori” diventano sempre più astratti, vince chi ha la capacità di convincere gli altri di saper fare qualcosa che non è facilmente misurabile, ma il cui “valore” dipende soltanto dalla narrazione di sé che fa lui stesso e a cui gli altri, a poco a poco, finiscono per credere diffondendola nelle cerchie che contano. E’ il potere dell’informazione che, più che rivelare l’essenza delle cose, ne inventa delle qualità fantasmatiche. E per questo motivo, i miti e gli schivi sono destinati a non emergere. Quello che White scrive a proposito di città come New York e Londra è vero anche per una città come Milano dove a imperare sono soprattutto l’immagine e le superfici scintillanti: del resto, Milano è la città della moda. Nelle professioni accessorie - e qui non mi riferisco a chi, realmente, taglia la stoffa e cuce i vestiti - è tutto un turbinio di apparenze: vince chi fa credere di saper fare qualcosa e persuade chi di dovere che quel qualcosa non è soltanto utile, bensì addirittura necessario. Ricordo di aver sentito, una sera, nel bagno turco della palestra in cui vado e che è, purtroppo, molto frequentata da svariati esponenti di questo universo, una conversazione tra due tizi. Uno diceva all’altro: “Io faccio il visual”, l’altro rispondeva: “Io mi occupo di comunicazione”. Il vuoto pneumatico, insomma. Almeno un idraulico i tubi li deve sapere stringere e non c’è discorso che tenga: la sua capacità (o incapacità) si tocca con mano quando si allaga la casa.
“In tutt’e tre le città [Londra, Parigi e New York] la gente esercita quelle che Paul Valéry chiamava ‘le professioni deliranti’, quelle carriere che dipendono dalla fiducia in sé e dalle opinioni degli altri più che da capacità verificabili. Le professioni deliranti - oserei dire - comprendono la letteratura, la critica, il design, le arti visive, la recitazione, la pubblicità, tutti i media - ma non la danza, per esempio, dove o sai fare trentadue tours jetés senza volare giù dal palco o non li sai fare. Se li sai fare, puoi ballare senza problemi con qualsiasi compagnia del mondo. Poiché però tutte le professioni deliranti non hanno degli standard concordati, richiedono raccomandazioni e alleanze, protettori e patrocinatori, dei maestri famosi o il consenso di qualcuno che gode di stima. Per farla breve, dipendono dalla più incostante di tutte le proprietà: la reputazione. Le città socialmente statiche come Parigi hanno una frenesia sociale meno evidente e l’ascesa di un Rubempré o di un Rastignac è tanto più notevole perché è molto rara. Ma in una città mobile come New York, le ambizioni delle persone sono molto più urgenti ed evidenti. A New York insistente è un complimento, e aggressivo un grande elogio incondizionato. Ricordo le risate di certi miei amici svedesi quando una società americana d’ingegneria pubblicò un annuncio di lavoro in cui diceva di essere in cerca di aspiranti ‘aggressivi’. O erano ‘candidati’?”
In un certo senso questa osservazione di White conferma quello che ho sempre pensato: man mano che i “lavori” diventano sempre più astratti, vince chi ha la capacità di convincere gli altri di saper fare qualcosa che non è facilmente misurabile, ma il cui “valore” dipende soltanto dalla narrazione di sé che fa lui stesso e a cui gli altri, a poco a poco, finiscono per credere diffondendola nelle cerchie che contano. E’ il potere dell’informazione che, più che rivelare l’essenza delle cose, ne inventa delle qualità fantasmatiche. E per questo motivo, i miti e gli schivi sono destinati a non emergere. Quello che White scrive a proposito di città come New York e Londra è vero anche per una città come Milano dove a imperare sono soprattutto l’immagine e le superfici scintillanti: del resto, Milano è la città della moda. Nelle professioni accessorie - e qui non mi riferisco a chi, realmente, taglia la stoffa e cuce i vestiti - è tutto un turbinio di apparenze: vince chi fa credere di saper fare qualcosa e persuade chi di dovere che quel qualcosa non è soltanto utile, bensì addirittura necessario. Ricordo di aver sentito, una sera, nel bagno turco della palestra in cui vado e che è, purtroppo, molto frequentata da svariati esponenti di questo universo, una conversazione tra due tizi. Uno diceva all’altro: “Io faccio il visual”, l’altro rispondeva: “Io mi occupo di comunicazione”. Il vuoto pneumatico, insomma. Almeno un idraulico i tubi li deve sapere stringere e non c’è discorso che tenga: la sua capacità (o incapacità) si tocca con mano quando si allaga la casa.
totalmente vero, anche se valido per molte altre professioni forse un po' meno pneumatiche, ti faccio l'esempio della fotografia, io essendo particolarmente schivo ho sempre evitato di "vendermi" come fotografo pur venendo apprezzato e richiesto da addetti al lavoro che di fotografia se ne intendono e ci vivono, fino al momento in cui un losco figuro, un "curatore" londinese non mi ha chiesto di rappresentarmi e così facendo si è proposto di ( a un non modico prezzo devo dire, ma accettabile per me) promuovermi e diciamo "spingermi".Il risultato è che continuo a mantenermi schivo nè muovo un dito per lavorare in quel campo, lo fa lui per me togliendomi dall'irritante ( per me insopportabile)attegiamento del fotografo che sgomita, ce ne sono tanti, dato che la fotografia diciamocelo non è che sia veramente un arte e chiunque dotato di mediocre talento una digitale e photoshop puo` inventarsi fotografo di moda etc. di questi ne ho conosciuti molti che corrispondono alla descrizione che ne fa white.
Posted by: ssynth | 23/03/2010 at 10:10
non ci sono più i bruti di una volta.
ma bisogna riconoscere che il pugno in faccia in quanto ricchione è meglio riceverlo virtuale che fisico.
Posted by: Paolo, por supuesto | 23/03/2010 at 14:07
@ paolo: o sono rinco io, che non capisco il commento, o forse tu volevi commentare il post più sotto?
Posted by: stefano | 23/03/2010 at 14:23
ho tagliato troppo, vediamo se riesco a spiegarmi.
l'immateriale è sempre stato parte della vita umana. certo oggi, grazie al consumismo, diventa un dato dell'esistenza forse troppo comune e perde un po' del suo fascino fino a diventare inconsistenza e pedanteria.
parliamo di era postindustriale e società dell'informazione, infatti.
nascono professioni nuove e si sviluppano o valorizzano tratti caratteriali giudicati prima non necessari. del resto l'uomo è animale culturale, e l'ipertrofia di comunicazione, in assenza di significato, sarà forse causa della sua autodistruzione.
ma - proprio per questo incontrovertibile scorrere delle cose - trovo fuoriluogo il rimpianto per epoche antiche, per il buon selvaggio, per i mestieri "veri" e rudi (operai, pompieri, minatori, idraulici) oggi scomparsi o resi meno pericolosi dal progresso e dall'automazione, almeno in Occidente.
questo cambiamento fa sì che l'esperienza fisica sia diventata un culto, e queste professioni idealizzate. persino il bruto di un tempo diventa appetibile oggi.
al punto che i giovani, per mostrare di avere esperienze che non possono più avere nella realtà, comperano jeans vintage e anticati a 10 volte il prezzo di quelli normali.
ma in questo mondo così sofisticato, noi ex culatoni veniamo picchiati di meno, troviamo lavori più adatti a noi senza essere discriminati, abbiamo i siti internet per incontrarci.
Posted by: Paolo, por supuesto | 23/03/2010 at 18:28
Soprattutto per perle come queste non rinuncerei mai a leggere il tuo blog, grazie :-)
A me pare che anche un lavoro che io speravo s'addicesse agli schivi e ai miti, ovvero la traduzione, è un lavoro delirantissimo. Forse una volta era così, prima dell'impennata del desiderio universale di diventare traduttori. Ora mi pare che spesso spicchi la gente insistente e aggressiva, che vanta conoscenze di qua e di là, che si intrufola in ogni dove, che a sentir loro sono amici di tutti e ammanicati con chiunque, che solo loro san fare ipersupertalentscouting, che fanno marketing, selfmarketing e vendita del fumo, che te li trovi a torino, a urbino, a bellinzona, a lipsia, a pisa, a roma, a francoforte, a londra ecc ecc.
Almeno in quel che faccio ora di delirante c'è solo il tentativo di infilare un briciolo di riflessione nelle menti a forma di schermo televisivo.
Posted by: ls | 23/03/2010 at 19:02
mmh, Paolo, capito... ma non è che ci stiamo dando un premio di consolazione? No, così, giusto per dire...
ls: questi che sono ubiqui e perennemente in attività mi domando dove trovano l'energia per fare tutto quel che fanno - se lo fanno poi. Il tuo elenco mi fa venire in mente quell'antico sketch di Faletti, della sarta-wannabe stilista che aveva il negozio a: Abbiategrasso, Bellinzona, New York :)
Posted by: stefano | 23/03/2010 at 19:06
Macché premio di consolazione. Io ho scelto di fare il pubblicitario, ossia un mestiere tra i più "imprendibili" e mistificatori all'età di 15/16 anni, per una forma tutta mia della sindrome di Robin Hood: mi rendevo conto che lì che si poteva confermare il peggior luogo comune, e andava impedito. C'è chi ha capito che si poteva formare il consenso come Berlusconi, e prima di lui Hitler, o Hollywood.
Esistono idioti in tutte le professioni, Stefano.
Posted by: Paolo, por supuesto | 23/03/2010 at 20:27
Io intendevo premio di consolazione OGGI :), mica nel 1900, quando hai deciso tu :D
Posted by: stefano | 23/03/2010 at 20:41
incredibile del 1900!
(d'altra parte fa il pubblicitario!)
quello lì... ecco perchè quasi mi sposava!!! gli serviva una badante!
ma che mi frega, dopo la spocchia su Busi...non ho dubbi - spero solo che Hans prima o poi si sbilanci.
waiting for godot
Posted by: vito | 23/03/2010 at 22:51
@ Paolo: lavori più adatti a noi?
e quali sarebbero, di grazia?
Posted by: pio | 25/03/2010 at 00:09