Di Jonathan Safran Foer avevo letto Molto forte, incredibilmente vicino che, malgrado l’evidente abilità del suo autore, mi era parso troppo costruito e, persino, troppo lezioso per convincermi davvero: sembrava che Foer l’avesse scritto in un attacco di narcisismo, per dimostrare al mondo quanto era innamorato di sé e quanto si piaceva. Ora ho appena terminato Eating animals, il saggio che uscirà tra un mesetto anche in Italia per i tipi di Guanda. L’avevo iniziato con qualche perplessità e qualche riserva, messe da parte solo perché ero - e sono - estremamente interessato al tema trattato: il cibarsi di carne, soprattutto se proveniente da allevamenti industriali, le motivazioni etiche e politiche per scegliere di non farlo e il vegetarianesimo. Bene, conclusa la lettura di questo nuovo libro, posso dire che stavolta lo stile brillante non è più soltanto fine a sé stesso, ma aiuta a rafforzare e a sottolineare le argomentazioni dell'autore.
Foer parte dalla sua esperienza personale e dai ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, costellati di tentativi per lo più presto abortiti di diventare vegetariano. I numerosi aneddoti che riguardano la nonna, sfuggita dalle persecuzioni antisemite in Europa, hanno evidentemente catalizzato l'attenzione dei recensori italiani, ma il discorso complessivo di Foer trascende la scelta meramente individuale del non mangiare carne. Dopo essersi interrogato sul motivo per cui, a seconda della società in cui viviamo, ci cibiamo di certi animali e di altri no - c'è un paragrafo paradossale, ma del tutto logico, sul perché si potrebbero mangiare i cani -, si concentra in particolare sugli allevamenti intensivi e industriali. Per quale motivo, si chiede, siamo sensibili al dolore inflitto ad alcuni animali - come, per l'appunto, i nostri cani - e indifferenti a quello di altri: c'è qualcosa di "inerente" che ci consente di giusticare quest'ultimo? La risposta è, ovviamente, negativa, soprattutto dopo che abbiamo letto la descrizione di ciò che avviene negli allevamenti industriali.
Prima di esplorare l'universo del factory farming, però, Foer si è documentato a fondo usando per lo più i dati e i risultati più "conservatori", proprio per evitare che qualcuno gli rimproverasse di avere posizioni estremiste. Da questa messe di informazioni ricava un capitolo intitolato "Words/Meaning" (Parole/Significato), organizzato come una sorta di piccolo glossario, che ha anche sfumature filosofiche e politiche e si pone l'obiettivo di fissare con precisione i termini del dibattito. Che cosa è esattamente un animale? Che cosa intendiamo per crudeltà o disperazione? Quali sono le implicazioni del cibo che consumiamo? Che cos'è l'allevamento industriale?
Per quanto riguarda però gli allevamenti industriali, Foer s'imbatte subito in un problema: sono praticamente impossibili da visitare, perché innalzano intorno a sé un muro invalicabile e alle richieste inoltrate dai giornalisti - e dallo stesso Foer - rispondono negativamente o non rispondono affatto. Persino le ispezioni ordinate dagli organismi ufficiali sono quasi sempre concordate con le aziende stesse. Eppure non sono del tutto inutili, perché anche in questo modo rilevano malversazioni e crudeltà nei confronti degli animali (Bisogna quindi affidarsi alle testimonianze di chi ci lavora o partecipare a dei blitz con esponenti di associazioni animaliste come la Peta.) Le informazioni, quindi, filtrano comunque all'esterno e in base ad esse Foer è in grado di stabilire una gerarchia delle crudeltà a cui sono sottoposti gli animali d'allevamento: quelle peggiori sono riservate ai volatili, seguiti poi dai maiali e infine dai bovini.
Il punto, però, non sono soltanto le crudeltà in sé e per sé, spesso gratuite, anche se Foer constata il paradosso di una sensibilità diffusa per cui i cosmetici riportano l'indicazione di non essere stati testati sugli animali, mentre la carne che consumiamo è quasi sempre il risultato di un allevamento feroce e intensivo che trascura completamente i diritti degli animali. L'allevamento industriale, infatti, ha letteralmente modificato gli animali stessi, creando nuove specie, progettate all'unico fine di essere macellate e consumate. Specie che, a causa delle condizioni in cui vivono - si leggano le pagine in cui viene descritto il superaffollamento dei pollai industriali -, non sono più in grado di muoversi normalmente, non sanno più riprodursi naturalmente e hanno un'aspettativa di vita bassissima. Soggetti a malattie, vengono preventivamente trattati con antibiotici e medicinali - anche se la situazione è, da questo punto di vista, lievemente migliore in Europa -, le cui conseguenze si fanno sentire anche sulla salute degli esseri umani. Questo aspetto, che si somma alle conseguenze ecologiche degli allevamenti intensivi, ha un peso particolarmente importante per un neo-padre come Foer.
Questo tipo di allevamento, però, viene descritto in contrasto all'allevamento tradizionale, in cui i ritmi e le esigenze degli animali sono rispettati (anche se poi pure loro sono destinati al macello). Jonathan Safran Foer fa visita ad alcune di queste fattorie, ormai in via di scomparsa - il 99% della carne consumata dagli americani proviene dagli allevamenti industriali -, e parla con i loro gestori e proprietari, spesso animati da notevole idealismo. Va detto che Foer dà spazio a voci diverse e contrastanti, non soltanto a quelle che potrebbero puntellare la sua posizione. In via teorica, sostiene Foer, uno potrebbe anche decidere di consumare solo carni provenienti da questi allevamenti, ma ormai il termine "biologico", "naturale" o "free range" è stato svuotato di senso - per esempio: per "free range" si intende spesso la sola possibilità che gli animali accedano all'esterno grazie a un'apertura nel pollaio, anche se poi vi restano stipati e in realtà non escono mai. Scegliere una dieta vegetariana significa risolvere il problema alla radice e significa anche interrogarsi se, da un punto di vista etico, sia giusto mettere il nostro gusto e le nostre scelte alimentari al di sopra del dolore di esseri senzienti come noi.
Foer riconosce infine che la scelta del vegetarianesimo, per avere senso, dovrebbe comunque superare la dimensione individuale, anche perché l'atto di mangiare ha comunque una dimensione sociale, fatta di condivisione di esperienze, di piaceri comuni in occasione di determinate festività - come, per esempio, il giorno di Ringraziamento negli Stati Uniti, simboleggiato dal tradizionale tacchino. Mi domando se un libro come Eating animals possa convincere dei mangiatori di carne a smettere di farlo o se non sia una predica per chi è già "convertito". Ne dubito, però è possibile che serva a dare quella spinta definitiva a chi si trova in bilico, a chi ha bisogno di qualche argomento definitivo per compiere il grande passo. Allora Jonathan Safran Foer sarebbe per loro quello che per me, anni fa, è stato Ecocidio di Jeremy Rifkin.
Sui rapporti tra etica e dietetica mi era parso notevole anche il saggio di David Foster Wallace "Considera l'aragosta": un surreale reportage dall'annuale fiera dell'aragosta in Maine che introduceva il tema delle sofferenze inflitte ad un essere vivente in nome del piacere gastronomico.
Posted by: Andrea P. | 29/01/2010 at 19:47
L'ho in casa, ma ancora non l'ho letto... Uno dei tanti in attesa :)
Posted by: stefano | 29/01/2010 at 20:09
Molto interessante. Giusto ieri stavo scrivendo un post sulla questione partendo dalla proposta di legge di alcuni deputati per il bando della carne di cavallo in Italia. Che cosa ne pensi del divieto statale di mangiare alcuni cibi imposto dai governi?
Posted by: fabristol | 29/01/2010 at 20:29
Mah, più che altro mi pare inutile: proibendo qualcosa si finisce per renderlo più appetibile (se ci riferiamo a cibi in generale). Per quanto riguarda le carni, be', allora sarebbe teoricamente "sensato" vietarle tutte e non un solo tipo. Ma anche questo è, praticamente, insensato se non si capisce per quale motivo è meglio non mangiarne - e soprattutto non mangiarne di quegli animali allevati industrialmente... E' meglio diffondere l'esempio e sperare che un giorno l'umanità raggiunga un diverso grado di coscienza. Comunque io e te - e i nostri figli e i nostri nipoti - saremo quasi certamente già morti.
Posted by: stefano | 30/01/2010 at 00:28
Interessante e chiarissima come tutte le tue recensioni. Avrei da parlare per qualche mese... Apprezzo molto chi cerca di mettere chiarezza su questi temi, e di far ragionare, nonchè le tue conclusioni nel commento sopra. Rispetto a certi carnivori che ragionano solo con lo stomaco (quelli da cui - spiego dopo perchè - ricevo insulti quotidiani), preferisco la serietà dell'approccio di vegetariani, antispecisti, ecc.
Rimane il fatto che oggigiorno la grande maggioranza mangia carne, eppure io, in quanto cacciatore, vengo etichettato, quando va bene, come "assassino" da molta gente: in ciò vi è una evidente contraddizione.
Prova a metterti nei miei panni, che mi mangio due o tre lepri all'anno vissute libere fino alla morte, tacciato di ogni nefandezza da gente che mangia coniglio d'allevamento ogni dì. Mi sono costruito tutto un sistema argomentativo che parte dalla distinzione tra critica animalista e critica ambientalista alla caccia. Ci metto la pazienza di Giobbe ma spesso non riesco a superare questo primo scoglio. La caccia è forse l'argomento dove la massima "più uno è ignorante di un qualcosa, più ha certezze al riguardo" più si verifica...
E il tema del benessere animale con essa, ovviamente.
La trovata del divieto di mangiare cavallo è stata sponsorizzata dalla Brambilla, nota e agguerrita "animalista" senza arte nè parte, la quale sta forzando per inserire nel progetto di legge sua caccia modifiche che di fatto impediranno l'utilizzo tradizionale (gastronomico - vedi maiale, considerato ormai animale "da affezione" - e di lavoro - vedi asini, cavalli, cani da caccia) di molte specie, con l'eslcusione di quelle identificate come "da macello".
In pratica l'unica sfiga della povera vacca è quella di cagare troppo per essere tenuta in giardino.
La concezione pret a porter del "benessere animale" non ha nulla a che fare con la benessere o la sofferenza dell'ANIMALE STESSO (sulla quale si potrebbe fare un serio discorso scientifico e etologico), bensì con la sofferenza o la soddisfazione che l'utilizzare in un certo modo di certi animali dà ALL'UOMO.
ti chiedo scusa per la lungaggine, ma il tema mi interessa
Posted by: nomedelblog | 01/02/2010 at 17:53
Il cane (Canis lupus familiaris) è un mammifero carnivoro ascritto al genere Canis (famiglia canidi). Con la domesticazione si è distinto dal suo predecessore, il lupo, del quale rappresenta una forma neotenica
Posted by: generic viagra | 13/04/2010 at 17:23