I
Dopo l'omicidio della giovane Sanaa per mano del padre, che non vedeva di buon occhio il suo fidanzamento con un italiano - un cane infedele, nell'ottica islamica -, il Corriere della Sera pubblica oggi un interessante reportage di Marco Imarisio, da Reggio Emilia. L'inviato del Corriere parla con quattro padri, tutti di fede islamica, ma provenienti da paesi diversi e chiede la loro opinione sull'episodio di Sanaa e su come debbano essere educati i figli. Il risultato è interessante - e agghiacciante. I due uomini più aperti sono gli africani - uno del Senegal e l'altro del Burkina Faso -, probabilmente perché vengono da paesi di islamizzazione più recente - perché, che lo si voglia ammettere o no, l'islam è una religione espansionistica e imperialista, del resto così si è diffusa - o in cui l'islam non è riuscito ancora a distruggere le altre tradizioni e religioni. Il primo è un po' più rigido, mentre il secondo dice senza mezzi termini, a proposito della figlia: "Io non voglio impedire che mia figlia cresca all'occidentale, altrimenti non sarei venuto fin qui. (...) E' nata qui, deve accettare le regole di questo paese, sfruttare le occasioni che trova sulla sua strada". Ha il buon senso di riconoscere che l'unica via percorribile è quella dell'integrazione e che la religione è sostanzialmente una dimensione privata.
I due che invece se ne escono con le affermazioni più atroci sono un marocchino e un egiziano. Il primo, che pure risiede in Italia da oltre vent'anni, ha il coraggio di dichiarare che se sua figlia esce e conosce un italiano, "la colpa è mia". Nel caso specifico di Sanaa, il fidanzato ha avuto la colpa di portare "quella ragazza a convivere senza essere sposata". Alla fine ribadisce il concetto che "i miei figli devono - devono, si badi bene, e non "possono" - diventare degli ottimi musulmani, capaci di seguire solo il Corano". Da queste frasi stilla un incredibile disprezzo nei confronti della volontà dei figli. E' come se questi fossero un oggetto inanimato: se la figlia s'innamora di un italiano non è una sua libera scelta, ma è "colpa del padre", se Sanaa è andata a vivere con il fidanzato è perché questo se l'è portata via, come una valigia. E se invece questi figli volessero qualcos'altro? Se questi figli, per esempio, volessero abbandonare l'Islam? Il capolavoro però è in questa affermazione: "Per gli italiani è difficile rispettare la nostra cultura". A parte che forse il problema dovrebbe essere ribaltato: qui non siamo in Marocco - non ancora, spero almeno - e quindi è lui che deve cercare di integrarsi in questa cultura e non, viceversa,
tutti gli abitanti di questo paese che devono adattarsi alla sua.
Stessa forma mentis quella dell'uomo egiziano: "C'è la legge del Corano
da rispettare: i miei figli devono diventare musulmani". In Europa c'è libertà di religione, ma "per noi non è così". Anche in questo caso la volontà individuale dei figli non conta nulla di fronte all'appartenenza all'Islam: chi è dentro deve restare dentro. L'apostasia si paga cara: non si sceglie la propria religione. E anziché condannare il padre che ha ucciso Sanaa non soltanto lo giustifica, ma in qualche modo riversa la colpa sulla ragazza ammazzata - proprio come aveva fatto la madre stessa di Sanaa -: "Quella ragazza, Sanaa, ha infranto la legge del Corano". E, dunque, implicitamente, meritava la pena di morte. Nessuno stupore: "Normale che un padre non accetti una cosa del genere". Normale, cioè, che un uomo non accetti le libere scelte dei figli.
I casi di Hina in passato e di Sanaa ora mostrano che le nuove generazioni vogliono e spesso possono integrarsi nel mondo occidentale, lasciandosi alle spalle gli aspetti più retrivi della loro religione. Il mio timore è che non trovino abbastanza appoggio da parte di quegli italiani che, a parole, si dicono laici, ma la loro laicità è a senso unico perché l'unico fondamentalismo che si preoccupano di criticare è quello cattolico, mentre per un malinteso multiculturalismo sono disposti ad accettare tradizioni che sono semplicemente abominevoli. Vogliamo garantirgli il "diritto" alla loro arretratezza culturale? E quindi mi domando: su chi e su quali istituzioni potrebbe contare una ragazza che volesse strapparsi alla presa di queste cosiddette tradizioni senza rischiare la pelle?
II
Vorrei spendere infine qualche parola per la vicenda che chiamerò "Santanché e il burqa". Qualche giorno fa Santanché e altri suoi compagni di partito hanno manifestato contro il burqa davanti alla Fabbrica del Vapore, dove si celebrava la fine del Ramadan, e lì pare che Santanché sia stata colpita da alcuni dei presenti. Per sgomberare il campo dagli equivoci devo dire che sulla questione ha assolutamente ragione Santanché: il burqa (il niqab, in realtà, a giudicare dalle immagini trasmesse dai telegiornali) viola le leggi italiane, oltre a essere un insulto alla libertà e alla dignità delle donne islamiche. Non è che siccome questo lo dice Santanché, che è un personaggio spregevole, allora diventa meno vero.
Per curiosità ho voluto tastare il polso del popolo della rete andandomi a leggere gli oltre quattrocento commenti lasciati su Facebook, sulla pagina del gruppo denominato "Laicità dello Stato" che riprendeva la notiza. Ebbene, la stragrande maggioranza di loro si rallegrava per la violenza fisica nei confronti di Santanché, qualcuno si rammaricava che anzi non ne fosse uscita peggio (magari morta). Trovo abbastanza sorprendente che dia più soddisfazione augurare disgrazie a un personaggio come Santanché piuttosto che condannare una pratica retriva e repressiva come l'uso del burqa (o del niqab). Come dire: sì, siamo laici, ma a senso unico, ovvero ci incazziamo solo contro la chiesa cattolica quando questa conculca le nostre libertà, mentre delle libertà degli altri ce ne fottiamo: meglio augurare altre ossa rotte a Santanché. Per non parlare del paragone idiota di alcuni con le suore, come se queste non fossero libere - a un certo punto - di gettare la tonaca e tornarsene, se solo lo volessero, allo stato laicale. In alcuni commenti c'era addirittura chi invocava una presunta "libertà" di professare ognuno le proprie tradizioni. Certo: se la religione degli altri impone agli uomini di avvolgere le proprie donne come se fossero un uovo di Pasqua, lasciando loro libera una fessura per gli occhi, chi siamo noi per impedirglielo? In fin dei conti è la loro cultura, no? E dopo tutto quelle donne, se volessero, se lo toglierebbero - proprio come le suore, no? - e se non se lo tolgono è perché probabilmente lo trovano molto chic. Pochi sono i commenti sensati che ho trovato e che mi sento di convidere. Uno di questi, per esempio, lamentava il fatto che queste battaglie non vengano fatte proprie dalla sinistra e da chi si dice democratico. Perché - si chiedeva questa persona - dobbiamo lasciare che i nazifascisti ne facciano un loro cavallo di battaglia? Aggiungo che a Santanché per una volta si poteva rimproverare qualcos'altro e non soltanto il naso rifatto o le labbra siliconate. Le si poteva chiedere, per esempio, come conciliasse questa protesta con il suo silenzio e i suoi applausi a Gheddafi durante la visita in pompa magna del dittatore libico in Italia. A quanto mi risulta Gheddafi non è propriamente Simone De Beauvoir, in quanto a femminismo, ma forse mi sbaglio.
Lo spirito laico affoga nell'incapacità d'immedesimarsi nelle repressioni altrui.