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Werther Nieland, pubblicato nel 1949 subito dopo l'esordio con il romanzo De avonden, è un racconto di un'ottantina di pagine che ci fa conoscere Gerard Reve prima del "revismo", quell'impasto di cattolicesimo e ossessioni sadomasochistiche caratterizzanti la sua opera dalla seconda metà degli anni sessanta in poi. Anche il tono del racconto è diverso da quello che Reve praticherà in seguito, con i manierismi accuratamente coltivati, il linguaggio volutamente ricercato e i cliché usati con sapienza e ironia. Il tono di Werther Nieland è sobrio e trattenuto: pare che Reve voglia limitarsi a registrare gli eventi senza fornire interpretazioni o giudizi. Quello che accade ai protagonisti del racconto è oggetto di descrizione impassibile e l'effetto narrativo è il risultato della calcolata freddezza narrativa dell'autore.
Innanzitutto la prima stranezza è rappresentata dal titolo del racconto. Werther Nieland non ne è né il protagonista né l'io narrante, ma è un amico - neanche tanto intimo, a dire il vero - del narratore Elmer, che è il vero protagonista assoluto del racconto e dalla cui prospettiva il lettore assiste alle vicende descritte. Queste vicende, però, non sono nulla di eccezionale, ma sono anzi episodi quotidiani e insignificanti che si susseguono senza una vera e propria trama. Elmer è un ragazzino attonito e indifferente che assiste a tutto quello che accade intorno a lui senza riuscire a darsi delle spiegazioni. "Non sapevo se dovevo ridere o tacere rattristato. Vedevo benissimo che doveva essere impossibile comprendere tutto quello che accadeva e che c'erano cose che restavano misteriose e sollevavano la nebbia dell'angoscia". Per sfuggire all'inconoscibilità angosciante del mondo s'inventa legami e connessioni fantastiche, un universo in cui eventi casuali e irrelati, di peso diverso tra loro, acquistano un significato speciale: in un certo senso, prima ancora della conversione di Gerard Reve al cattolicesimo, è qui all'opera una "mentalità religiosa", che elabora simbolicamente l'opacità del reale e stabilisce legami causali non dimostrati. Immerso in questo universo sconosciuto e monotono, Elmer è afflitto da improvvisi attacchi di malinconia che non sembrano causati da nulla di specifico. A più riprese, nel racconto, infatti appare come una nube di tristezza che vela l'umore del protagonista ed è quasi sempre senza un motivo immediatamente individuabile. Il clima, perennemente grigio e piovoso - forse del tutto normale in Olanda in inverno -, e l'assenza di luce sottolineano anche atmosfericamente - e "oggettivamente" - il paesaggio interiore del protagonista. Le prime parole con cui si apre il racconto sono infatti: "Un mercoledì pomeriggio di dicembre, con un tempo buio..." e alla fine del primo paragrafo Elmer ribadisce: "Il tempo rimase buio".
Per sfuggire alla noia - altro elemento centrale della narrazione - Elmer s'inventa in continuazione dei "club" nei quali coinvolge i suoi altri amici, Dirk e Maarten, che tratta con altrettanta indifferenza e freddezza. Sono club che si propongono fini assurdi, per lo più suggeriti dalle circostanze contingenti, e di tutti Elmer si erge a presidente-dittatore. E in questo senso si inserisce anche un tratto del carattere di Elmer che riemerge a più riprese e che sembra prefigurare il Gerard Reve degli anni successivi: un certo gusto per la crudeltà, che è a sua volta un tentativo per sottrarsi al tedio e all'angoscia provocata dall'inconoscibilità del mondo circostante. Elmer, infatti, esercita in maniera spensierata e priva di qualsiasi scrupolo morale una certa forma di crudeltà sugli animali. Taglia le teste ai pesci ancora vivi oppure li mette in un acquario che poi lascia ghiacciare all'esterno. Oppure tormenta i gatti: uno lo chiude in un piccolo baule che, riaperto, trova pieno di una sostanza limacciosa. Un altro lo attira in una scatola in bilico sulle scale che comincia a ruzzolare giù quando il gatto è dentro. Nei confronti dei suoi amici, invece, la crudeltà assume i tratti della sincerità brutale con cui dice loro qualsiasi cosa gli passi per la testa in quel momento, senza preoccuparsi se possano restarne feriti. Accanto a questa crudeltà c'è poi un sottofondo sessuale, mai esplicitato del tutto, fatto soprattutto di allusioni e di sensazioni vaghe. Questo sottotesto culmina soprattutto nella scena della seconda visita di Elmer a casa di Werther: qui c'è la madre di Werther, una donna con evidenti problemi psicologici - forse soffre di un esaurimento nervoso, ma non è dato saperlo con certezza dalla prospettiva dell'io narrante che si limita a registrare i sintomi - la quale invita con insistenza Elmer a spogliarsi nudo e a fare il bagno insieme con Werther e la sorella Martha, malgrado l'imbarazzo di tutti.
14:42 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (0)
La morte recente di Fernanda Pivano ha ricordato a molti l'importanza del traduttore nel far conoscere testi e autori che altrimenti rimarrebbero rinchiusi nella cultura d'origine. Ma non voglio scrivere della Pivano, il cui ruolo ormai trascendeva quello del puro e semplice traduttore e che quindi non poteva - e non può - essere presa a modello del tipico traduttore. Questo continua ad avere una funzione fondamentale di mediazione e a essere una cinghia di trasmissione importante, indipendentemente dal valore dei testi che effettivamente traduce. Tuttavia io eviterei di scivolare nella mistica del traduttore che, spesso, diventa una forma di compensazione psicologica per la frustrazione del traduttore.
Qui io posso partire solo dalla mia modesta esperienza: ho tradotto finora una trentina circa di libri e, con poche eccezioni, si è trattato di testi di scarso valore o di scarsa importanza. Libri che io non avrei né letto né comprato per libera scelta. In tutti questi casi ho cercato di comportarmi da "professionista" e affrontato i vari testi come un buon artigiano che si mette a lavorare sul materiale che ha a disposizione. Perché per me questo è il lavoro traduttorio: onesto artigianato a cui dedicarsi con rispetto dell'autore e dei lettori. Niente di più e niente di meno. Io non ho velleità creative, perché se le avessi scriverei dei romanzi in prima persona e non metterei le mani su quelli altrui - anzi, spesso chi ritiene di essere uno scrittore mancato rischia di mettere troppo di sé nei libri che traduce, sostituendosi allo scrittore vero e proprio e dimenticandosi invece di essere al servizio del testo che sta traducendo. E' scontato dirlo, ma se non ci fosse il testo originario non ci sarebbe neanche il traduttore. Sarà triste dirlo, ma il lavoro di quest'ultimo è sempre subordinato al testo che c'è già. Tradurre è un lavoro adatto per chi ama stare in ombra, dietro le quinte, in secondo piano. Non è un lavoro da primadonna o per chi vuole calcare le scene sotto i riflettori.
Poi è ovvio che ci sono autori con cui io riesco a entrare più facilmente in sintonia, ma non è merito né mio né loro: semplicemente, hanno uno stile o caratteristiche che mi assomigliano e quindi non mi è richiesto un grande impegno mimetico. Altri, invece, sono così distanti dal mio mondo da costringermi a sforzi notevoli per dare loro un abito italiano. Ma sia in un caso che nell'altro non amo darmi arie da grande sacerdote che riesce a convocare a sé gli spiriti perché, per l'appunto, i libri che traduco sono quello che sono e non sono capolavori. Non mi pare opportuno assumere un tono ispirato e fingere di dover centellinare ogni singola parola (soprattutto quando so che gli editor delle case editrici badano a "come suona" il testo nella lingua d'arrivo e vogliono che il testo non "sappia di traduzione", sicché raschiano e limano la traduzione per renderla appetibile ai lettori italiani, che non vogliono essere troppo disorientati .
Naturalmente io e gli altri manovali della traduzione ci occupiamo della pletora di libri che con regolarità invadono le librerie e che solitamente finiscono nel dimenticatoio dopo qualche mese, uscendo poi di catalogo. Sono pochi quelli che restano. In ogni caso, però, sono sempre autori contemporanei. Diversa è la faccenda quando vengono tradotti autori del passato, soprattutto se ormai sono dei "classici". Qui, infatti, l'artigianato non è più sufficiente e il traduttore deve essere anche filologo e avere uno spessore e una profondità culturali che gli permettano di attraversare i secoli fino a raggiungere l'epoca dell'autore.
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Quello che in teoria non si dovrebbe fare, se non in casi estremi, è tradurre da una traduzione. Meglio tradurre dall'originale, soprattutto quando si tratta di autori "classici" o di una certa importanza e non di letteratura di puro intrattenimento, usa e getta. Osservazione ovvia? Mica tanto. Ieri ero in libreria e ho visto che Feltrinelli ha ripubblicato Il sole si spegne di Dazai Osamu, che - a quanto mi dicono - dovrebbe essere ormai un classico contemporaneo della letteratura giapponese. Era esaurito da tempo nell'edizione SE. L'ho aperto e ho scoperto che Feltrinelli si è limitata a ristampare lo stesso testo, tradotto da Luciano Bianciardi da una traduzione americana. Ma come? Se un editore importante si prende la briga di riportare in libreria un autore così, allora perché non lo fa ritradurre, dal giapponese stavolta? Lo stesso discorso vale per un altro giapponese, Yukio Mishima, il cui romanzo più famoso - e probabilmente di maggior successo commerciale -, Confessioni di una maschera è nel catalogo Feltrinelli da decenni - imperterrito, ristampa dopo ristampa - nella traduzione di Marcella Bonsanti dalla traduzione americana. Eppure il libro è un long seller e mi stupisco che nessuno pensi a farlo ritradurre. La situazione era forse difficile negli anni sessanta e gli yamatologi non abbondavano, ma ora? Se dopo una traduzione restano dei cosiddetti "residui traduttivi", che cosa ne resta dopo due?
Premetto che Berlusconi mi dà il voltastomaco e un paese civile dovrebbe aver prodotto già da lungo tempo gli anticorpi necessari a eliminarlo dalla scena politica. Da lungo tempo, vale a dire: ben prima dei suoi noti exploits sessuali c'erano state vicende rivelatrici della natura del personaggio. Detto questo, però, a volte ho la sensazione che il più recente affaire Berlusconi sia servito ad aprire le cateratte dei più antichi pregiudizi sugli italiani. Soprattutto nel mondo anglosassone sembra che qualcuno non aspettasse altro che l'occasione buona per ribadire la tradizionale immagine dell'italiano. Come se, tutt'a un tratto, fossimo ancora a Machiavelli o a Marlowe, che mandava il suo ebreo di Malta in Italia per imparare a produrre i veleni. Solo che ora l'italiano è buono soprattutto solo a scopare (o a cercare di scopare) tutto il tempo.
Oggi Repubblica riprende un articolo apparso sul Daily Telegraph, a firma di una tale Celia Walden, a proposito di un ipotetico ricovero di Berlusconi in una clinica per "sex addicts". A un certo punto, raccontando che anni fa a Siena un uomo sposato le diede un pizzicotto, la giornalista scrive: "Togliere la 'dipendenza sessuale' a un italiano è come chiedergli di evitare la cadenza musicale quando parlano" ("taking the 'sex addiction' out of any Italian male is surely like asking them to stop all that trilling when they talk" nel testo originale che, incredulo, sono andato a cercare online). Ho provato, leggendo queste parole, uno strano senso di disagio. Che cosa diremmo se trovassimo, in un articolo di un quotidiano italiano, una frase contenente una generalizzazione simile su un altro popolo? Non siamo ancora al razzismo, ma c'è già uno sgradevole profumo di irrisione, condita da un certo senso di superiorità forse leggermente fuori luogo. Come ho detto, mi sono letto tutto l'originale. Vale davvero la pena leggerlo, perché è un caso esemplare di giornalismo trash che però non appare nel posto solitamente deputato a questo tipo di giornalismo - un tabloid come The Sun o il Daily Mail -, bensì in un quotidiano di qualità. E' giornalismo trash perché il contenuto informativo è pari a zero e non capisco nemmeno perché La Repubblica l'abbia ripreso. L'esercizio di "spalamento di merda" non ha colpito soltanto me, ma anche i numerosi italiani che l'hanno commentato - e quasi tutti in un inglese più che buono.
Oppure potrei cogliere l'occasione propizia e sfruttarla a mio vantaggio. Se in Gran Bretagna ci sono le Celia Walden che la pensano così, questo mi spianerà la strada rendendomi la vita più facile. La prossima volta che sarò in Inghilterra mi metterò a palpare il culo ai begli inglesini che incrocerò per strada. E se qualcuno se ne avrà a male, alzerò le braccia con gesto difensivo e, in a trilling tone, dichiarerò: Sorry, I'm Italian, I can't avoid it. It's in my genes.
15:52 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (13)
12:06 in Due giri intorno al mio ombelico | Permalink | Comments (1)
12:03 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (4)
Quella che qualcuno chiama "islamofobia" per me è invece sacrosanta critica e opposizione alle tendenze liberticide dell'Islam. Questa critica non investe solo i paesi arabi, ma anche tutti quei paesi che hanno adottato l'Islam come religione principale. Inevitabilmente, dopo un po', le leggi dello Stato adottano elementi della sharia. Inevitabile, perché l'Islam non conosce la separazione tra stato e culto religioso. In Malaysia, per esempio.
Dopo averla letta ieri sul Times, ritrovo la notizia anche oggi sul Corriere della Sera, con qualche dettaglio in più. Una modella malese, Kartika, è stata condannata a sei colpi di canna per aver bevuto una birra. La Malaysia, in teoria, sarebbe uno degli stati musulmani più "tolleranti", perché gli islamici rappresentano "solo" i due terzi della popolazione. Tuttavia, come scrive Marco Del Corona nel suo pezzo sul Corriere, l'influenza dei partiti islamici si fa sentire sempre di più negli stati tradizionalisti, "consolidando allo stesso tempo l'autorità delle corti coraniche".
La cosa che però più mi colpisce della vicenda è la relazione della diretta interessata, che "è malese e musulmana, dunque soggetta alla sharia". Kartika ha dichiarato di essere una peccatrice e di essere stata sempre pronta alla punizione, che ora accetta di buon grado. E aggiunge: "I giovani impareranno dal mio caso". In sostanza è il tipico esempio del masochismo della vittima che dà ragione al suo carnefice, forse una forma di sindrome di Stoccolma. In questa punzione non c'è nessuna ratio, infatti. La modella non ha danneggiato nessun altro e non ha danneggiato nemmeno se stessa: era una birra in un night-club, mica binge drinking che ti fa accasciare nel tuo vomito o ti fa schiantare in macchina in autostrada. Non c'è nessun reato, perché non c'è nessuna parte lesa. Il reato esiste solo perché qualcuno - una corte islamica, guarda ha caso - ha deciso di trasformare in reato la violazione di un precetto morale-religioso. E' o non è una violazione della libertà, questa? Io suggerirei di organizzare un drink-in davanti alle ambasciate e ai consolati della Malaysia. Ma merita di essere difeso chi accetta di buon grado la propria umiliazione e abbraccia una religione tribale e liberticida?
19:07 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (12)
Mi irrita un po' il considerare l'amore una "passione". "Passione" dà l'idea del "patire" e, quindi, contiene in sé l'idea della passività. Nell'esaltazione dell'amore-passione c'è un certo compiacimento per il subire, come se il soggetto fosse investito da una tempesta di fronte alla quale non gli resterebbe che chinare il capo e, per l'appunto, subire. Siamo - e mi ci metto anch'io, volente o nolente - quasi tutti in attesa di in-(n)amorarci, cioè di cadere dentro l'amore. In attesa di, finalmente, provare la "passione" e patire. C'è in me invece qualcosa che si ribella e mi dice che l'amore dovrebbe essere qualcosa di "attivo". L'amore dovrebbe essere una forma, una manifestazione, una declinazione della volontà. Qualcosa che, insomma, sia meno esposto alle casualità e agli ondeggiamenti della vita e che coinvolga maggiormente l'individuo e la sua scelta, giorno per giorno, di un'altra persona. Altrimenti, finita l'attrazione, finisce anche il cosiddetto amore. Del resto, se l'amore è "passione", perché tentare di prolungarlo? La "passione" è oggettiva, colpisce il soggetto, e quando passa non c'è più. E se non c'è, non c'è. Se ne parla come se fosse un fenomeno atmosferico su cui non possiamo esercitare alcuna influenza, al di fuori dal nostro campo di intervento. Se smette di piovere è inutile incaponirsi a fare la danza della pioggia: le nubi non si apriranno di nuovo. Dunque se non ci amiamo più - ovvero non c'è più l'attrazione, non c'è più la "passione" -, è vano insistere.
Del resto, qui, la responsabilità non è soltanto degli individui, ma c'è anche una responsabilità "ambientale". Da non so quanto tempo ormai - diciamo più o meno dall'epoca del Romanticismo? - ci hanno martellato in testa l'idea dell'amore-passione, quello che ci fa sobbalzare il cuore nel petto e accelera il sangue nelle vene: c'è quindi da stupirsi se la maggior parte di noi agisce di conseguenza e aspetta di essere benedetta dall' "amore romantico"? E se quando arriva, accetta di cadervi dentro perché è "inevitabile", così come è inevitabile darci un taglio netto se finisce la "passione"?
Che cosa suggerisco di fare? Assolutamente niente - e questo è il bello (o lo sconfortante). Diversamente dai conservatori o dai reazionari, io non credo che sia possibile rianimare i cadaveri delle ideologie passate e renderli di nuovo vitali e, soprattutto, produttivi per chi agisce ora. Mi limito a guardare e a constatare, poi il mondo segue il suo corso.
13:32 in Appunti e riflessioni | Permalink | Comments (14)
Non smetterà mai di stupirmi la tendenza a minimizzare, soprattutto da parte di spiriti laici e progressisti, il pericolo islamico e le sue tendenze intrinsecamente liberticide. Mi spiace, ma io non mi fido della parola di quella parte di musulmani che sostengono che l'Islam sarebbe la "religione della pace" e che il fondamentalismo islamico non sarebbe il "vero islam". Non mi fido, ma soprattutto non mi basta una giustificazione del genere, considerando che a noi laici (e, spesso, agnostici o atei come nel mio caso) non interessa l' "essenza reale" di una religione - una religione è sempre una spiegazione mitica e a-razionale del mondo -, ma interessa che non causi danni ai non credenti, che non imponga i suoi miti, i suoi riti, i suoi dogmi e le sue prescrizioni a chi non crede e che quindi non limiti la libertà altrui di rifiutare quella stessa religione. Se scattiamo come molle ogni volta che una religione s'intromette nelle faccende private di ognuno di noi, a maggior ragione dovremmo farlo per una religione come l'Islam che dei tre monoteismi è il più feroce e il più stupido, forse anche a causa della sua relativa giovinezza. Intendiamoci: tutte le religioni che si vogliono assolute sono pericolose, ma almeno negli altri casi c'è ancora qualcosa che le frena e ne limita i danni. Vogliamo chiamare questo qualcosa "democrazia", "separazione tra stato e chiesa", "libertà individuale", "diritto al dissenso"? Nell'Islam, questa cosa solitamente non c'è. Al contrario, c'è una forte tendenza al proselitismo: del resto, è o non è vero che per l'Islam tutti gli esseri umani sono stati creati musulmani da Allah e che quindi convertire chi oggi non è musulmano altro non significa che riportarlo alla sua vera natura? E' o non è vero che è praticamente impossibile trovare uno stato musulmano in cui le leggi non siano più o meno influenzate dalla sharia? E' o non è vero che questo è il modello a cui tende l'Islam: introdurre sempre più elementi di sharia nello stato? Qualcuno magari dirà che sto buttando benzina sul fuoco, ma per una proporzionalità delle reazioni se i laici reagiscono con furia alle intromissioni delle gerarchie cattoliche - per ora solo verbali, anche se prontamente accolte dai nostri politici - nella vita civile sarebbe opportuno che reagissero con furia ancora maggiore contro le pretese degli islamisti. E non mi si venga a dire che, tutto sommato, se non lo si fa è perché loro sono ancora una minoranza. Per opporci a determinate tendenze già in atto dovremmo dunque aspettare che conquistino la maggioranza? Dopo quanti quartieri di grandi città islamizzati potremo cominciare a protestare? Dopo quale percentuale di donne completamente velate potremo dire che forse non va bene così? Le avvisaglie ci sono già tutte ora, forse è il caso di non minimizzare e prendere qualche misura. O forse bisognava prenderle già da un po'.
Una decina di giorni fa è apparso sul Daily Telegraph un articolo che svela il segreto di Pulcinella: entro il 2050 in Europa i musulmani non saranno più una minoranza tanto irrisoria. A causa dell'aumento dell'immigrazione dai paesi islamici e ai tassi di crescita demografica più elevati dei cittadini musulmani la tendenza è già in corso. Del resto, già oggi ci sono delle enclave in Europa dove tutto questo è immediatamente visibile: andate a Birmingham e contate le donne non soltanto velate, ma con un vero e proprio niqab addosso. A quando il burqa - che magari accetteremo in nome di un malinteso multiculturalismo? L'interessante articolo del Daily Telegraph è stato poi ripreso qualche giorno dopo dal Corriere della Sera, che ha aggiunto altri dettagli, smorzando un po' i toni. Nei giorni successivi è stato poi pubblicato un commento in cui si diceva, in sostanza, che non è detto che il tasso demografico resti costantemente così alto e che anzi tende a diminuire. Poi - più un pio desiderio che una registrazione della realtà - chi nasce e cresce in un paese occidentale ne "assorbe" a poco a poco i valori e, di conseguenza, anche un salutare scetticismo nei confronti della religione. Mi auguro che sia vero, ma se la situazione è invece quella descritta dal Daily Telegraph, io spero sinceramente di essere già morto nel 2050.
Fatto sta, però, che negli ultimi tempi mi sta cadendo un po' troppo l'occhio su notizie preoccupanti. Notizie che non fanno pensare a una evoluzione dell'Islam in senso democratico. Fuori dall'Europa, per esempio, c'è stato il caso della giornalista sudanese arrestata, insieme con altre tredici donne, perché indossava calzoni in pubblico, violando le "leggi sulla decenza". Per questa "violazione" sono previste una quarantina di frustate: non male come rispetto delle donne e della loro autonomia. Ne parla Mona Eltahawy in questo articolo sul New York Times: peccato che anche lei, come tanti altri, ripeta il vecchio ritornello secondo cui questa sarebbe una distorsione del "vero Islam", i cui insegnamenti "sottolineano la capacità di perdonare e la compassione". Non c'è che dire: una bella lettura selettiva dei precetti coranici. Oppure che dire del nuovo democratico Afghanistan? Per venire incontro alle esigenze dei talebani è stato sancito, di fatto, lo stupro delle donne all'interno del matrimonio. In Iraq, invece, si è aperta la caccia ai gay: e in questo caso non vuol dire che i gay non possono sposarsi, ma che vengono torturati e ammazzati direttamente dalle milizie, le quali restano impunite. Non so se è chiara la sottile differenza tra le due cose. A questo punto mi viene davvero da credere che sarebbe stato meglio abbandonare Afghanistan e Iraq al loro destino: con i risultati che (non) abbiamo conseguito avremmo risparmiato un bel po' di vite umane.
E qui, nel "mondo occidentale", che cosa facciamo? Mostriamo condiscendenza verso comportamenti e rivendicazioni che, se fossero avanzati da altre religioni, scatenerebbero - e a ragion veduta - una ridda di proteste e di censure. Sembra che chi sostiene questo genere di multiculturalismo abbia introiettato una certa quantità di masochismo, per cui è giusto e sacrosanto bastonare i fondamentalisti di casa nostra - le cui armi sono ancora spuntate - ma è scorretto politicamente frenare le derive fondamentaliste altrui. In questi casi sono proprio certi progressisti accecati che, novelli Quisling, si prestano alla bisogna. Giusto un paio di esempi di questi ultimi giorni. A Yale la casa editrice universitaria pubblicherà un libro sulle famigerate vignette danesi raffiguranti, tra l'altro, Maometto che, qualche anno fa, scatenarono l'ira (spesso organizzata e manovrata politicamente) dei paesi musulmani. Però, per non dare troppo fastidio, non riprodurrà quelle stesse vignette che sarebbero l'oggetto dello scandalo, oltre che l'argomento principale del libro. In Inghilterra, invece, è di pochi giorni fa il caso di un ministro - Jim Fitzpatrick - che ha abbandonato un matrimonio islamico, nell'East End londinese, perché pretendevano che lui e sua moglie sedessero in stanze separate. Per questo è stato criticato dalla comunità musulmana britannica, che ha visto nel suo gesto - tra l'altro molto tranquillo - una "grave offesa", e gli sono state chieste scuse ufficiali. Ma come? In questo caso la parità tra uomo e donna non vale più niente? In ossequio ai pregiudizi di una religione tribale - perché questo sono certi precetti - dobbiamo buttare a mare certi princìpi non negoziabili? La reazione di Fitzpatrick sarebbe stata degna di un elogio, altro che di attacchi!
In Italia, invece, in questi giorni abbiamo le polemiche sul "burquini". Per ora è solo una notizia che fa colore, ma mi auguro che non si diffonda la tendenza a far nuotare le donne travestite da mummia azzurra o da puffo gigante. O quanto meno, pretendiamo un po' di reciprocità: se in qualche paese islamico le donne (magari anche solo occidentali) potranno, se vorranno, nuotare nelle piscine pubbliche con un bikini, allora non c'è problema. Oppure, se vogliamo stabilire eccezioni per motivi religiosi, non vedo perché io non potrei - tanto per dire - nuotare nudo accampando la spiegazione che me l'hanno imposto il mio dio e la mia religione. Qualche giorno fa, invece, c'è stata la polemica sui braccianti agricoli del Mantovano e l'obbligo di bere anche durante il Ramadan, pena il licenziamento. E' evidente che chi lavora sotto il sole cocente di agosto deve reidratarsi. Non ci sarebbe neanche stato bisogno di minacciare il licenziamento, in realtà: per cautelarsi bastava far firmare uno scarico di responsabilità. Se qualcuno voleva continuare a non bere, ebbene, avrebbe dovuto dichiarare di assumersi la responsabilità di qualunque cosa fosse successa poi. Punto e fine del discorso. (Tanto per intenderci: se uno, per motivi religiosi, preferisce lasciarsi morire di sete è libero di farlo, in nome della sua libertà individuale, così come un testimone di Geova può tranquillamente lasciarsi morire pur di non subire una trasfusione. Quello che non si può pretendere è di trasferire la colpa a qualcun altro e garantire questa libertà come uno statuto di eccezione in virtù della sua appartenenza religiosa). Altrimenti vale lo stesso discorso del "burquini": chiunque, per qualsiasi motivo, potrebbe avanzare una ragione per cui la sua personalissima religione gli impedisce di fare qualcosa: se il mio dio mi vieta di rispondere al telefono o di scrivere email in un certo periodo dell'anno, posso essere esentato dal farlo senza rischiare il posto di lavoro?
Insomma, se è generalmente pericoloso fare eccezione ai princìpi di uno stato laico per favorire una religione, lo è ancora di più quando questa religione è l'Islam che, diversamente dalle altre, non conosce, negli stati in cui è praticata, la separazione tra sfera privata e sfera pubblica. Occorre vigilare e frenare, altrimenti - concessione dopo concessione - il 2050 potrebbe diventare davvero un incubo e trovarci islamizzati. Nel modo peggiore, oltretutto.
19:37 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (29)
Con A Place at the Table. The Gay Individual in American Society Bruce Bawer scrive una sorta di manifesto "moderato" sull'omosessualità. So che a descriverlo così sembra un libro di scarso interesse, ma non è per niente vero. Quello di Bawer è un saggio che merita di essere letto perché affronta questioni importanti. Certo, risente un po' del periodo in cui è stato pubblicato - il 1993 -, con tutti i dibattiti sulla faccenda dei gay nell'esercito e con la politica di Clinton che poi sfociò nell'ipocrita soluzione del "don't ask, don't tell", ma è condivisibile la tesi centrale che regge tutta l'argomentazione del libro. E' lo stesso titolo a esprimerla, attraverso la metafora del grande tavolo della famiglia americana a cui, a pieno titolo, dovrebbero sedersi anche i cittadini omosessuali. L'ideale è quindi quello dell'inclusione nella società in generale e di questo Bawer è uno strenuo sostenitore. Questo significa che ai gay non dovrebbe essere riservato - per estendere l'immagine del titolo - un piccolo tavolo a parte, tollerato da chi siede al tavolo principale. Il problema, però, è che questo "piccolo tavolo" è esattamente quello che rappresenta, agli occhi di Bawer, la subcultura gay, che invece mira a preservare la separatezza degli omosessuali, quasi attribuendo loro caratteristiche comuni costanti (al di là, ovviamente, del mero orientamento affettivo). E' per questo, tra l'altro, che Bawer detesta di tutto cuore l'uso del termine queer, proprio perché semanticamente descrive i gay come esseri "strani", "bizzarri" e, quindi, intrinsecamente diversi dal resto della popolazione.
Con queste premesse Bawer dice una cosa importante, anche ovvia, ma mai abbastanza sottolineata. Una cosa che, soprattutto, tende a essere trascurata e messa in ombra dagli "eccessi" della subcultura gay. Ovvero: non occorre fare nulla di particolare per essere gay e non c'è un modo unico di essere gay. Secondo Bawer, infatti, gli esponenti più radicali del mondo gay politico si sono accaparrati un diritto di rappresentanza delle questioni gay e hanno finito per determinare l'immagine pubblica degli omosessuali, non sempre a vantaggio di questi ultimi. Insomma, è evidente che l'autore ha il dente abbastanza avvelenato nei confronti del radicalismo gay e, lungi dall'emancipare tutti i gay e aiutarli a realizzare quell'inclusione che citavo poco sopra, lo incolpa di mantenerli in uno stato di marginalità. Tollerata, a volte accettata, spesso vezzeggiata e coccolata come simbolo di distinzione, ma pur sempre marginalità. Invece esistono tanti modi di essere gay quanti sono gli individui gay (e anche in questo risiede il senso del sottotitolo del libro: "L'individuo gay nella società americana"), tanto che - sostiene Bawer - la maggioranza degli omosessuali non coincide affatto con la minoranza dei "gay della subcultura".
Al riguardo mi viene in mente un aneddoto personale, che esula dal libro ma che esemplifica bene quest'ultimo argomento. Ero nel ristorante della palestra che frequento e stavo pranzando con un ragazzo (straniero, ma ormai da parecchi anni a Milano) che conosco superficialmente, ma con cui di tanto in tanto scambio quattro chiacchiere. Anche lui è gay e non è certamente, come si usa dire, una "velata". Ebbene, a un certo punto lui mi dice che in realtà non si sente per nulla "gay" e che quasi lo infastidisce applicare a sé il termine "gay". In quel momento ho capito benissimo che cosa intendeva dire: il termine "gay" richiamava, alla sua mente, tutta una serie di connotazioni e di caratteristiche che lui o non ha o non condivide. Ma non per questo negava o nega la sua omosessualità: mi raccontava, per esempio, di aver sempre tranquillamente risposto di sì a chi gli chiedeva se lo fosse. Il punto, infatti, è che intorno al termine "gay" si sono cristallizzate delle immagini quasi obbligatorie, mentre la sfida sarebbe di appropriarsi, individualmente, di questo termine e di metterci dentro, ciascuno di noi, le nostre caratteristiche individuali. Ognuno sia quindi gay come gli pare e andrà comunque bene.
Per realizzare questo mutamento epocale (nella percezione dei gay e dell'omosessualità agli occhi della società in generale) occorre tuttavia che i gay stessi si rendano visibili. Bruce Bawer, infatti, non è certo uno dei conservatori nostrani, i quali sostengono che l'omosessualità sia solo un fatto da vivere in privato. Tutt'altro: proprio come gli eterosessuali vivono anche in pubblico la loro affettività, non nascondendo mai quello che sono in ogni momento della loro giornata, così dovrebbero fare anche gli omosessuali, perché - e su questo punto ribatte insistentemente l'autore - non c'è nulla, nell'omosessualità, che la renda intrinsecamente inferiore rispetto all'eterosessualità. I progressi nell'acquisizione di nuovi diritti - o, per essere precisi, nell'acquisizione degli stessi diritti di tutti - e nell'emancipazione dei gay saranno possibili, più che per l'attività dei movimentisti radicali gay, quando i singoli individui gay non nasconderanno più il loro orientamento innanzitutto a chi gli sta attorno, mostrando cioè la faccia banale e quotidiana dell'omosessualità. In un certo senso Bawer invoca il superamento dell'omosessualità in quanto caratteristica "straordinaria", auspicando che questa diventi solo una qualità tra le tante, certamente fondamentale, a definire l'individuo.
In questo contesto Bruce Bawer è un sostenitore convinto del matrimonio tra le persone dello stesso sesso. Non soltanto perché il matrimonio è un'istituzione che "conserva" la società, ma anche perché aiuta a rendere visibile l'omosessualità anche a chi preferirebbe non vederla. L'argomentazione di Bawer è chiara e - se vogliamo - anche seducente: è molto più facile, e sicuramente meno fastidioso per chi volesse mantenere i gay in uno stato di minorità, condurre una vita sessuale "brada" che non vivere apertamente in coppia. In quest'ultimo caso la coppia sarebbe sotto gli occhi di tutti, sempre, e l'omosessualità non potrebbe nascondersi, cosicché a poco a poco la società si abituerebbe alla presenza (inevitabile e naturale) di un certo numero di persone gay, imparando che non sono mostri a due teste. Viceversa nulla impedisce a una persona singola di staccare la sera dal lavoro, andare in un "trombatoio" tutta la notte, e ripresentarsi comme-il-faut al lavoro al mattino dopo senza che nessuno sappia nulla: chi discrimina e odia i gay non ne è minimamente infastidito. Insomma: occhio non vede...
All'interno di tutta questa linea argomentativa, poi, Bruce Bawer scrive di questioni legate al coming-out (farlo, non farlo, come farlo, come comportarsi con i genitori e con gli amici), di gay pride, di politica (delineando gli attacchi sferrati dagli estremisti religiosi e di destra agli omosessuali americani), di società, di letteratura e di cultura (e ci offre, tra l'altro, critiche sferzanti e feroci di autori considerati dei mostri sacri nel "canone letterario" gay, come Edmund White o Paul Monette). E, ovviamente, tra una considerazione e l'altra lascia filtrare anche pezzi della sua autobiografia, specialmente nella parte conclusiva, dove racconta in maniera molto toccante il "tradimento" di una coppia di amici in occasione del loro matrimonio. Grazie a questo, il libro non è mai soltanto un saggio astratto o intellettuale, ma si cala nel vissuto, il che lo rende più umano e meno atto a suscitare antipatie - perché, avverto chi vorrà leggere il libro, spesso anche questa sarà la reazione del lettore.
Certo, di critiche da fare al libro di Bawer ce ne sarebbero. Ma mi limito a un'osservazione su un punto che a me pare resti irrisolto. Bawer sostiene che l'atteggiamento estremista di alcuni esponenti radicali dei movimenti gay americani - quelli in stile Act-Up, tanto per intenderci - è controproducente, sia per la causa gay che per la stessa immagine dei gay agli occhi di tutti gli altri cittadini, e quindi della loro accettazione a quella "grande tavola" citata nel titolo del saggio. Tuttavia sembra dimenticare che la grande spinta alla liberazione omosessuale è stata data, alla fine degli anni sessanta con i moti di Stonewall, proprio da quegli omosessuali che erano ai margini dell'omosessualità stessa. Furono insomma gli underdogs più totali - quelli che non avevano nulla da perdere - a ribellarsi e a dare la spallata finale. I movimenti gay moderati di allora (come per esempio la Mattachine Society) quanto avrebbero impiegato per raggiungere lo stesso risultato? O forse Bawer lascia intendere che lo spirito dei tempi avrebbe comunque prodotto le medesime conseguenze?
Nonostante questo, credo che A Place at the Table meriterebbe di essere tradotto e pubblicato anche in Italia. E' vero che riguarda soprattutto la società statunitense e che oggi, laggiù, potrebbe essere considerato un po' datato (ma neanche poi tanto, a dire il vero), ma la prospettiva da cui l'autore osserva e analizza la realtà gay è meno scontata di quello a cui siamo abituati oggi da noi. Un saggio molto personale, non sempre condivisibile, ma un ottimo stimolo per nuove riflessioni.
11:08 in La gaia scienza, Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (5)