Nasce e si sviluppa sotto il segno della battaglia The Bachelor, il nuovo album del talentuoso Patrick Wolf, che ormai seguo con un certo interesse da qualche anno e che non dispero, un giorno, di vedere dal vivo in Italia. Quattordici tracce che raccontano il dolore, lo scontro con il mondo, la disillusione, ma anche la riscossa e il desiderio di vivere nonostante tutto. The Bachelor si apre con i quarantasei secondi di Kriegsspiel, una sirena d'allarme che sembra annunciare un attacco aereo, a cui si collega, senza soluzione di continuità, la prima canzone vera e propria, Hard Times. Già in questo pezzo, trainante e molto ritmato, c'è in nuce il concetto che regge tutto il disco: in questi tempi duri occorre darsi da fare e impegnarsi: "Show me some revolution / And this battle will be won". Anche le immagini che accompagnano il booklet del cd sono un degno commento del contenuto del disco: Patrick sembra un cavaliere aggiornato ai nostri tempi - è biondo platino, qui - ed è ritratto in un ambiente quasi postatomico, in una foresta e circondato da oggetti che danno l'idea che vi sia accampato, nella semioscurità. Oppure, nella fotografia centrale, è in mezzo a una brughiera, con lo sguardo rivolto lontano, sullo sfondo di nubi grigie che si addensano in cielo. Queste immagini, tra l'altro, mi ricordano quelle che accompagnavano i due Want di Rufus Wainwright. Ma forse è solo una mia involontaria associazione mentale, perché già da un po' ho cominciato a considerare Patrick Wolf una sorta di versione britannica di Wainwright, con cui condivide il gusto per gli arrangiamenti sontuosi e la capacità di suonare diversi strumenti.
La terza traccia è Oblivion e attacca con alcuni sbaffi rumoristici, violentemente elettronici, che a me hanno ricordato alcuni esperimenti degli Autechre. La stessa sensazione ritorna in Count of Casualty, più avanti. Solo che qui il rumorismo non è sperimentalismo fine a sé stesso e si stempera nel suono del violino che fa da contrasto a un ritmo sincopato. Il pezzo si apre con un recitativo dell'attrice Tilda Swinton, che ritorna anche in altri brani. La canzone che dà il titolo a tutto l'album, The Bachelor, parte su una nota di solo violino e poi diventa una ballata folk sui generis. Chiudendo gli occhi ci si potrebbe davvero immaginare di trovarsi in un bosco in cui spuntino, uno dopo l'altro, folletti e gnomi e si mettano a ballare tutt'intorno agli alberi. Un pezzo di qualche anno fa s'intitolava The Libertine: è un'evoluzione, un'involuzione? In realtà qui a un certo punto Patrick Wolf canta: "Cos I know I'm not going to marry in the fall / And I'm not going to marry in the spring / I will never marry, marry at all". Non è tanto una dichiarazione d'intenti, quanto una protesta che diventa più dura (anche musicalmente) ed esplicita in un brano successivo, Battle, dove - su uno sfondo quasi metal - canta: "Battle battle battle battle / Battle the homophobe [...] Since I was 12 / It's been me VS the world / I got so sick / of being told / My identity was in minority".
Damaris è, tra tutti i brani dell'album, quello di cui mi sono innamorato al primo ascolto. Ha un inizio solenne, cadenzato dal suono delle campane, e poi un incedere drammatico e grandioso. E' una canzone cupa e intensa, con un sapore "elettrofolk" che è la cifra che contraddistingue gran parte della produzione di Patrick Wolf. La dialettica tra luce e buio, tra speranza (di un cambiamento e di una rinascita) e disperazione attraversa tutto il disco: qui è il "Dio dannato Damaris" a cui un coro di voci cristalline ingiunge di risollevarsi ("Oh rise up / Rise up / Rise up / Now / From the earth"). In Who Will? diventa un interrogativo, o meglio un'invocazione per essere liberato - che segue, senza soluzione di continuità, la precedente Count of Casualty ("In this war without an end / What peace do you defend / In this war without an end / What peace do you depend on?") - e si apre con il suono di un organo, il che le dà l'andamento di un salmo o di una preghiera intonata dalla bella voce baritonale di Wolf (che a tratti mi ricorda quella di David Bowie) - anche se con il primo verso non rinuncia a un salace double entendre: "Who will penetrate / The tightening muscle".
In Vulture si ha la sensazione di percorrere la confusione degli spazi urbani che consumano l'individuo, mentre Blackdown sembrano due canzoni in una: a una prima parte soave, fatta di solo pianoforte e voce - in cui Wolf usa la voce in una maniera che ha qualcosa del Peter Hammill di As Close As This - segue una seconda parte, il cui stacco è indicato da un tamburo più battente, con quella sonorità à la Kate Bush di Hounds of Love (un'artista che Wolf ama, visto che proprio tratto da quell'album ha spesso eseguito dal vivo Running Up That Hill). Se all'inizio è una sorta di resa dei conti con la sua storia famigliare, la conclusione si apre in un anelito quasi buddhistico di liberazione: "Desire, desire / Deep down inside of me / You are not the wrecker / nor the ruler of me [...] You are not the maker of me".
Ma il pezzo più toccante, diretto e intimo del disco è The Sun Is Often Out, dedicato all'amico Stephen Vickery, un giovane poeta suicidatosi all'età di ventisette anni: "Was your work of art so heavy / That it would not let you live?". E' una meditazione sul suicidio, ma anche sul suicida, in cui si rispecchia Wolf stesso, dalla parte di chi pur essendo ancora vivo sa che cosa significa soccombere ai propri démoni interiori: "Stephen, this is where I live now / That I have overcome my demons / And have grown out of that thinking / That would not me live or give". Ed è qui che, in modo molto esplicito, si esprime quella dialettica tra ombra e luce che attraversa tutto l'album. Proprio quando pare che il buio voglia prendere il sopravvento c'è un coro che scandisce "The sun / the sun / the sun / The sun is often out". Ed è su questa stessa nota di speranza che il disco si conclude, con The Messenger: "When all else fails / Remember always / The open road". Se il precedente album, The Magic Position, era bello e divertente, ma sostanzialmente più pop, con questo Patrick Wolf riesce a fare qualcosa di più denso e compatto, raggiungendo la piena maturità. Ormai non è più solo una promessa, ma è una promessa mantenuta.
La terza traccia è Oblivion e attacca con alcuni sbaffi rumoristici, violentemente elettronici, che a me hanno ricordato alcuni esperimenti degli Autechre. La stessa sensazione ritorna in Count of Casualty, più avanti. Solo che qui il rumorismo non è sperimentalismo fine a sé stesso e si stempera nel suono del violino che fa da contrasto a un ritmo sincopato. Il pezzo si apre con un recitativo dell'attrice Tilda Swinton, che ritorna anche in altri brani. La canzone che dà il titolo a tutto l'album, The Bachelor, parte su una nota di solo violino e poi diventa una ballata folk sui generis. Chiudendo gli occhi ci si potrebbe davvero immaginare di trovarsi in un bosco in cui spuntino, uno dopo l'altro, folletti e gnomi e si mettano a ballare tutt'intorno agli alberi. Un pezzo di qualche anno fa s'intitolava The Libertine: è un'evoluzione, un'involuzione? In realtà qui a un certo punto Patrick Wolf canta: "Cos I know I'm not going to marry in the fall / And I'm not going to marry in the spring / I will never marry, marry at all". Non è tanto una dichiarazione d'intenti, quanto una protesta che diventa più dura (anche musicalmente) ed esplicita in un brano successivo, Battle, dove - su uno sfondo quasi metal - canta: "Battle battle battle battle / Battle the homophobe [...] Since I was 12 / It's been me VS the world / I got so sick / of being told / My identity was in minority".
Damaris è, tra tutti i brani dell'album, quello di cui mi sono innamorato al primo ascolto. Ha un inizio solenne, cadenzato dal suono delle campane, e poi un incedere drammatico e grandioso. E' una canzone cupa e intensa, con un sapore "elettrofolk" che è la cifra che contraddistingue gran parte della produzione di Patrick Wolf. La dialettica tra luce e buio, tra speranza (di un cambiamento e di una rinascita) e disperazione attraversa tutto il disco: qui è il "Dio dannato Damaris" a cui un coro di voci cristalline ingiunge di risollevarsi ("Oh rise up / Rise up / Rise up / Now / From the earth"). In Who Will? diventa un interrogativo, o meglio un'invocazione per essere liberato - che segue, senza soluzione di continuità, la precedente Count of Casualty ("In this war without an end / What peace do you defend / In this war without an end / What peace do you depend on?") - e si apre con il suono di un organo, il che le dà l'andamento di un salmo o di una preghiera intonata dalla bella voce baritonale di Wolf (che a tratti mi ricorda quella di David Bowie) - anche se con il primo verso non rinuncia a un salace double entendre: "Who will penetrate / The tightening muscle".
In Vulture si ha la sensazione di percorrere la confusione degli spazi urbani che consumano l'individuo, mentre Blackdown sembrano due canzoni in una: a una prima parte soave, fatta di solo pianoforte e voce - in cui Wolf usa la voce in una maniera che ha qualcosa del Peter Hammill di As Close As This - segue una seconda parte, il cui stacco è indicato da un tamburo più battente, con quella sonorità à la Kate Bush di Hounds of Love (un'artista che Wolf ama, visto che proprio tratto da quell'album ha spesso eseguito dal vivo Running Up That Hill). Se all'inizio è una sorta di resa dei conti con la sua storia famigliare, la conclusione si apre in un anelito quasi buddhistico di liberazione: "Desire, desire / Deep down inside of me / You are not the wrecker / nor the ruler of me [...] You are not the maker of me".
Ma il pezzo più toccante, diretto e intimo del disco è The Sun Is Often Out, dedicato all'amico Stephen Vickery, un giovane poeta suicidatosi all'età di ventisette anni: "Was your work of art so heavy / That it would not let you live?". E' una meditazione sul suicidio, ma anche sul suicida, in cui si rispecchia Wolf stesso, dalla parte di chi pur essendo ancora vivo sa che cosa significa soccombere ai propri démoni interiori: "Stephen, this is where I live now / That I have overcome my demons / And have grown out of that thinking / That would not me live or give". Ed è qui che, in modo molto esplicito, si esprime quella dialettica tra ombra e luce che attraversa tutto l'album. Proprio quando pare che il buio voglia prendere il sopravvento c'è un coro che scandisce "The sun / the sun / the sun / The sun is often out". Ed è su questa stessa nota di speranza che il disco si conclude, con The Messenger: "When all else fails / Remember always / The open road". Se il precedente album, The Magic Position, era bello e divertente, ma sostanzialmente più pop, con questo Patrick Wolf riesce a fare qualcosa di più denso e compatto, raggiungendo la piena maturità. Ormai non è più solo una promessa, ma è una promessa mantenuta.
lo vidi a legnano quattro o cinque anni fa. so che suona folle, ma è vero.
un bel concerto. lui era ancora nel periodo più stravagante e da ballate caustiche in dodici ottavi.
Posted by: giorgio fontana | 10/07/2009 at 20:53
sarà in provincia di pordenone l'8 agosto, a sesto al reghena.
Posted by: alessia | 20/07/2009 at 09:16
Ciao, complimenti per la recensione.
Bellissimo l'ultimo album di questo giovane talento musicale.
E' vero sarà a Pordenone ma mi pare sia solo 1 concerto per solo piano.
Bye bye.
Posted by: Salv | 21/07/2009 at 13:07