Troppo tardi ho capito l'errore che ho commesso quando ho programmato teutonicamente, cioe' con largo anticipo, questo viaggio in Inghilterra. Ho riservato un giorno solo a Liverpool, pensando che non ne valesse poi tanto la pena. Me ne sono pentito: un giorno non basta per vedere tutto quello che Liverpool ha da offrire. La citta' e' inaspettatamente bella e affascinante, nel solito modo un po' rude che hanno le citta' di questa parte dell'Inghilterra, ma senza dubbio un paio di spanne sopra le altre.
Ne resto subito incantato, malgrado in albergo vogliano farmi pagare la camera cinque sterline in piu' rispetto al prezzo a cui l'avevo prenotata su Booking.com. Alle mie rimostranze ripristinano senza fiatare il prezzo originario (ma poi restero' comunque fregato io, perche' omettono di dirmi che la colazione non e' inclusa e io me ne accorgo solo il mattino dopo, quando e' gia' in fase di digestione, e non ho piu' la forza di contestare le dodici e passa sterline del buffet, che' a saperlo ci avrei dato dentro ancora di piu').
Sbrigata questa formalita' mi fiondo verso i "docks", la zona portuale rinnovata, attraversando la pedonale Church Street. A colpirmi e' l'ariosita' e l'ampiezza della strada, che sbocca sulla zona portuale. Con la sua monumentalita' ricorda i tempi della grandezza passata di Liverpool, quando la citta' aveva un ruolo fondamentale nell'Impero Britannico. Faccio due passi lungo il Mersey e poi mi dirigo all'Albert Dock, che e' il piu' grande ed e' stato trasformato in un insieme di musei e luoghi vari "ricreativi". Tra l'altro devo circumnavigare il cantiere di quello che sara' il "Museo di Liverpool", destinato a essere aperto l'anno prossimo.
Vado come prima cosa alla Tate Liverpool: e' gratuita, come non approfittarne? (Ma del resto - scopriro', durante la giornata, che tutti i musei di Liverpool sono gratuiti). Dabbasso c'e' la "sala Sol LeWitt", con un'unica grande parete dipinta in molteplici colori, un po' psichedelica, dell'artista americano. Ai piani superiori un'esposizione dedicata alla scultura. Siccome non vorrei sembrare superficiale e banale, non diro' che di primo acchito mi sembra di essere in una discarica, anche se qui e la' c'e' qualche nome e qualche opera famosa: un dipinto di Picasso, una tela bucherellata di Fontana, un tubo al neon di Flavin, un quadro di Bacon in cui una figura ha i genitali pasticciati (per non far capire se e' uomo o donna, spiega la didascalia), una testa di Modigliani, un pisciatoio di Duchamp, un quadro di Dali' e il suo famoso telefono-aragosta. C'e' persino la famosa merda in scatola di Manzoni, accanto al fiato d'artista, contenuto in un palloncino ormai sgonfio e spiaccicato contro l'asse di legno a cui era attaccato per un filo. Ci sono un sacco di scolaresche in visita: anche loro fanno esperimenti di arte concettuale, suppongo. Alla fine, dopo aver fatto un disegno con matita bianca su carta nera, lo strappano in mille frammenti. Vorrei quasi avvicinarmi e dire: "Non ripulite nemmeno, tanto nessuno si accorgera' della differenza. Anzi, rischiate pure di diventare famosi".
All'interno dell'Albert Dock c'e' anche l'International Slavery Museum, che non e' dedicata, come qualche pervertito dei miei lettori potrebbe pensare, alla storia del S/M o del bondage, bensi' alla schiavitu' vera e propria. Partendo da quella che, storicamente, ha reso ricca Liverpool. Quello che e' interessante di questo museo e' infatti proprio il legame che stabilisce tra il passato e il presente: ci sono per esempio le indicazioni di quali edifici di Liverpool furono costruiti grazie ai soldi che i mercanti del luogo avevano fatto attraverso il traffico degli schiavi, cosi' come c'e' l'elenco delle strade che portano, ancora oggi, i nomi di quegli stessi personaggi che sulla schiavitu' hanno costruito le loro fortune. Ad accompagnare poi una serie di oggetti in esposizione ci sono video di uomini e donne, in molti casi neri, che danno la loro testimonianza su che cosa e' stata la schiavitu' in passato. All'interno del museo, poi, c'e' una mostra fotografica dedicata ai neri famosi che "ce l'hanno fatta": da Nelson Mandela a Wole Soyinka, da Derek Walcott a Oprah Winfrey, in tutti i settori della societa' e della cultura.
Poiche' Liverpool e' la citta' dei Beatles, io non visito il museo a loro dedicato (che, tra l'altro, e' uno dei pochi a pagamento) e l'unica esperienza beatlesiana che faccio consiste nel sentire - per puro caso - un trio di ragazzi che eseguono, anche piuttosto bene, "Twist and Shout" nel nuovissimo centro commerciale Liverpool One, per il diletto degli acquirenti.
Nel pomeriggio faccio un salto alla Walker Art Gallery, dove sono in corso due mostre: una dedicata ai pittori inglesi del ventesimo secolo che, rifiutando gli schemi artistici tradizionali, cercano di fare qualcosa di innovativo ("New Radicals. From Sickert to Freud"). La guardo velocissimamente e mi concentro di piu' sull'altra, dedicata ai ritratti del fotografo inglese Cecil Beaton, che coprono tutto il periodo della sua attivita', dagli anni trenta e quaranta - incluso quando lavoro' per il governo - fino agli anni ottanta. Oltre alle celebrita' piu' celebri, che lui fotografava per "Vogue", come la Audrey Hepburn con il cappello la cui foto e' stata scelta per il manifesto della mostra, ci sono anche foto curiose di una Elisabetta II appena dodicenne e di un principe Carlo ancora bambino.
Liverpool vanta poi la presenza di due cattedrali, posizionate strategicamente ai due capi di un'unica strada che - quando si dice il caso - si chiama Hope Street. Le visito entrambe. A sud c'e' la cattedrale anglicana (modestamente indicata con il nome di Liverpool Cathedral), che si trova in una bella posizione lievemente rialzata rispetto alle strade che vi conducono. Da li' si ha quasi la sensazione di dominare la citta', di respirare piu' a fondo. E' stata costruita all'inizio del novecento, in stile neogotico. Quello che non finisce mai di sorprendermi, in queste cattedrali protestanti, e' quello che non vediamo mai in quelle cattoliche: non soltanto c'e' lo shop - che, in effetti, sta prendendo piede anche da noi -, ma quasi sempre c'e' anche un caffe' interno, per ristorare anche il corpo oltre che lo spirito dei fedeli. In questo caso il caffe' e' in un mezzanino sopra lo shop. L'altra cattedrale e' quella cattolica e ha il roboante nome di Metropolitan Church of Christ the King (sticazzi!). Costruita nel 1967, e' ipermoderna: su pianta tonda, sembra una tenda indiana, in cima alla quale ci sono degli spuntoni che formano una sorta di corona. Dentro, tutto un gioco di luci - azzurre, rosse - che sembra quasi di essere in discoteca. Ma lo spettacolo piu' divertente e'quello che vedo andando da una cattedrale all'altra: frotte di studenti con il tipico mantello e il tipico cappello dei neolaureati. Ci dev'essere appena stata una cerimonia di assegnazione delle lauree e loro, tutti carini, vanno a festeggiare con amici, parenti e genitori. In quel momento provo una punta d'invidia e di malinconia perche' per loro si e' appena concluso un ciclo (e un periodo della vita) e se ne apre un altro, pieno di possibilita' e di futuro. Dall'altro, pero', provo anche sollievo all'idea di non essere al posto loro.
La sera la passo - come ho gia' raccontato - a vedere "Bruno" (con l'Umlaut!) di Sacha Baron Cohen, al F.A.C.T, che e' un centro culturale con tre sale cinematografiche, una galleria d'arte e un paio di bar, situato nella zona dei Ropewalks, una serie di strade piacevolmente scrostate e cadenti, con quell'aria "alternativa" che caratterizza molti quartieri simili di altre citta'.
Il giorno dopo - che per la cronaca e' l'11 luglio - vado a Birmingham. E li' sara' tutt'altra musica.
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