Birmingham e' una delle citta' piu' brutte che abbia visto in vita mia. Credo che riesca a battere persino certe citta' tedesche che ho visitato in passato, tipo Dortmund o Essen. Pero' ci sono venuto lo stesso, anche se subodoravo quello che mi aspettava. Con Birmingham avevo una specie di conto in sospeso: nel 1992 avevo prenotato e gia' quasi pagato un corso d'inglese estivo alla locale universita', poi conobbi M.G., un melomane con il quale ebbi una relazione durata circa cinque mesi e che mi convinse invece ad andare in vacanza con lui a Salisburgo e a Bayreuth. Cosi' annullai tutto quanto e andai dove mi portava il cuore, per cosi' dire. Per come poi fini' la storia, me ne sono pentito. Andare a Birmingham era quindi un modo per capire che cosa mi fossi perso diciassette anni fa. Il secondo "finto ricordo" di questa citta' mi deriva invece dalla lettura di "Il dispatrio", di Luigi Meneghello. In questo libro lo scrittore racconta di quando ando' per la prima volta in Inghilterra, dopo la guerra - successivamente avrebbe inaugurato la cattedra di italianistica a Reading -, e la prima citta' in cui approdo' fu appunto Birmingham. Meneghello racconta di averla attraversata, in cerca del "centro" e, non trovandolo, fermo' un passante e gli chiese dove fosse. Quello gli rispose: "Il centro l'ha gia' passato". Insomma, era cosi' bella da non essersene nemmeno accorto.
L'albergo che ho prenotato a Birmingham - il Paragon, in Alcester Street - sarebbe a dieci minuti a piedi dal centro. Questo, almeno, si legge sul sito internet. E in effetti non e' lontano dal centro, ma per raggiungerlo bisogna attraversare una zona che pare uscita da un bombardamento o da una qualche catastrofe epocale. Qui si vede chiaramente che cosa diventa una citta' dopo che e' stata de-industrializzata. Digbeth - questo il nome del quartiere - doveva essere una zona di magazzini, depositi e, probabilmente, industrie. Di tutto cio' non resta piu' nulla, se non dei reperti di un'epoca ormai remota. Archeologia industriale. E cosi' mi ritrovo tutto il tempo a pensare - ancora piu' di quanto non avessi fatto per Manchester e Liverpool - a che cosa devono essere state queste citta' negli anni ottanta e nei primi novanta, dopo la crisi degli anni settanta e dopo la forzata dismissione delle industrie operata nell'epoca thatcheriana. Piu' di una volta mi viene da confrontarle con le citta' dell'ex DDR, perche' e' soprattutto a queste che le citta' del cuore industriale dell'Inghilterra assomigliano. In modo particolare Birmingham, che e' stata pesantemente bombardata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso, in tutto questo deserto post-industriale, l'albergo e' piuttosto grazioso: e' un grande edificio in stile "gotico vittoriano" e trasuda una grandeur da tempi passati.
Depositati i miei bagagli mi avventuro anch'io, come Meneghello, in cerca del centro cittadino. Come un mastodonte si staglia, davanti alla stazione, l'imponente centro commerciale del Bullring. Tutto vi ruota attorno ed e' inevitabile capitarci davanti piu' volte durante la stessa giornata. Ristrutturato e rifatto da cima a fondo negli ultimi anni, e' una specie di incubo: toglie il respiro. Meglio forse la strada che c'e' al suo fianco - Hurst Street nella parte meridionale e Hill Street verso quella settentrionale? No, direi di no. Forse e' anche peggio: e' qui, in particolare, che ho la sensazione di camminare in una citta' di una (ex) repubblica sovietica. Sembra quasi che qualcuno, dall'alto, abbia calato una serie di blocchi di cemento, in modo piu' o meno casuale. Dev'essere il risultato dell'urbanistica degli anni settanta. Oltre a questi edifici anonimi, c'e' una viabilita' delirante - praticamente delle tangenziali che attraversano il centro - e una gran copia di parcheggi multipiano - dev'essere una passione degli inglesi, questa - e di centri commerciali a confronto dei quali il Bullring svetta per eleganza e nobilita'. Arrivo fino a Victoria Square, che almeno si salva, con l'imponente edificio del Museum & Art Gallery (che visitero' il giorno dopo) e, sulla sinistra, la brutta biblioteca cittadina, un altro centro commerciale attraverso il quale si sbuca nella Centenary Square, con la Symphony Hall, l'appezzamento di terreno dove verra' costruita la nuova biblioteca per il 2013, e l'International Congress Centre inaugurato nel 1991 (con il contributo dell'Unione Europea per lo sviluppo delle zone depresse in Europa).
In realta', a partire da li' si apre la zona dei canali, che e' stata rinnovata con una certa cura negli ultimi anni. Anche se va detto che il tutto crea una sensazione di posticcio: la zona che ruota intorno a Brindleyplace viene venduta come il luogo dove "godersi la vita" in una serie di negozi chic, di ristoranti e caffe' eleganti. Anche la strada principale - New Street - che parte da Victoria Square e si snoda fino a sbucare al Bullring assomiglia tanto alle vie pedonali di certe citta' tedesche, piene di negozi di ogni genere. Non credo di avere mai visto un posto con una tale densita' di centri commerciali come Birmingham. E qui invito i lettori piu' sensibili a saltare le prossime righe, perche' mi sta venendo un attacco di Kulturkritik. Non capisco infatti perche' ai giorni nostri, quando si apre uno spazio vuoto all'interno di una citta', lo si debba per forza riempire con negozi su negozi, centri commerciali a iosa, come se l'unica esperienza sensata che l'umanita' contemporanea possa fare fosse comprare, comprare, comprare... E se qualcuno volesse fare qualcos'altro? E se uno fosse stufo di acquistare (per lo piu' cose che non gli servono)? Solo attraverso il consumo siamo giustificati in quanto abitanti della contemporaneita'? Perche' non costruire, per esempio, abitazioni anche in queste zone centrali - abitazioni normali per gente normale, intendo; case che la gente possa occupare e non oggetti che diventino uno status symbol? Ma forse le mie sono domande troppo ingenue o troppo stupide. Eppure non posso fare a meno di pensare che i cosiddetti "valori dell'Occidente" si sono ridotti, stringi stringi, proprio soltanto a questo: forse sta davvero giungendo l'ora di chiusura dei giardini dell'Occidente, come scrisse qualcuno.
Il giorno dopo, per provare a fare qualcosa di diverso, vado a nuotare. Ho cercato le piscine comunali di Birmingham e ne ho trovata una non troppo lontana dall'albergo, a Moseley Road, nel quartiere di Balsall Heath. Dopo aver attraversato un'altra delle zone di desolazione postindustriale di cui sembra abbondare Birmingham arrivo all'agognata piscina. L'edificio e' chiaramente un residuo vittoriano. Ci entro. Bene: giuro che mai piu' mi lamentero' delle piscine di Milano. Quando arrivo alla vasca vera e propria, chiedo ai bagnini dove siano gli spogliatoi. Loro mi indicano le cabine che attorniano la vasca. "Ah - chiedo stupito - ma come faccio a chiuderle?". Loro mi suggeriscono di mettere un asciugamano sopra la porta. "Ma non e' sicuro!" ribatto io, ingenuamente. Loro insistono a dire che non ci entrera' nessuno, che non devo preoccuparmi. Cosi' mi faccio le mie quaranta vasche in stile "strabico", cioe' con un occhio sempre puntato verso la mia cabina. Per dare un'idea dell'effetto che mi fanno gli interni della piscina: avete presente certi servizi giornalistici del tipo "Hanno riaperto il tale centro sportivo di Kabul chiuso dai tempi dell'invasione sovietica?". Ecco, esattamente quello.
"Non capisco infatti perche' ai giorni nostri, quando si apre uno spazio vuoto all'interno di una citta', lo si debba per forza riempire con negozi su negozi, centri commerciali a iosa..."
Non saprei, forse è che un negozio porta posti di lavoro e fa girare l'economia (i commessi, il magazzino, la merce che va e che viene), boh. Comunque, è uno squallore.
Posted by: Onan | 19/07/2009 at 00:30