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17:58 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (2)
17:21 in Due giri intorno al mio ombelico | Permalink | Comments (2)
" PREOCCUPARSI
Come mia madre e mio padre prima di me,
io sono bravo in questo. Il trucco è preoccuparsi
quando tutto vi sta andando bene:
siete ricchi e innamorati, e il vostro château
è circondato da grandi giardini alla francese,
e voi d'un tratto sapete che è troppo bello per esser vero.
'Forse, a mia insaputa,
il mio corpo già ospita una malattia mortale,
oppure il mio amante mi odia in segreto e persino ora
sta tramando la mia rovina'.
Non è probabile, ovviamente,
ma per l'amor del cielo, usate un po' d'immaginazione!
Pensate a che cosa potrebbe sorprendervi
come una palla di neve nella schiena.
Se siete fortunati dovreste preoccuparvi.
Edipo, vi ricorderete, aveva qualche problema al riguardo. "
(Worry - Like my mother and father before me, / I am good at this. The trick is to worry / when everything is going right for you: // you are wealthy and in love, and your château / is surrounded by extensive formal gardens, / and you suddenly know this is too good to be true: // "Perhaps, unbeknownst to me, / my body already harbours a fatal disease, / or my lover secretly hates me, and even / now is plotting my downfall." // It isn't likely of course, / but for heaven's sake use your imagination! / Think of what could surprise you / like a snowball in the back. // If you are fortunate you should worry. / Oedipus, you may recall, had a problem with this.)
John Ash, da The Parthian Stations. Traduzione mia
11:05 in Le parole degli altri | Permalink | Comments (4)
Approfittando del fatto che era in programmazione a Londra, sono andato a vedere Katyn, il film di Andrzej Wajda che, a quanto sembra, non uscirà mai in Italia (ma potrei anche sbagliarmi). Due ore in polacco con i sottotitoli inglesi, ma nonostante questo una pellicola che tiene lo spettatore inchiodato alla poltrona. Alla base del film c'è un episodio storico realmente accaduto in Polonia durante la seconda guerra mondiale: il massacro, da parte dei sovietici, di migliaia di prigionieri polacchi nella foresta di Katyn. In seguito a un patto infernale tra nazisti e comunisti la Polonia era stata spezzata in due e le due potenze se ne erano spartite le spoglie: la Germania ne occupava la parte occidentale, l'Unione Sovietica quella orientale. Wajda racconta gli effetti di questa spartizione - e della successiva ostilità tra i due stati - concentrando lo sguardo su una singola famiglia, quella dell'ufficiale polacco Jerzy. Mentre questo viene arrestato dai sovietici e inizialmente internato in un campo di prigionia, suo padre Jan, professore all'Università di Cracovia, viene catturato e deportato dai nazisti. Restano, in attesa di notizie, le due mogli e la bambina piccola di Jerzy. Tutti sanno che il massacro è stato compiuto dai sovietici, ma questi ultimi si affrettano a riscrivere la realtà storica, spostando di un anno l'eccidio e attribuendone la colpa ai nazisti. Dopo la guerra, il puro e semplice fatto di scrivere su una lapide "1940" come data di morte, associandola al massacro di Katyn, è sufficiente per attirare su di sé la disapprovazione dei nuovi governanti comunisti. Un atto banale diventa così un atto di opposizione e una dichiarazione di patriottismo, una rivendicazione di libertà per la Polonia.
Nel film gli eventi si susseguono in ordine cronologico e arrivano fino alla conclusione della guerra e alla "liberazione" della Polonia (e alla conseguente inclusione del paese nel blocco sovietico), ma l'attenzione del regista si sposta in continuazione dalla famiglia di Jerzy e del professore su una serie di vicende ed episodi secondari, che talvolta si esauriscono nel momento della loro rappresentazione, ma che servono comunque a illuminare la condizione della Polonia: penso, per esempio, al giovane Tadeusz, che muore mentre cerca di fuggire perché braccato dai soldati sovietici nella Cracovia del dopoguerra. Il suo crimine è semplicemente quello di aver strappato un manifesto di propaganda che esalta l' "amicizia" dell'Unione Sovietica. Katyn è anche uno studio dei meccanismi con cui i vari personaggi si adeguano (o non si adeguano, in molti casi) al modo in cui viene emendata la realtà storica: in pratica quello che viene richiesto ai polacchi, dopo la fine della guerra, è di rinunciare alla propria memoria e di sostituirla con una finzione gradita al nuovo regime. Ma siccome questa memoria coinvolge gli affetti più intimi dei personaggi, è come se venisse chiesto loro di rinunciare alla propria vita. I vari episodi mostrano in che modo molti mantengano intatta la propria dignità anche in circostanze difficili o, viceversa, come fanno i conti con la loro coscienza nel caso in cui abbiano ceduto all'opportunismo. Per esempio Andrzej - soldato e amico di Jerzy - entra sì a far parte del nuovo esercito polacco, ma poi, preda di rimorsi di coscienza, decide di farla finita e si spara.
Per il finale Wajda riavvolge la pellicola, per così dire, e torna indietro di qualche anno, scegliendo di rappresentare il massacro di Katyn, in una lunga scena che è al contempo molto drammatica e molto sobria. Lo spettatore ormai sa che cosa è accaduto - ha visto persino qualche breve ripresa da documentari dell'epoca -, ma ora lo vede accadere: il racconto tace e ad esso si sostituisce la ricostruzione nuda e cruda, oltre che molto grafica, dell'eccidio. I prigionieri polacchi vengono condotti dai sovietici in una stanza e uccisi con un colpo alla nuca dai boia che li aspettano nascosti dietro la porta e poi lavano il pavimento con secchiate d'acqua. Altri vengono fatti inginocchiare davanti all'enorme fossa collettiva e freddati direttamente lì, senza alcuna pietà. Una delle ultimi immagini è quella della gru che ricopre con la terra masse di cadaveri.
21:27 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (4)
Questa volta, a Londra, ho scelto di alloggiare alla Connaught Hall, una delle residenze universitarie della University of London. La mia preferita, quella della London School of Economics che si trova a High Holborn, non era ancora aperta ai turisti e perciò ho dovuto trovare una soluzione di ripiego. La sistemazione era molto basic, ma per trenta sterline a notte, colazione inclusa, non potevo pretendere di più. Inoltre è in una delle zone più belle e tranquille di Londra: Bloomsbury, a una decina di minuti a piedi dalla folla di Oxford Street e di Soho.
Al mio arrivo, avevo poche idee e pochi programmi, ma chiari. Del resto, come mi ha detto R.S. l'ultima sera, mentre cenavamo in un ristorantino bengali molto grazioso in Waterloo Road, "ormai Londra la conosci abbastanza bene, no?". Sì, così posso permettermi di scegliere poco, ma bene: non più di un museo (o una mostra) al giorno.
Il primo giorno l'ho dedicato a Gay Icons, la mostra in corso fino al 18 ottobre alla National Portrait Gallery. E' una mostra abbastanza agile, che si vede in un'ora o poco più, e l'idea da cui parte è geniale nella sua semplicità. Gli organizzatori hanno chiesto a dieci personaggi pubblici celebri, tutti gay o lesbiche, di indicare ciascuno sei personalità che rappresentano le loro "icone gay". Queste ultime non dovevano essere necessariamente gay, ma dovevano essere in qualche modo dei modelli o una fonte d'ispirazione (o di forza, o di coraggio), per i personaggi interpellati. Per ognuna delle icone scelte sono stati esposti dei bei ritratti fotografici, accompagnati da un breve testo in cui ogni personaggio spiegava le motivazioni alla base delle sue scelte. Alcuni dei "selezionatori" sono poco noti in Italia, perché magari si tratta di esponenti politici o del movimento gay britannico (come Chris Smith e Ben Summerskill), altri sono invece piuttosto famosi e sono scrittori come Alan Hollinghurst e Sarah Waters, vere e proprie celebrità come Elton John, o attori come Ian McKellen. Le "icone" che ne risultano sono di tutti i tipi e assolutamente trasversali: da nomi ultra-intellettuali come Ronald Firbank, Gerard Manley Hopkins o Čajkovskij (tutti e tre citati da Hollinghurst) si arriva a nomi più "pop" come Jeff Stryker, i Village People o Gianni Versace (citato, quest'ultimo, da Elton John). Accanto a nomi scontati, come Quentin Crisp, Harvey Milk o Peter Tatchell, spuntano qui e là anche dei nomi inattesi, come per esempio John Lennon o Nelson Mandela. I visitatori, infine, potevano indicare su una cartolina quale fosse la loro "icona gay", spiegando il perché della loro scelta. Ho percorso tutta la mostra, inoltre, con un senso di commozione: a Londra una cosa così la fanno, a Milano abbiamo suor Letizia che censura una mostra su "arte e omosessualità".
Il secondo giorno sono andato a visitare, su suggerimento di C., la Wallace Collection, che si trova nella Hertford House in Manchester Square, una piazza silenziosa ed elegante a poca distanza da Bond Street. La Wallace Collection è uno di quei musei che si fanno poca pubblicità ed è quindi un po' fuori dalle rotte battute dai turisti. Anch'io l'avrei ignorato, se non me l'avesse segnalato C. Come leggo dal loro sito, qui sono esposte le opere d'arte "collezionate nel diciottesimo e diciannovesimo secolo dalle prime quattro marchese di Hertford e Sir Richard Wallace". La vedova di quest'ultimo, poi, ha donato tutto allo stato britannico. Al di là dei quadri - C. mi aveva consigliato caldamente L'altalena di Fragonard, un dipinto deliziosamente impertinente - e degli oggetti di arredamento esposti - come per esempio le splendide ceramiche di Sèvres -, è soprattutto la casa in sé a meritare una visita. Senza contare, poi, che è tutto gratuito e si guarda con tranquillità, senza dover sgomitare tra la ressa.
Nemmeno il terzo museo che ho visitato è famosissimo ed è in una zona piuttosto defilata, a Shoreditch, una ventina di minuti a piedi dalla fermata della metropolitana di Old Street. Si chiama Geffrye Museum ed è dedicato agli arredamenti d'interni e ai giardini delle case inglesi della classe media dal diciasettesimo secolo ai giorni nostri. Anche in questo caso l'edificio vale la pena di essere visitato di per sé, infatti fino al 1914 è stato un ospizio per i poveri che ospitava una quarantina di persone distribuite in quattordici "appartamenti" ciascuno di quattro camere. Della sua struttura originaria sopravvive ancora, in parte, la cappella dove si celebrava l'obbligatoria funzione religiosa della domenica. Solo in seguito è stato adibito a museo. Qui, in una serie di stanze una dopo l'altra, sono ricostruiti con la maggior fedeltà possibile - e, in molti casi, con oggetti d'epoca - i salotti "tipici" di ogni periodo. Dei pannelli riportano dei disegni che raffigurano le case, dal seicento fino ai giorni nostri, ripercorrendo gli sviluppi nel gusto dell'arredamento e, in corrispondenza ad essi, le evoluzioni sociali della classe media. Scendendo poi nel seminterrato c'è uno spazio dedicato alle mostre temporanee. In questi giorni ce n'è una che mi ha entusiasmato, un po' perché soddisfa il "voyeur" che c'è in me e un po' perché mi dà la possibilità di sognare tutte le vite parallele che non ho. Si tratta di "Ethelburga Tower. At home in a high-rise". Ethelburga Tower è un palazzone davanti al Battersea Park e il fotografo Mark Cowper, che ci abita, ha pensato bene di fotografare ogni singolo appartamento, dalla medesima prospettiva, invitando gli abitanti a rimanere, se volevano, e a continuare a fare quello che stavano facendo, senza rimettere appositamente in ordine la stanza. Quello che ne risulta è una sequenza fotografica appassionante, stralci di vita e di intimità londinese incredibili: c'è di tutto e guardando ogni singola fotografia ci si può immaginare di essere, di volta in volta, uno degli abitanti di ogni singolo appartamento.
Confesso poi - con mia somma vergogna - di essere entrato per la prima volta nella National Gallery. L'ho sempre evitata perché i musei troppo grandi mi spaventano: ci vado, di solito, quasi per un senso del dovere. "Come? Sei stato a Parigi/Madrid/San Pietroburgo e non hai visto il Louvre/Prado/Ermitage?". Be', la National Gallery è sì enorme, ma è davvero qualcosa di speciale. Io ci sono rimasto poco più di tre ore, ma mi sono ripromesso di tornarci la prossima volta che andrò a Londra. Restarci più a lungo non ha molto senso, perché c'è un limite a quanto si può "assimilare". In ogni caso, posso dire che davvero questo museo - che per di più è gratuito! - è una vera e propria storia dell'arte condensata, in cui i percorsi sono ben delineati e l'ordine cronologico e spaziale non dà adito ad alcuna confusione. Senza contare che ci sono davvero i massimi artisti di ogni epoca. Ecco, ora ho un motivo in più per visitare di nuovo Londra.
21:18 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (0)
11:11 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (9)
Io avevo un po' idealizzato le localita' di mare in Inghilterra e me le immaginavo come dei posti tranquilli, un po' sonnacchiosi, con case bianche in stile giorgiano. Una roba un po' da vecchi signori, insomma. Brighton l'avevo gia' vista anni fa, un paio di volte, cosi' ho pensato di puntare su Bournemouth, dove sono rimasto tre notti. Troppe, forse, considerando che l'ultimo giorno ho avuto tempo pessimo. In ogni caso, dopo tutto il trottare dei giorni precedenti, non e' stato neanche male riposarsi tre giorni "al mare". Per una coincidenza sono finito in un albergo "gay", senza averlo espressamente cercato, ma e' stata una piacevole sorpresa trovare la bandierina arcobaleno all'ingresso e una copia della piccola guida dei locali gay della citta'. Poi poco importa che, in realta', gli ospiti dell'albergo fossero solo coppie etero di mezza eta': anche questo dimostra l'apertura della societa' inglese e i passi in avanti che sono stati fatti qui da una quindicina d'anni a questa parte. L'albergo si chiama Claremont, in St. Michael's Street: anche in questa circostanza, vale la pena menzionarlo per chi volesse andarci. Grande gentilezza da parte dei gestori e, soprattutto, un'ottima colazione. E poi a me piaceva in particolare svegliarmi sentendo il rumore dei gabbiani.
Da fare, a Bournemouth, non c'e' molto, se non passeggiare sul lungomare - e la citta' viene pubblicizzata anche per le sue sette miglia di lungomare -, andare a fare un giro sul molo, il "pier", forse meno famoso di quello di Brighton, guardare i surfisti - o quelli che tentano di fare surf, perche' io li ho visti piu' galleggiare abbracciando la tavola che non cavalcare le onde. Dal mare si puo' risalire in citta', il cui centro urbano e' piu' in alto rispetto alla spiaggia, attraverso i bei giardini che approdano sulla animata piazza centrale, chiamata concisamente "the Square". Nelle zone pedonali del centro spira ancora una certa aria di grandezza vittoriana, ma ormai e' il turismo di massa a predominare. Qui faccio la conoscenza, per la prima volta, con quella forma di turismo particolare che sono i corsi di lingua per adolescenti. Bournemouth, infatti, e' invasa da orde di ragazzini, italiani e spagnoli per lo piu', che buttano i soldi di mamma e papa' per un corso d'inglese in certe scuole molto pubblicizzate anche in Italia, senza imparare quasi nulla perche' poi si muovono solo in branchi rigorosamente mononazionali, continuando a parlare la loro lingua madre.
Attaccata a Bournemouth c'e' Poole, dove faccio un'escursione di una mezza giornata: la si raggiunge comodamente con un autobus urbano. In realta' le due citta' formano un unico grande agglomerato urbano con poco piu' di trecentomila abitanti. La prima impressione e' abbastanza agghiacciante: la stazione degli autobus e' dietro all'orribile centro commerciale "Dolphin", in mezzo a un deserto di costruzioni in cemento armato in stile anni settanta. Ma poi, se si ha la pazienza di attraversare il centro commerciale, si sbuca nella High Street vecchia e il sapore e' piu' da citta' marina di villeggiatura. Ci sono persino delle bancarelle al centro della strada. Percorrendola fino in fondo si arriva al quay, il vecchio porticciolo, e alla old town. Che le due citta' sono letteralmente attaccate me accorgo anche l'ultima mattina quando, con un tempo da tempesta incombente, "misuro a passi lenti" il lungomare di Bournemouth e, con il sottofondo delle onde, arrivo praticamente fino a Poole.
09:53 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (0)
22:01 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (4)
In giornata si puo' fare, da Birmingham, una bella escursione a Stratford-upon-Avon, che e' piccina (poco piu' di ventimila abitanti, quasi niente rispetto al milione circa di Birmingham), ma che ha comunque tutti i negozi di tutte le principali catene del paese. Ma, a parte questo, Stratford-upon-Avon si e' sottratta a un relativo anonimato perche' e' la citta' natale di William Shakespeare. E intorno a Shakespeare, quindi, ruota tutto quanto. Io, da bravo turista, non ho evitato i percorsi obbligati e ho visitato la casa natale e le altre case che, in qualche modo, hanno a che fare con il Bardo. Si paga la modica - si fa per dire - cifra di dodici sterline e si ha accesso a tutte quante. La piu' interessante, ovviamente, e' quella natale, intorno a cui sono stati costruiti dei giardini (con le piante citate nelle opere scespiriane), dopo che sono state abbattuti gli edifici intorno. Dopo una breve introduzione, si fa il giro di tutta la casa e in ogni stanza c'e' una guida che ti spiega il perche' e il percome. Tipo che nella stanza da letto dei genitori dormiva il piccolo Guglielmo con una camicia da notte da bambina perche' si pensava che, in questo modo, si sarebbe ingannato il demonio che faceva morire piu' i maschietti delle femminucce. Oppure, in un'altra, un tizio vestito "come poteva essere vestito il padre di William", guantaio, che intreccia borselli e guanti e spiega con quali tipi di pelle si potevano fare i suddetti manufatti (valeva anche la pelle del cane, per i poveracci). La seconda casa e' la cosiddetta Nash's House, in cui abito' la nipote di Shakespeare dopo il matrimonio. In un edificio adiacente Shakespeare vi trascorse gli ultimi anni: peccato pero' che questa casa si possa solo immaginare, perche' e' stata abbattuta. L'ultima tappa e' Hall's Croft, dove invece ha abitato soltanto la figlia di Shakespeare, sposata con il medico John Hall (e da qui il nome della casa). All'ingresso vengo accolto da un tizio di una certa eta' - so very typically English - che mi chiede da dove vengo. Gli dico: "Italy" e lui mi porge una guida della casa in italiano e aggiunge: "Ma si', visto che siamo in Europa, facciamo un po' gli europei". Tutto il dialogo surreale, pero', si svolge in inglese - e' evidente, cioe', che io so l'inglese - e, per di piu', la guida che mi da' non e' in italiano ma in ungherese. "Oh, che sbadato, mi sono confuso - risponde quando glielo faccio notare -, sa, e' dello stesso colore". La casa e' moderatamente interessante, piu' che altro perche' permette di vedere come si svolgeva la professione del medico a quei tempi. Poco piu' in giu', nella stessa strada, c'e' la Holy Trinity Church, dove sarebbe sepolto Shakespeare. Per vedere la sua tomba - e che sara' mai - dovrei pagare una sterlina e mezzo. Riposi pure in pace senza di me.
Il giorno dopo abbandono Birmingham e migro verso Bristol. Siccome la mia stanza non e' ancora pronta - stavolta ho scelto un hotel mainstream, l'Ibis dietro la stazione di Temple Meads, nuovissimo: m'innamorero' subito del suo bagno che sembra una navicella spaziale all'interno della stanza - vado subito a visitare la bella cattedrale. Non so se vale, ma nel caso alla fine un dio esistesse gli faccio notare che non sono mai entrato in cosi' tante chiese come in questo periodo. Il resto della giornata lo trascorro ascendendo verso il centro. "Ascendere" e' il termine esatto, perche' la via centrale di Bristol e' tutta in salita. Bristol e' una sorpresa: la immaginavo brutta e invece non lo e' affatto. Passo davanti al museo locale e vedo che c'e' una coda chilometrica. Strano, penso, ma poi scopro che e' per via di una mostra di Banksy, artista e graffitaro bristolese, ormai una gloria locale.
Ci sarebbe poi da fare una osservazione sul famigerato tempo inglese. E' molto variabile, lo so. Pero' solo a Bristol ho compreso la portata di questo aggettivo. Nel giro di una giornata il sole e' apparso e scomparso non saprei dire quante volte. Cosi' come non saprei dire quante volte ha cominciato e poi smesso di piovere. Idem per il vento. Continuavo a mettermi e togliermi la felpa: penso che per un meteopatico come me un tempo del genere sarebbe in grado di condurmi nell'isteria piu' totale. Dopo una settimana morderei chi mi rivolge la parola.
L'ascensione si e' conclusa nel quartiere (piu' elegante) di Clifton, con un breve pellegrinaggio al Clifton Suspension Bridge: un ponte mozzafiato - tant'e' che io, per via delle mie vertigini, l'ho guardato a debita distanza, nel momento - tra l'altro - in cui il tempo era piu' drammatico: sembrava che stesse per scatenarsi una tempesta.
Ma a Bristol ho visitato soprattutto quella che e' ormai diventata (o diventera') un'istituzione della blogosfera italiana, ovvero lui, che mi ha accolto nella sua deliziosa casetta (con minigiardino sul retro: ormai si sta anglicizzando del tutto!), ha nutrito l'affamato e mi ha fatto passare una splendida serata domestica con la sua fidanzata e una loro amica. Ho toccato con mano, quindi, che cosa significhi essere un cervello in fuga e - tutto considerato - gli ho consigliato di mettere radici in Gran Bretagna e dire good-bye all'Italia. Dopodiche' sono tornato in albergo con il favore delle tenebre. E con un taxi.
21:45 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (1)
Birmingham e' una delle citta' piu' brutte che abbia visto in vita mia. Credo che riesca a battere persino certe citta' tedesche che ho visitato in passato, tipo Dortmund o Essen. Pero' ci sono venuto lo stesso, anche se subodoravo quello che mi aspettava. Con Birmingham avevo una specie di conto in sospeso: nel 1992 avevo prenotato e gia' quasi pagato un corso d'inglese estivo alla locale universita', poi conobbi M.G., un melomane con il quale ebbi una relazione durata circa cinque mesi e che mi convinse invece ad andare in vacanza con lui a Salisburgo e a Bayreuth. Cosi' annullai tutto quanto e andai dove mi portava il cuore, per cosi' dire. Per come poi fini' la storia, me ne sono pentito. Andare a Birmingham era quindi un modo per capire che cosa mi fossi perso diciassette anni fa. Il secondo "finto ricordo" di questa citta' mi deriva invece dalla lettura di "Il dispatrio", di Luigi Meneghello. In questo libro lo scrittore racconta di quando ando' per la prima volta in Inghilterra, dopo la guerra - successivamente avrebbe inaugurato la cattedra di italianistica a Reading -, e la prima citta' in cui approdo' fu appunto Birmingham. Meneghello racconta di averla attraversata, in cerca del "centro" e, non trovandolo, fermo' un passante e gli chiese dove fosse. Quello gli rispose: "Il centro l'ha gia' passato". Insomma, era cosi' bella da non essersene nemmeno accorto.
L'albergo che ho prenotato a Birmingham - il Paragon, in Alcester Street - sarebbe a dieci minuti a piedi dal centro. Questo, almeno, si legge sul sito internet. E in effetti non e' lontano dal centro, ma per raggiungerlo bisogna attraversare una zona che pare uscita da un bombardamento o da una qualche catastrofe epocale. Qui si vede chiaramente che cosa diventa una citta' dopo che e' stata de-industrializzata. Digbeth - questo il nome del quartiere - doveva essere una zona di magazzini, depositi e, probabilmente, industrie. Di tutto cio' non resta piu' nulla, se non dei reperti di un'epoca ormai remota. Archeologia industriale. E cosi' mi ritrovo tutto il tempo a pensare - ancora piu' di quanto non avessi fatto per Manchester e Liverpool - a che cosa devono essere state queste citta' negli anni ottanta e nei primi novanta, dopo la crisi degli anni settanta e dopo la forzata dismissione delle industrie operata nell'epoca thatcheriana. Piu' di una volta mi viene da confrontarle con le citta' dell'ex DDR, perche' e' soprattutto a queste che le citta' del cuore industriale dell'Inghilterra assomigliano. In modo particolare Birmingham, che e' stata pesantemente bombardata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso, in tutto questo deserto post-industriale, l'albergo e' piuttosto grazioso: e' un grande edificio in stile "gotico vittoriano" e trasuda una grandeur da tempi passati.
Depositati i miei bagagli mi avventuro anch'io, come Meneghello, in cerca del centro cittadino. Come un mastodonte si staglia, davanti alla stazione, l'imponente centro commerciale del Bullring. Tutto vi ruota attorno ed e' inevitabile capitarci davanti piu' volte durante la stessa giornata. Ristrutturato e rifatto da cima a fondo negli ultimi anni, e' una specie di incubo: toglie il respiro. Meglio forse la strada che c'e' al suo fianco - Hurst Street nella parte meridionale e Hill Street verso quella settentrionale? No, direi di no. Forse e' anche peggio: e' qui, in particolare, che ho la sensazione di camminare in una citta' di una (ex) repubblica sovietica. Sembra quasi che qualcuno, dall'alto, abbia calato una serie di blocchi di cemento, in modo piu' o meno casuale. Dev'essere il risultato dell'urbanistica degli anni settanta. Oltre a questi edifici anonimi, c'e' una viabilita' delirante - praticamente delle tangenziali che attraversano il centro - e una gran copia di parcheggi multipiano - dev'essere una passione degli inglesi, questa - e di centri commerciali a confronto dei quali il Bullring svetta per eleganza e nobilita'. Arrivo fino a Victoria Square, che almeno si salva, con l'imponente edificio del Museum & Art Gallery (che visitero' il giorno dopo) e, sulla sinistra, la brutta biblioteca cittadina, un altro centro commerciale attraverso il quale si sbuca nella Centenary Square, con la Symphony Hall, l'appezzamento di terreno dove verra' costruita la nuova biblioteca per il 2013, e l'International Congress Centre inaugurato nel 1991 (con il contributo dell'Unione Europea per lo sviluppo delle zone depresse in Europa).
In realta', a partire da li' si apre la zona dei canali, che e' stata rinnovata con una certa cura negli ultimi anni. Anche se va detto che il tutto crea una sensazione di posticcio: la zona che ruota intorno a Brindleyplace viene venduta come il luogo dove "godersi la vita" in una serie di negozi chic, di ristoranti e caffe' eleganti. Anche la strada principale - New Street - che parte da Victoria Square e si snoda fino a sbucare al Bullring assomiglia tanto alle vie pedonali di certe citta' tedesche, piene di negozi di ogni genere. Non credo di avere mai visto un posto con una tale densita' di centri commerciali come Birmingham. E qui invito i lettori piu' sensibili a saltare le prossime righe, perche' mi sta venendo un attacco di Kulturkritik. Non capisco infatti perche' ai giorni nostri, quando si apre uno spazio vuoto all'interno di una citta', lo si debba per forza riempire con negozi su negozi, centri commerciali a iosa, come se l'unica esperienza sensata che l'umanita' contemporanea possa fare fosse comprare, comprare, comprare... E se qualcuno volesse fare qualcos'altro? E se uno fosse stufo di acquistare (per lo piu' cose che non gli servono)? Solo attraverso il consumo siamo giustificati in quanto abitanti della contemporaneita'? Perche' non costruire, per esempio, abitazioni anche in queste zone centrali - abitazioni normali per gente normale, intendo; case che la gente possa occupare e non oggetti che diventino uno status symbol? Ma forse le mie sono domande troppo ingenue o troppo stupide. Eppure non posso fare a meno di pensare che i cosiddetti "valori dell'Occidente" si sono ridotti, stringi stringi, proprio soltanto a questo: forse sta davvero giungendo l'ora di chiusura dei giardini dell'Occidente, come scrisse qualcuno.
Il giorno dopo, per provare a fare qualcosa di diverso, vado a nuotare. Ho cercato le piscine comunali di Birmingham e ne ho trovata una non troppo lontana dall'albergo, a Moseley Road, nel quartiere di Balsall Heath. Dopo aver attraversato un'altra delle zone di desolazione postindustriale di cui sembra abbondare Birmingham arrivo all'agognata piscina. L'edificio e' chiaramente un residuo vittoriano. Ci entro. Bene: giuro che mai piu' mi lamentero' delle piscine di Milano. Quando arrivo alla vasca vera e propria, chiedo ai bagnini dove siano gli spogliatoi. Loro mi indicano le cabine che attorniano la vasca. "Ah - chiedo stupito - ma come faccio a chiuderle?". Loro mi suggeriscono di mettere un asciugamano sopra la porta. "Ma non e' sicuro!" ribatto io, ingenuamente. Loro insistono a dire che non ci entrera' nessuno, che non devo preoccuparmi. Cosi' mi faccio le mie quaranta vasche in stile "strabico", cioe' con un occhio sempre puntato verso la mia cabina. Per dare un'idea dell'effetto che mi fanno gli interni della piscina: avete presente certi servizi giornalistici del tipo "Hanno riaperto il tale centro sportivo di Kabul chiuso dai tempi dell'invasione sovietica?". Ecco, esattamente quello.
15:16 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (1)