Dopo la lettura del denso saggio storico di Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, il suicidio diventa un fenomeno meno misterioso, posto che lo sia mai stato e che non fosse, invece, una delle cose più naturali del mondo. Anche se, poiché l'uomo è un "animale culturale", anche il suicidio - i modi in cui si realizza e, soprattutto, il giudizio della società su coloro che lo commettono - è cambiato nel corso del tempo, a seconda di come sono cambiate le coordinate culturali di ogni epoca e paese. Con dovizia di particolari e con numerosi dati storici, Barbagli rende giustizia alla dimensione storico-sociale del suicidio, scrivendo un libro che si legge con la stessa facilità di un romanzo.
Inevitabilmente, Marzio Barbagli prende le mosse dal saggio sul suicidio di Emile Durkheim, che è ormai un classico, e, pur riconoscendone il ruolo da apripista, contesta certe affermazioni del sociologo francese. Riprende sì la divisione tra "suicidio egoistico" e "suicidio altruistico" ma mette in dubbio l'idea secondo cui si avrebbe un aumento dei suicidi cosiddetti "egoistici" quando diminuisce l'integrazione sociale degli individui, mentre il numero dei suicidi "altruistici" dipenderebbe dalla maggior forza che hanno certe norme sociali. Secondo Barbagli, invece, bisogna prendere in considerazione anche il valore che l'atto del suicidio assume in un determinato sistema cognitivo in vigore in un certo luogo e in un periodo determinato. Per quanto riguarda l'Occidente, Barbagli evidenzia il ruolo del cristianesimo, sottolineando anche il mutamento di segno nella sua valutazione del suicidio, avvenuto per opera di Agostino. Prima di allora il suicidio non era così colpito da interdetto: per esempio, le donne che subivano una violenza spesso si uccidevano, perché avevano perduto l'onore, avevano commesso "adulterio". E' Agostino che sostiene che, in un caso come questo, non esiste adulterio da parte della donna perché non c'è intenzionalità. Inoltre il suicidio viene interpretato come un atto orrendo, una violenza contro sé e contro Dio. Si arriva al punto di sostenere che la causa del suicidio non può essere naturale, ma deve essere "soprannaturale" in senso negativo, cioè suscitata dal demonio: dove c'è "disperazione" in senso teologico - cioè mancanza della grazia di Dio - si apre un varco che consente l'accesso al maligno. Chi si suicida, inoltre, si condanna alla dannazione eterna. Da allora anche le autorità civili cominciano, in diversa misura, a punire il suicidio. Barbagli passa in rassegna le diverse punizioni riservate ai suicidi: l'impiccagione del cadavere, la sepoltura lontano dai luoghi abitati e fuori dalla terra consacrata, la confisca di tutti i beni e dell'eredità. E poi racconta anche di un escamotage che a un certo punto viene usato da molti potenziali suicidi. Sapendo che se si fossero uccisi da soli sarebbero finiti all'inferno e confidando nel fatto che Dio perdona ogni misfatto purché lo si confessi e ci si penta, molti di loro uccidevano degli innocenti - per lo più bambini -, cosicché poi sarebbero stati a loro volta condannati a morte, ma nel frattempo avrebbero avuto modo di chiedere perdono al Signore. Solo col trascorrere del tempo e con l'imporsi progressivo dell'illuminismo si è passati a una concezione meno "soprannaturale" del suicidio e a una successiva depenalizzazione. Barbagli traccia anche questa evoluzione, segnalando le differenze da paese a paese e, all'interno di ogni singolo stato, evidenziando singoli casi emblematici e mutamenti a seconda delle classi sociali, del sesso, delle zone (rurali o cittadine) in cui essi sono avvenuti. L'importanza del sistema di convinzioni di ogni società , condiviso dai singoli individui, risulta anche dallo studio della distribuzione dei suicidi tra gli immigrati: se un immigrato proviene da un paese in cui il suicidio è un atto deplorevole, allora tenderà a non suicidarsi, anche se nel paese di destinazione esso è più diffuso e meno "condannato": solo con l'integrazione progressiva degli immigrati il loro tasso di suicidio finisce per coincidere con quello degli autoctoni.
Con l'ultimo capitolo della prima parte - quella dedicata all'Occidente - l'autore si concentra in modo particolare sul secolo appena trascorso, il ventesimo, e sull'influsso esercitato da grandi eventi storici sul numero di suicidi all'interno di certi gruppi di popolazione - per esempio il suicidio tra gli ebrei durante il fascismo e il nazismo, il suicidio nei paesi dell'ex-Unione Sovietica dopo il crollo del comunismo, che ha creato uno stato di anomia, cioè di assenza di norme e quindi di grande incertezza - e su altri elementi come la distribuzione del tasso di suicidi a seconda del sesso e dell'orientamento sessuale, l'effetto delle nuove cure per le malattie gravi e della terapia del dolore sul numero delle morti volontarie.
Nella seconda parte, invece, Marzio Barbagli sposta l'attenzione dall'Occidente all'Oriente. Le differenze sono notevoli. Barbagli descrive pratiche di "suicidio altruistico" lontane dalla mentalità e dalle tradizioni occidentali. Il primo capitolo è dedicato per esempio alla pratica del sati, con cui le donne indiane tradizionalmente si facevano bruciare su una pira dopo che erano rimaste vedove. Vero e proprio rito, nella maggioranza dei casi non veniva imposto a queste vedove che, al contrario, erano ben felici di immolarsi in questo modo, che permetteva loro anche di essere venerate e rispettate. Una pratica così diffusa che gli inglesi, durante il loro dominio, fecero fatica a proibirla per legge. Dall'India si passa poi alla Cina, dove il suicidio acquistava spesso un valore di vendetta, diventando una specie di arma nelle mani di chi non aveva altro mezzo per difendere i propri diritti. Se in Occidente - scrive Barbagli - ci si chiede "perché" qualcuno uccida sé stesso, in Cina ci si chiede "chi" ha spinto il suicida a commettere quel gesto e, quindi, si pensava che l'istigatore dovesse essere punito per questo, magari persino dallo spirito del morto che avrebbe vagato in cerca di vendetta: perché questo funzionasse, ovviamente, occorreva che un certo sistema di credenze facesse parte del bagaglio cognitivo di tutta una società.
Infine, nel capitolo conclusivo, intitolato significativamente "Il corpo come bomba", Barbagli descrive il fenomeno sempre più diffuso nell'ultimo secolo del "suicidio aggressione". Da un lato c'è il fenomeno dell' "autoimmolazione", tipico di certi monaci buddisti che si davano (o si danno) fuoco per dimostrare contro un'ingiustizia o per rivendicare diritti per il proprio gruppo (come è accaduto negli anni sessanta in Vietnam, quando i buddisti furono gravemente discriminati da un presidente di fede cristiana), e dall'altro c'è il fenomeno attraverso il quale un individuo rinuncia alla propria vita facendosi esplodere per uccidere allo stesso tempo il maggior numero possibile di nemici. Dall'esempio dei kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale - i quali colpivano però obiettivi esclusivamente militari - si finisce poi ai terroristi suicidi in Sri Lanka, in Cecenia, in Palestina e in Iraq. Anche in queste pagine ci sono spunti e riflessioni interessanti, come per esempio il diffondersi, più recente, delle donne che praticano questa forma di suicidio o la contraddizione tra la condanna del suicidio nell'Islam e questa pratica, molto più diffusa tra gli islamisti radicali che non altrove.
[Nella foto: Suicidio di Edouard Manet, 1877]
Inevitabilmente, Marzio Barbagli prende le mosse dal saggio sul suicidio di Emile Durkheim, che è ormai un classico, e, pur riconoscendone il ruolo da apripista, contesta certe affermazioni del sociologo francese. Riprende sì la divisione tra "suicidio egoistico" e "suicidio altruistico" ma mette in dubbio l'idea secondo cui si avrebbe un aumento dei suicidi cosiddetti "egoistici" quando diminuisce l'integrazione sociale degli individui, mentre il numero dei suicidi "altruistici" dipenderebbe dalla maggior forza che hanno certe norme sociali. Secondo Barbagli, invece, bisogna prendere in considerazione anche il valore che l'atto del suicidio assume in un determinato sistema cognitivo in vigore in un certo luogo e in un periodo determinato. Per quanto riguarda l'Occidente, Barbagli evidenzia il ruolo del cristianesimo, sottolineando anche il mutamento di segno nella sua valutazione del suicidio, avvenuto per opera di Agostino. Prima di allora il suicidio non era così colpito da interdetto: per esempio, le donne che subivano una violenza spesso si uccidevano, perché avevano perduto l'onore, avevano commesso "adulterio". E' Agostino che sostiene che, in un caso come questo, non esiste adulterio da parte della donna perché non c'è intenzionalità. Inoltre il suicidio viene interpretato come un atto orrendo, una violenza contro sé e contro Dio. Si arriva al punto di sostenere che la causa del suicidio non può essere naturale, ma deve essere "soprannaturale" in senso negativo, cioè suscitata dal demonio: dove c'è "disperazione" in senso teologico - cioè mancanza della grazia di Dio - si apre un varco che consente l'accesso al maligno. Chi si suicida, inoltre, si condanna alla dannazione eterna. Da allora anche le autorità civili cominciano, in diversa misura, a punire il suicidio. Barbagli passa in rassegna le diverse punizioni riservate ai suicidi: l'impiccagione del cadavere, la sepoltura lontano dai luoghi abitati e fuori dalla terra consacrata, la confisca di tutti i beni e dell'eredità. E poi racconta anche di un escamotage che a un certo punto viene usato da molti potenziali suicidi. Sapendo che se si fossero uccisi da soli sarebbero finiti all'inferno e confidando nel fatto che Dio perdona ogni misfatto purché lo si confessi e ci si penta, molti di loro uccidevano degli innocenti - per lo più bambini -, cosicché poi sarebbero stati a loro volta condannati a morte, ma nel frattempo avrebbero avuto modo di chiedere perdono al Signore. Solo col trascorrere del tempo e con l'imporsi progressivo dell'illuminismo si è passati a una concezione meno "soprannaturale" del suicidio e a una successiva depenalizzazione. Barbagli traccia anche questa evoluzione, segnalando le differenze da paese a paese e, all'interno di ogni singolo stato, evidenziando singoli casi emblematici e mutamenti a seconda delle classi sociali, del sesso, delle zone (rurali o cittadine) in cui essi sono avvenuti. L'importanza del sistema di convinzioni di ogni società , condiviso dai singoli individui, risulta anche dallo studio della distribuzione dei suicidi tra gli immigrati: se un immigrato proviene da un paese in cui il suicidio è un atto deplorevole, allora tenderà a non suicidarsi, anche se nel paese di destinazione esso è più diffuso e meno "condannato": solo con l'integrazione progressiva degli immigrati il loro tasso di suicidio finisce per coincidere con quello degli autoctoni.
Con l'ultimo capitolo della prima parte - quella dedicata all'Occidente - l'autore si concentra in modo particolare sul secolo appena trascorso, il ventesimo, e sull'influsso esercitato da grandi eventi storici sul numero di suicidi all'interno di certi gruppi di popolazione - per esempio il suicidio tra gli ebrei durante il fascismo e il nazismo, il suicidio nei paesi dell'ex-Unione Sovietica dopo il crollo del comunismo, che ha creato uno stato di anomia, cioè di assenza di norme e quindi di grande incertezza - e su altri elementi come la distribuzione del tasso di suicidi a seconda del sesso e dell'orientamento sessuale, l'effetto delle nuove cure per le malattie gravi e della terapia del dolore sul numero delle morti volontarie.
Nella seconda parte, invece, Marzio Barbagli sposta l'attenzione dall'Occidente all'Oriente. Le differenze sono notevoli. Barbagli descrive pratiche di "suicidio altruistico" lontane dalla mentalità e dalle tradizioni occidentali. Il primo capitolo è dedicato per esempio alla pratica del sati, con cui le donne indiane tradizionalmente si facevano bruciare su una pira dopo che erano rimaste vedove. Vero e proprio rito, nella maggioranza dei casi non veniva imposto a queste vedove che, al contrario, erano ben felici di immolarsi in questo modo, che permetteva loro anche di essere venerate e rispettate. Una pratica così diffusa che gli inglesi, durante il loro dominio, fecero fatica a proibirla per legge. Dall'India si passa poi alla Cina, dove il suicidio acquistava spesso un valore di vendetta, diventando una specie di arma nelle mani di chi non aveva altro mezzo per difendere i propri diritti. Se in Occidente - scrive Barbagli - ci si chiede "perché" qualcuno uccida sé stesso, in Cina ci si chiede "chi" ha spinto il suicida a commettere quel gesto e, quindi, si pensava che l'istigatore dovesse essere punito per questo, magari persino dallo spirito del morto che avrebbe vagato in cerca di vendetta: perché questo funzionasse, ovviamente, occorreva che un certo sistema di credenze facesse parte del bagaglio cognitivo di tutta una società.
Infine, nel capitolo conclusivo, intitolato significativamente "Il corpo come bomba", Barbagli descrive il fenomeno sempre più diffuso nell'ultimo secolo del "suicidio aggressione". Da un lato c'è il fenomeno dell' "autoimmolazione", tipico di certi monaci buddisti che si davano (o si danno) fuoco per dimostrare contro un'ingiustizia o per rivendicare diritti per il proprio gruppo (come è accaduto negli anni sessanta in Vietnam, quando i buddisti furono gravemente discriminati da un presidente di fede cristiana), e dall'altro c'è il fenomeno attraverso il quale un individuo rinuncia alla propria vita facendosi esplodere per uccidere allo stesso tempo il maggior numero possibile di nemici. Dall'esempio dei kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale - i quali colpivano però obiettivi esclusivamente militari - si finisce poi ai terroristi suicidi in Sri Lanka, in Cecenia, in Palestina e in Iraq. Anche in queste pagine ci sono spunti e riflessioni interessanti, come per esempio il diffondersi, più recente, delle donne che praticano questa forma di suicidio o la contraddizione tra la condanna del suicidio nell'Islam e questa pratica, molto più diffusa tra gli islamisti radicali che non altrove.
[Nella foto: Suicidio di Edouard Manet, 1877]
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