F. ha la mia età: lui è nato all'inizio dell'anno, io alla fine. Fa, bene, un lavoro che non gli piace o che, per essere più precisi, non ritiene molto adatto al suo ruolo maschile. Per questo non è soddisfatto: ha la sensazione di essere rimasto bloccato, senza possibilità di carriera, e confronta sé stesso con altri che, alla sua stessa età (o addirittura prima di lui), hanno raggiunto posizioni più importanti e da queste traggono anche maggiore stima sociale. Ci scherza sopra, spesso e volentieri ma, come spesso accade quando il medesimo scherzo è ripetuto e insistito, è evidente che questo è un punto dolente, il segnale di un fallimento personale - e non soltanto professionale, come se lo scacco (relativo, del resto) in quel settore si estendesse a macchia d'olio anche sulla percezione di sé in genere e del proprio valore. Come se non bastasse, avverte che il tempo sta passando velocemente: gli anni della giovinezza sono ormai alle spalle ed è nel pieno della maturità - una volta si sarebbe detto "nel mezzo del cammin di nostra vita" o, più banalmente, della mezza età -, senza che però questa maturità sia realmente sentita. Gli sembra anzi di essere allo stesso tempo un vecchio e un bambino mai cresciuto e in questo assomiglia a me.
Eppure c'è qualcosa in cui F. ha avuto successo e pare che non se ne renda conto pienamente. Me ne sono accorto io, invece, ascoltando i suoi racconti di padre. F. ha un figlio ancora piccolo. Poco tempo dopo la nascita il figlio ha avuto gravissimi problemi di salute: ha rischiato la vita e, per una serie di coincidenze fortuite e grazie alla tanto vituperata sanità pubblica italiana, si è salvato. Da allora, però, è cominciata un'odissea riabilitativa, una sorta di maratona dove a ogni tappa F. ha dovuto, incaponendosi anche contro il tale o il talaltro specialista, lottare perché il figlio recuperasse in toto le sue capacità e diventasse un bambino come tutti gli altri. Non si è limitato a portarlo di qua e di là, cercando i migliori medici e le migliori strutture; non gli è bastato sottoporsi insieme a lui agli stessi esami per dimostrargli che non c'era niente da temere - "Lui ormai ha assoluta fiducia in me", mi ha detto -; ma ha anche letto e studiato, si è informato sui sintomi, sulle manifestazioni e sugli epifenomeni della malattia del bambino, ha scandagliato gli effetti collaterali di certi medicinali che gli venivano somministrati e ha controbattuto, prove alla mano, a quei medici che agivano con troppa leggerezza. E spesso lo ha fatto con una competenza tale che alcuni di loro gli hanno chiesto: "Ma lei è un collega?".
E mentre F. mi racconta tutto questo, gli vedo negli occhi una luce. E' l'amore di un padre per il proprio figlio. Un amore per nulla astratto, per nulla distratto, ma un amore che si è scontrato con degli ostacoli molto reali e ne è uscito vincente. Quando ho conosciuto tutta la storia, di cui prima ero solo vagamente al corrente per sentito dire, l'ho associata subito alle telefonate che gli ho sentito fare con il figlio e al modo in cui ne parla. E' curioso: sono abituato a sentire le donne - le madri - che non smettono di parlare dei figli, ma quasi mai i padri. In quel momento ho provato una punta di invidia: non tanto per F., ma per suo figlio che ha un padre così. E questo, più che rivelare qualcosa di F. e del rapporto con suo figlio, rivela molto di me e del rapporto con il mio.
Caro F. - avrei voluto dirgli quel giorno che mi ha raccontato tutta la vicenda, se soltanto ne avessi avuto la prontezza necessaria e se non fossi stato troppo emozionato -, in questo sei un uomo di successo più di quanto altri "uomini di successo", pubblicamente riconosciuti come tali, possano mai dire di sé stessi. E forse dovrebbero loro invidiare te - e non viceversa.
Esisteranno anche buoni genitori, ma in materia faccio sempre mia l'esclamazione dell'ultimo Cioran: "Quei figli che non ho voluto, sapessero la felicità che mi debbono!".
Posted by: law | 28/06/2009 at 15:31
Be', ma anch'io dico che, grazie a me, c'è uno stronzo di meno sulla faccia della terra. Ma quando qualcuno è nato è meglio che abbia buoni genitori.
Il post, però, parlava di qualcos'altro.
Posted by: stefano | 28/06/2009 at 15:38
Perdonami ma non riesco a vedere il successo di un uomo in relazione ad una famiglia: ne vedo invece in relazione alla carità ed alla filantropia disinteressate e sganciate totalmente da un contesto parentale.
Posted by: law | 28/06/2009 at 15:59
Ancora non ci siamo.
E' relativamente indifferente che F. sia il padre o no.
Il successo è nell'essere capace di essere soggetto affettivo, in grado di dare amore a una persona che, in questo caso, è suo figlio. E non, per esempio, di aver fatto carriera in un'azienda, come sembra essere più apprezzato per gli uomini di sesso maschile. (E poco conta che io qui abbia assunto la prospettiva del figlio. E magari di un figlio che avrebbe voluto avere un padre così).
E' un post sulle aspettative e sui "valori" a cui nella nostra società è condannato un maschio e rispetto ai quali viene pubblicamente misurato.
Peccato, mi pareva di essere stato chiaro.
Posted by: stefano | 28/06/2009 at 16:07
sei stato, a mio parere, chiarissimo; poi ciascuno capisce ciò che vuole, o ciò che può
Posted by: pio | 28/06/2009 at 18:35
Sei stato chiarissimo. Dal mio anomalo punto di vista trovo pazzesco che una persona così si senta "fallita".
Però mi rendo conto di essere io l'alieno. Quando dopo 15 anni di lavoro da un commercialista dico alle persone che sto cercando altro e specifico che con altro intendo un lavoro che mi rompa meno i coglioni, mi guardano come se fossi un povero matto.
E forse, in una realtà dove si riesce a definire un essere umano "utile" o "inutile", sono veramente io, il pazzo.
Posted by: neurobi | 28/06/2009 at 20:14
io ho un figlio di cui non sono padre
o forse semplicemente io sono padre di mio figlio... ma in ogni caso le tue sono belle parole, credo che tu sia un Amico prezioso.
Posted by: ~Q. | 29/06/2009 at 16:32
ciao Stefano
una piccola notazione "tecnica"...
mi sembra che sia corretto scrivere "se stesso" senza accento, oppure "sé" da solo.
saluti
Posted by: Andrea | 30/06/2009 at 10:00
Così dicevano, ma in realtà non c'è nessunissima ragione per non scrivere "sé stesso". In realtà non c'è motivo di trasformare il sé in "se". E' per questo che, da qualche tempo a questa parte, ho adottato anch'io la scrittura "sé stesso/a/i" perché filologicamente più corretta, abbandonando "se stesso".
Posted by: stefano | 30/06/2009 at 10:06
E' un post che mi ha emozionato e mi ha fatto venire i lucciconi. Hai proprio ragione tu, è il successo più grande anche secondo me...
Posted by: ls | 30/06/2009 at 19:12
Persino dalla mia prospettiva di donna (moderna, ovvero alle prese con un'emancipazione che non è solo di diritto), mi trovo spesso a sminuire parte delle mie capacità emotive, definiamole così, come se nulla fossero. Addirittura, vivendole spesso come un segno di debolezza. Spirito di sacrificio, dedizione, sostegno, empatia, definiamo a piacimento questi caratteri: resta il fatto che fino a poco tempo fa li ho sentiti come una "colpa" del mio essere. Se questo è l'effetto del contesto sociale su di me, posso solo immaginare quale sia la pressione esercitata sugli uomini.
Posted by: Caterina | 30/06/2009 at 22:31
Stefano, ne sai sempre una più degli altri!
*_*
Posted by: Andrea | 01/07/2009 at 00:48