Italia De Profundis è una delle cose migliori che abbia scritto Giuseppe Genna negli ultimi tempi, oltre che una delle più personali. Il protagonista di questo romanzo sui generis si chiama, proprio come l'autore, Giuseppe Genna. Non voglio commettere l'errore di confondere autore e personaggio e leggere Italia De Profundis con lo spirito della portinaia che cerca le confessioni private di chi l'ha scritto, ma è indubbio che in questo Genna cartaceo c'è molto del Genna reale: forse è anche una forma di esorcismo, praticato con l'esercizio costante del parossismo e dell'iperbole, impiegate qui con grande maestria. In ogni caso, se non è un'autobiografia reale è comunque un'autobiografia possibile: l'autore parte da un evento concreto e, in base alla psicologia del protagonista, crea una serie di sviluppi. A questo punto è indifferente che questi siano reali o solo immaginari, nel senso convenzionale che si usa attribuire a questi termini. Perché, in ogni caso, sono reali nel mondo delle possibilità.
Il romanzo ruota intorno all'estate del 2007 in cui il protagonista viene abbandonato da una donna di cui è innamorato: è uno schema che si ripete, certamente, ma stavolta tutto sembra precipitare, risucchiato in un buco nero. Questa estate - definita di volta in volta con una coppia di aggettivi: "improduttiva e faticosa", "isterica ed esecranda", "cristica e anoressica", "scomposta e cadaverica", "luttuosa e allucinatoria" - è come un magnete che attira a sé, organizzandoli, i frammenti di un metallo che formano i vari pezzi del racconto. La tecnica narrativa è squisitamente genniana: partendo da un nucleo iniziale, il racconto viene scagliato lungo la tangente, finché entra in orbita allontanandosi dal pianeta originario senza però per questo perdere di plausibilità e di verosimiglianza.
L'estate del 2007 ha però un antecedente, che costituisce la parte iniziale di Italia De Profundis. Il primo gennaio del 2006 Giuseppe Genna scopre il cadavere del padre, morto da solo in casa l'ultima sera dell'anno, ormai colpito da rigor mortis, con il braccio levato e il pugno chiuso, quasi a rivolgere un ultimo saluto al "comunismo prussiano" da lui professato per tutta la vita. Queste pagine, già apparse in Medium, un libro mai uscito nelle librerie ma pubblicato solo online e tramite il sito di print-on-demand Lulu, sono tra le cose più potenti di Giuseppe Genna: sono contento che in qualche modo le abbia recuperate qui, perché già un paio di anni fa, quando le avevo lette, mi avevano confermato la stoffa dello scrittore.
Che cosa descrive dunque Genna in questo Italia De Profundis? Sostanzialmente lo schifo che è diventata l'Italia negli ultimi anni - o per usare le sue stesse parole: "una marea di merda ricopre l'Italia". Con sguardo distaccato e preciso, nel quarto capitolo del romanzo, l'autore traccia una radiografia di questo paese, devastato dall'estetica televisiva, rovinato dal sentimentalismo e sbrindellato in ogni sua fibra: sociale, politica, economica e umana. La diagnosi è precisa e impietosa, sono pagine vibranti che suscitano, anche nel lettore, disgusto e malessere. Riconosciamo il paese in cui viviamo, ma allo stesso tempo riconosciamo anche noi stessi e quello che siamo diventati (o ci hanno costretto o convinto a diventare): "il pupazzo Gabibbo, una delle voci della coscienza della nazione", "il paese desidera ridere, spensieratamente", "la società non è liquida, come sostengono i sociologi: è vaporosa", "i paradigmi di sinistra e destra [...] sono stati strategicamente fatti evaporare, per non essere sostituiti da nessun paradigma ideologico", "l'autentico tavolo da gioco politico è l'economia, nel senso che l'unica direttiva da applicare è la sottrazione dell'intervento politico in àmbito economico. Di qui, una fiumana di privatizzazioni condotte 'all'italiana', come ormai si dice con significazione tecnica: favoritismi, dismissione a prezzi stracciati del patrimonio pubblico. Allegria Titanic", "gli italiani hanno espresso la pienezza della finzione sentimentale in occasione del decesso del pontefice Giovanni Paolo II, il polacco". A questa analisi, che non sfigurerebbe in un trattato sociologico dedicato all'Italia degli ultimi vent'anni, seguono poi una ventina di pagine - lisergiche, visionarie, surreali, fortemente simboliche - con la "rappresentazione narrativa ma non finzionale della 'scena italiana'", in cui Genna scioglie la briglia della sua fantasia e della sua inventiva linguistica.
In Italia De Profundis c'è pero un andirivieni tra la parte "pubblica" e quella "personale", come se ci fosse un filo teso tra due poli: da un lato l'Italia e dall'altro Giuseppe Genna. Nelle note finali, infatti, lui stesso spiega che il romanzo avrebbe potuto intitolarsi anche "Giuseppe Genna De Profundis". L'atteggiamento dell'autore, infatti, non è puramente giudicante. Il personaggio Genna non è il censore che si erge sulle miserie altrui, ma è colui che nello sfacelo e nello schifo che lo circondano rivede riflessi anche il proprio sfacelo e il ribrezzo che prova per sé stesso. "L'amorosa mancanza" dell'estate 2007, per esempio, dà la stura a quattro "reazioni convulse", quattro "storie di merda che non ricordo più", in cui il protagonista omonimo si abbandona a una serie di esperienze estreme - sesso con tre travestiti, droghe pesanti, intervento attivo nell'eutanasia di un malato di Sla -, che in quanto tali sono il correlato oggettivo, la proiezione all'esterno, di quel senso di degradazione in cui l'autore si sente sprofondare. E' la "possibilità", di cui scrivevo più sopra, che qui viene tradotta in realtà narrativa.
Da un punto di vista stilistico Italia De Profundis attraversa diversi stili e sembra un po' un'antologia della scrittura genniana. C'è, per esempio, lo stile ellittico, fatto di frasi brevi, spesso senza verbo, dal tono ermetico e sapienziale, così come c'è lo stile più gonfio, ricco di iperboli e paradossi, in cui i dettagli si sommano gli uni sugli altri, in cerca di una precisione e di una evocatività assolute e, forse, inaccessibili. Ci sono i caratteristici tic lessicali dell'autore, termini desueti o eccessivamente letterari, come "eiettare" o "beanza", reiterati con tale frequenza da far sospettare al lettore che debbano avere un qualche valore particolare, al di là del loro mero significato. Quello che non c'è, rispetto per esempio ad altri romanzi come L'anno luce o Dies Irae, è un sovrappiù di manierismo - o se c'è, passa inosservato nell'abbondanza di materiale che il romanzo fornisce, e non risulta fine a se stesso o, come qualche volta è accaduto in passato, fastidioso alla lettura. Dal punto di vista della costruzione, Italia De Profundis è un romanzo anomalo, tanto che la definizione di "romanzo" gli sta stretta. I vari nuclei narrativi si aggregano sì attorno a un punto di attrazione centrale che è l'estate del 2007 e al doppio ribrezzo verso l'Italia e sé stesso, ma la tecnica è più quella dell'assemblaggio di materiali disparati. Lo è dichiaratamente, perché a più riprese lo stesso Genna mostra la propria insofferenza nei confronti di una narrazione lineare, che va da un inizio A a una fine B ("Bisogna proprio continuare come se l'esistenza fosse una storia?"), o nei confronti di dialoghi in cui ogni personaggio pronuncia la propria battuta di senso compiuto e cede poi la parola all'altro ("Io odio scrivere dialoghi letterari").
Il libro si conclude con una "seconda parte" che porta il titolo di "Italia De Profundis. Il racconto". Qui il protagonista descrive una sua esperienza di viaggio in un villaggio turistico a Cefalù: è come se tirasse le fila di tutto quello che è stato scritto nella prima parte. Il digusto, qui, raggiunge il culmine e trova espressione concreta negli avvenimenti che hanno luogo in questo villaggio turistico. Il disgusto per l'Italia e per gli italiani e il disgusto per sé stesso s'intrecciano e si confondono definitivamente. E' davvero come se gli ingredienti qui s'impastassero dando forma alla narrazione. Quello che prima veniva osservato dall'alto e in grande viene ora zoomato nel dettaglio e il villaggio, con la sua varia umanità (o, per meglio dire, disumanità), diventa esemplificazione e metafora del Paese. Sono pagine sarcastiche in cui predomina la cifra del grottesco, ma il grottesco e il sarcastisco si rivolgono anche e soprattutto contro lo stesso io narrante, in un costante processo di auto-scarificazione: il disprezzo verso di sé e verso l'umanità devastata corrono su binari paralleli. Di sé Genna mette in risalto l'irrimediabile solitudine - cercata come rifugio e, allo stesso tempo, patita come condanna ("Un uomo solo, venuto come me qui nel luogo affollato dove più acuta è la sensazione di abbandono, di solitudine, di diversità") -, l'ipocondria descritta iperbolicamente (lo scrittore che, in partenza per ogni viaggio, si porta dietro "mezzo padiglione di Niguarda"), la ripugnanza per il proprio corpo e il proprio io visti come indesiderabili e fonte di orrore, la condizione di intellettuale che, nell'occhio dell'italiano medio postmoderno, si rispecchia come una maledizione e come una diversità irriducibili ("Mi è fulmineamente chiaro che io non devo assolutamente, mai, per alcun motivo, dichiarare di avere a che fare con la cultura. Creerebbe diffidenza, ostilità, emarginazione. Percepisco nettamente un odio per la cultura che supera Bebelplatz la sera in cui incendiarono certi libri"). Ma dall'altro lato c'è questa umanità - di massa - che affolla il villaggio e che potenzia il senso di disgusto che già lo invade: "bovini umani, mufloni arancione", "enorme stalla dove si ingozzano manzi e vacche prima della morte o della benigna mungitura", "i bambini non sono tali: sono piranha", "osservo i bambini: futuro zero". Un luogo che, lungi dall'essere il "non luogo" ipotizzato dall'antropologo Marc Augé, è il buon vecchio "luogo di merda" dove si fanno "esperienze del cazzo" ed è "questo posto di lusso che coincide con la merda". A tratti mi sembra di rintracciare, in queste pagine ambientate nel villaggio di Cefalù, l'eco della voce di Aldo Busi, nei suoi reportage di viaggio. Ma c'è, credo, una differenza essenziale: mentre Busi, per quanto corrosivo nelle sue descrizioni, ha sempre un intento illuministico nei confronti dei suoi interlocutori che vuole in qualche modo educare, Genna sembra aver perso anche questa speranza. Diversamente da Busi, che esercita il suo verbo chiarificatore, Genna resta più spesso ammutolito di fronte alle manifestazioni di slabbramento e scivolamento civile di cui è testimone, fino a dichiarare: "Io so che sono io e che sono loro. Siamo tutti. Poiché un filtro culturale mi impedisce l'amore verso i miei fratelli e le mie sorelle, io esplodo in fuoco. Io mi incendio. Quando mi incendio, sto male. Mi sfogo, ma è letteralmente uno sfogo di rabbia".
(Vorrei aggiungere una considerazione extraletteraria, che sarebbe fuori luogo se questo pezzo fosse quello che non è, cioè una recensione da giornale o rivista letteraria. Leggendo certe descrizioni feroci che l'io narrante dà di sé ho provato il gusto un po' masochistico del rispecchiamento. Detto in modo banale: mi ci sono un po' ritrovato. Forse questo dispiacerà allo stesso Genna, che non approva questo rispecchiamento quando uno dei personaggi gli cita Dies Irae, dicendogli appunto di essersi ritrovato in quel romanzo: il suo intento sarebbe quello di aprire una distanza e non provocare un rispecchiamento. Ma tant'è. Devo forse cominciare a credere a un'oscura potenza delle stelle e del quadro astrale, visto che Genna è nato esattamente un giorno dopo di me?)
Un romanzo magmatico, quindi, ed eccessivo, che non si lascia stringere in queste poche parole di presentazione - infatti mi rendo conto di aver tralasciato fin troppi dei suoi elementi costitutivi. Certo è che se un giorno vorremo leggere qualcosa di potente sui nostri anni devastati e sulla condizione dolente del nostro paese, Italia De Profundis sarà una lettura irrinunciabile.