Si è aperta ieri, al Teatro Dal Verme, la decima edizione della Milanesiana. Modestamente, io c'ero. Elisabetta Sgarbi è salita sul palco e ha snocciolato con voce monocorde, come in una litania, la lista degli sponsor che hanno reso possibile la manifestazione: io mi aspettavo un ora pro nobis a ogni nome. Del resto la manifestazione è gratuita e, come ogni cosa gratuita organizzata a Milano, indipendentemente dal suo contenuto, attira schiere di spettatori che hanno cominciato a mettersi in coda davanti all'ingresso un'ora prima dell'inizio. Dopo la prolusione di Elisabetta Sgarbi e un'introduzione di Ferruccio De Bortoli è partita la vera e propria serata, il cui tema centrale era il bello e l'invisibile - ma di questo scriverò tra poco.
I primi due interventi sono stati quelli di Erica Jong e Michael Cunningham. La prima, inoltre, è stata insignita del premio creato, a proprio nome, da Fernanda Pivano e dedicato alla letteratura e alla cultura americane. Se raggruppo questi due autori è perché i loro testi si sono contraddistinti per una discreta vacuità e pretenziosità. Il tema della serata, ovviamente, le favoriva. Scegliere di scrivere sull'invisibile significa condannarsi a produrre qualcosa di irrimediabilmente artsy-fartsy, qualcosa che cerca a tutti i costi di essere "artistico". Questo effetto era particolarmente visibile - giusto per restare in tema - nel testo letto da Michael Cunningham: a me è sembrato un compitino scritto da uno studente che ci si è messo solo perché qualcuno l'ha costretto. E infatti, prima di iniziare a leggere, Cunningham ha dichiarato: "A Elisabetta non si può dire di no".
Il terzo a leggere è stato il critico d'arte australiano Robert Hughes. E qui il confronto - e il contrasto - con gli altri due è stato disastroso. Per Erica Jong e Michael Cunnigham, va da sé, che rispetto al testo letto da Hughes hanno fatto la figura dei microbi. Appena Hughes attacca a leggere si respira subito tutta un'altra aria. Qui c'è della sostanza e non solo fuffa artistoide. Hughes tiene praticamente una vera e propria lezione universitaria sul valore intrinseco dell'arte e su come questo valore non coincida con il suo valore di mercato, capace per lo più solo di creare feticci sovrastimati. E' una critica implacabile della pretenziosità, è un'analisi impietosa della realtà e dell'apparenza, una condanna di un mondo in cui la seconda ha finito per sostituirsi alla prima. In certi momenti mi viene quasi da pensare che si potrebbe riferire ai testi presentati in precedenza. L'intervento di Hughes è il più lungo di tutti: del resto si avverte che il suo non è un testo d'occasione, composto appositamente per La Milanesiana, e avrebbe potuto trovare collocazione in qualsiasi altro contesto. Difficile dire la stessa cosa dei compitini di Erica Jong e Michael Cunningham.
Ma in realtà se ieri sono andato alla serata d'apertura è perché c'era, in conclusione, il récital di Juliette Greco. C'è stato un periodo della mia vita in cui ascoltavo molto sia lei che gli chansonniers francesi in generali e quindi non volevo perdermi quella che potrebbe essere una delle ultime esibizioni dal vivo: la signora, dopotutto, ha già la bella età di ottantadue anni, peraltro portati benissimo. Non appena appare sul palco, come d'abitudine vestita di nero, è impossibile non provare emozione e non pensare che lì davanti c'è un vero e proprio pezzo di storia francese del secolo scorso. Il problema è che lei, ormai, è diventata l'icona di sé stessa e sembra si sia un po' calcificata nel suo ruolo di "musa degli esistenzialisti" e di cantante tormentata. Questo ruolo lo interpreta ormai così bene - e con piglio talmente melodrammatico - da aver cancellato i confini tra realtà e recitazione. A tratti rischia di scivolare nella macchietta, ma a salvarla è proprio questa identificazione con il suo ruolo. La voce è profonda, spesso roca, e più che cantare declama, ma questo non è un difetto, poiché Juliette Greco - come tante altre interpreti francesi, Barbara in primis - è una diseuse. Ieri sera l'interpretazione dei suoi pezzi più classici mi ha dato l'impressione di una loro "scheletrificazione", come se a poco a poco, a forza di cantarli, Greco li avesse prosciugati della polpa, privilegiando il gesto declamatorio, carico di drammaticità. Questo approccio però non funziona sempre: alcune canzoni vi si prestano, perché sono di per sé drammatiche, quando non tragiche. E' il caso di J'arrive, Ne me quitte pas, La chanson des vieux amants, C'était un train de nuit. Altre canzoni, che sarebbero invece per loro natura più allegre, vengono rovinate da questo tipo di esecuzione: è il caso di L'accordéon e Jolie mome. Ho trovato invece perfetta invece l'interpretazione di Bruxelles, di cui viene mantenuto il tono scanzonato e sincopato. Completamente distrutta, invece, la versione ossificata di Avec le temps, quasi irriconoscibile. A completare la scaletta Juliette Greco ha cantato anche Mathilde - anche questa di Jacquel Brel che, nella scelta dei pezzi di ieri sera, ha fatto la parte del leone - e la più recente Le Contre-Ecclesiaste (Rien n'est vanité). Un unico appunto da fare, sul pubblico: va bene che la serata era gratuita, ma è stato spiacevole vedere gente che si alzava per andarsene nel bel mezzo di una canzone senza nemmeno aspettare quei pochi minuti che mancavano alla fine. Credo che un minimo di rispetto, all'artista sul palco, sia dovuto.
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