Per gli appassionati e per i curiosi di musica elettronica il documentario Kraftwerk and the Electronic Revolution dovrebbe essere una buona introduzione. Io l'ho guardato attirato soprattutto dalla speranza di conoscere qualche dettaglio in più sulla storia musicale dei Kraftwerk e di vedere qualche loro video raro o inedito. La speranza non è stata del tutto soddisfatta nella maniera in cui speravo io. Se siete fan dei Kraftwerk saranno poche le cose nuove che apprenderete da questo dvd.
Il titolo è fuorviante: è vero che il fulcro del documentario sono i Kraftwerk, ma visti soprattutto in quanto esponenti - fondamentali, certamente - dell'evoluzione dell'elettronica tedesca tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta. Nelle tre ore della sua durata ci viene offerta una lunga cavalcata sulle origini prima del "Krautrock", con i tentativi dei musicisti tedeschi di differenziarsi dal pop-rock anglosassone, e poi della musica elettronica vera e propria. Di quest'ultima viene tracciata la genealogia e vengono citati anche i padri nobili come Pierre Schaeffer, l'inventore della "musique concrète", e il monumentale Karl-Heinz Stockhausen. Vengono poi presentate, con frammenti di filmati d'epoca e brani musicali, le scene principali dove allora aveva luogo la sperimentazione musicale: a Berlino, dove operavano tra gli altri i Tangerine Dream e Klaus Schulze, a Monaco e a Duesseldorf, dove appunto avrebbero cominciato ad affermarsi Ralf Hutter e Florian Schneider, il nucleo duro - e stabile - dei Kraftwerk, inizialmente con il nome di Organisation. Tutta questa parte introduttiva è molto dettagliata e qui assistiamo all'affermarsi (e, successivamente, al declinare) di gruppi come Amon Düül, Popol Vuh, Kluster, Can e Ash Ra Tempel.
L'ossatura che regge la narrazione del film è costituita da una serie di interviste a vari protagonisti dell'epoca: musicisti come Klaus Schulze, Conrad Schnitzer e Dieter Moebius dei Kluster, giornalisti e studiosi come Ingeborg Schober, Diedrich Diedrichsen, Mark Prendergast e così via. Sono soprattutto i giornalisti e gli studiosi che offrono qui un'interpretazione convincente dell'estetica innovativa dei Kraftwerk e del loro desiderio di creare una sorta di "nuova germanità", superando così il tabù di matrice postnazista che a quell'epoca colpiva tutto ciò che aveva il solo sentore di essere tedesco. Quello che però manca è proprio la "cosa in sé". Come è noto, i Kraftwerk non rilasciano quasi mai interviste e per questo motivo la voce di Ralf Hutter e Florian Schneider è completamente assente. L'unico a rendere testimonianza di parte di quell'epoca è Karl Bartos, che dei Kraftwerk è stato membro dal 1975 - cioè dall'anno di Radioactivity - fino al 1991. Del periodo "eroico" degli inizi non ci viene raccontato nulla in presa diretta. Karl Bartos mantiene un certo distacco - diversamente forse da quanto avrebbe fatto Wolfgang Flur, l'altro "transfuga" dopo il 1991, che qualche anno fa pubblicò un libro stillante acrimonia -, ma sottolinea comunque come, almeno fino a un certo punto, sia lui che Flur (e come loro gli altri musicisti ingaggiati da Ralf e Florian) erano considerati poco più di "impiegati" al soldo delle due menti creative.
Poiché Kraftwerk and the Electronic Revolution è di produzione inglese, c'è anche una parte dedicata all'influsso notevole della musica dei Kraftwerk sugli sviluppi dell'elettronica inglese, soprattutto agli inizi degli anni ottanta, e sulla sua progressiva commercializzazione man mano che gli strumenti diventavano sempre più accessibili. Il primo a riconoscere la novità dei Kraftwerk è un certo David Bowie che, in crisi creativa, si trasferisce a Berlino a metà degli anni settanta e, con Brian Eno, coniuga la sperimentazione elettronica con il rock, facendo conoscere la prima anche a un pubblico che precedentemente ne era ignaro. Il risultato più alto di questo "matrimonio" è probabilmente la seconda facciata di "Low" (e a David Bowie rendono omaggio gli stessi Kraftwerk, citandolo poi in "Trans Europe Express"). In seguito viene evidenziato il debito di riconoscenza - e, in qualche caso, la filiazione diretta - di molto synth-pop britannico degli anni ottanta nei confronti del gruppo tedesco. Karl Bartos cita come esempio positivo gli Human League, che a suo avviso sanno coniugare la tradizione tipicamente anglosassone e la musicalità beatlesiana con i nuovi ritmi elettronici, mentre distorce il naso davanti ad alcuni che, invece, si limitano a fare quella che lui giudica una pura e semplice "parodia": è il caso di Gary Numan.
Il difetto maggiore di questo documentario è però che, giunto agli inizi degli anni ottanta, perde la sua verve e liquida in pochi minuti il resto della produzione e i successivi sviluppi kraftwerkiani. Se è vero che da pionieri che erano hanno finito per essere stati se non superati quanto meno inglobati dalla loro epoca, è altrettanto vero che le loro produzioni hanno sempre avuto un marchio di qualità che li contraddistingueva. Stupisce, tra l'altro, un giudizio eccessivamente tranchant su altri artisti elettronici come Jean Michel Jarre, giudizi che peccano di superficialità, considerando che le prime sperimentazioni di Jarre sono quasi coeve ai primi lavori dei Kraftwerk. Non viene fatto alcun cenno, per esempio, a "Electric Café" del 1986, forse giudicato troppo commerciale nel suo violare esplicitamente la regola del "concept-album" più o meno mantenuta fino ad allora, così come non viene detto quasi nulla sulle sorti del gruppo dopo il 1991, con le defezioni di Wolfgang Flur e di Karl Bartos e con i successivi nuovi ingressi. C'è solo un breve cenno, en passant, a "Tour de France Soundtracks" del 2003 e poi più niente. Inoltre è un peccato che, al di là delle interviste, delle testimonianze e della narrazione, tutti i video e i filmati presentati siano solo frammentari: non c'è una singola esibizione dei Kraftwerk in versione integrale. Un documentario interessante per chi nulla o poco sa dell'argomento, ma un po' deludente per chi avrebbe voluto vedere più cose dell'epoca a cui si riferisce.
[Aggiornamento: E con colpevole e notevole ritardo apprendo solo oggi, sei mesi dopo, che anche Florian Schneider-Esleben ha lasciato i Kraftwerk. Solo che lui era il co-fondatore. Resta Ralf Hutter...]
Il titolo è fuorviante: è vero che il fulcro del documentario sono i Kraftwerk, ma visti soprattutto in quanto esponenti - fondamentali, certamente - dell'evoluzione dell'elettronica tedesca tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta. Nelle tre ore della sua durata ci viene offerta una lunga cavalcata sulle origini prima del "Krautrock", con i tentativi dei musicisti tedeschi di differenziarsi dal pop-rock anglosassone, e poi della musica elettronica vera e propria. Di quest'ultima viene tracciata la genealogia e vengono citati anche i padri nobili come Pierre Schaeffer, l'inventore della "musique concrète", e il monumentale Karl-Heinz Stockhausen. Vengono poi presentate, con frammenti di filmati d'epoca e brani musicali, le scene principali dove allora aveva luogo la sperimentazione musicale: a Berlino, dove operavano tra gli altri i Tangerine Dream e Klaus Schulze, a Monaco e a Duesseldorf, dove appunto avrebbero cominciato ad affermarsi Ralf Hutter e Florian Schneider, il nucleo duro - e stabile - dei Kraftwerk, inizialmente con il nome di Organisation. Tutta questa parte introduttiva è molto dettagliata e qui assistiamo all'affermarsi (e, successivamente, al declinare) di gruppi come Amon Düül, Popol Vuh, Kluster, Can e Ash Ra Tempel.
L'ossatura che regge la narrazione del film è costituita da una serie di interviste a vari protagonisti dell'epoca: musicisti come Klaus Schulze, Conrad Schnitzer e Dieter Moebius dei Kluster, giornalisti e studiosi come Ingeborg Schober, Diedrich Diedrichsen, Mark Prendergast e così via. Sono soprattutto i giornalisti e gli studiosi che offrono qui un'interpretazione convincente dell'estetica innovativa dei Kraftwerk e del loro desiderio di creare una sorta di "nuova germanità", superando così il tabù di matrice postnazista che a quell'epoca colpiva tutto ciò che aveva il solo sentore di essere tedesco. Quello che però manca è proprio la "cosa in sé". Come è noto, i Kraftwerk non rilasciano quasi mai interviste e per questo motivo la voce di Ralf Hutter e Florian Schneider è completamente assente. L'unico a rendere testimonianza di parte di quell'epoca è Karl Bartos, che dei Kraftwerk è stato membro dal 1975 - cioè dall'anno di Radioactivity - fino al 1991. Del periodo "eroico" degli inizi non ci viene raccontato nulla in presa diretta. Karl Bartos mantiene un certo distacco - diversamente forse da quanto avrebbe fatto Wolfgang Flur, l'altro "transfuga" dopo il 1991, che qualche anno fa pubblicò un libro stillante acrimonia -, ma sottolinea comunque come, almeno fino a un certo punto, sia lui che Flur (e come loro gli altri musicisti ingaggiati da Ralf e Florian) erano considerati poco più di "impiegati" al soldo delle due menti creative.
Poiché Kraftwerk and the Electronic Revolution è di produzione inglese, c'è anche una parte dedicata all'influsso notevole della musica dei Kraftwerk sugli sviluppi dell'elettronica inglese, soprattutto agli inizi degli anni ottanta, e sulla sua progressiva commercializzazione man mano che gli strumenti diventavano sempre più accessibili. Il primo a riconoscere la novità dei Kraftwerk è un certo David Bowie che, in crisi creativa, si trasferisce a Berlino a metà degli anni settanta e, con Brian Eno, coniuga la sperimentazione elettronica con il rock, facendo conoscere la prima anche a un pubblico che precedentemente ne era ignaro. Il risultato più alto di questo "matrimonio" è probabilmente la seconda facciata di "Low" (e a David Bowie rendono omaggio gli stessi Kraftwerk, citandolo poi in "Trans Europe Express"). In seguito viene evidenziato il debito di riconoscenza - e, in qualche caso, la filiazione diretta - di molto synth-pop britannico degli anni ottanta nei confronti del gruppo tedesco. Karl Bartos cita come esempio positivo gli Human League, che a suo avviso sanno coniugare la tradizione tipicamente anglosassone e la musicalità beatlesiana con i nuovi ritmi elettronici, mentre distorce il naso davanti ad alcuni che, invece, si limitano a fare quella che lui giudica una pura e semplice "parodia": è il caso di Gary Numan.
Il difetto maggiore di questo documentario è però che, giunto agli inizi degli anni ottanta, perde la sua verve e liquida in pochi minuti il resto della produzione e i successivi sviluppi kraftwerkiani. Se è vero che da pionieri che erano hanno finito per essere stati se non superati quanto meno inglobati dalla loro epoca, è altrettanto vero che le loro produzioni hanno sempre avuto un marchio di qualità che li contraddistingueva. Stupisce, tra l'altro, un giudizio eccessivamente tranchant su altri artisti elettronici come Jean Michel Jarre, giudizi che peccano di superficialità, considerando che le prime sperimentazioni di Jarre sono quasi coeve ai primi lavori dei Kraftwerk. Non viene fatto alcun cenno, per esempio, a "Electric Café" del 1986, forse giudicato troppo commerciale nel suo violare esplicitamente la regola del "concept-album" più o meno mantenuta fino ad allora, così come non viene detto quasi nulla sulle sorti del gruppo dopo il 1991, con le defezioni di Wolfgang Flur e di Karl Bartos e con i successivi nuovi ingressi. C'è solo un breve cenno, en passant, a "Tour de France Soundtracks" del 2003 e poi più niente. Inoltre è un peccato che, al di là delle interviste, delle testimonianze e della narrazione, tutti i video e i filmati presentati siano solo frammentari: non c'è una singola esibizione dei Kraftwerk in versione integrale. Un documentario interessante per chi nulla o poco sa dell'argomento, ma un po' deludente per chi avrebbe voluto vedere più cose dell'epoca a cui si riferisce.
[Aggiornamento: E con colpevole e notevole ritardo apprendo solo oggi, sei mesi dopo, che anche Florian Schneider-Esleben ha lasciato i Kraftwerk. Solo che lui era il co-fondatore. Resta Ralf Hutter...]
guarda che alla Shake (libreria) ho trovato, se sei un fan, "Kraftwerk" un promettente libro reportage di un Kraftwerk, Wolfang Flür... incredibilmente tradotto in italiano.
Posted by: Paolo, por supuesto | 29/06/2009 at 23:00
Tsè: l'ho comprato (e letto) quand'è uscito :)
E' un libro delirante, in cui Flur vuole fare anche il letterato e racconta persino i suoi sogni e poi la mena per tutto il libro con il suo progetto (Yamo e "Time pie"). Un disco che, una volta comprato e ascoltato, be'... capisci chi erano davvero i genii nei Kraftwerk, eh eh eh.
Posted by: stefano | 29/06/2009 at 23:04
che cretino, l'avevi già citato nel testo. scusa ero entusiasta di segnalarti la mia scoperta che l'ho fatta prima di leggere bene il tutto.
Posted by: Paolo, por supuesto | 29/06/2009 at 23:08